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Capitolo 2 Damon

Capitolo 2

Damon

Siamo frammenti, pezzi di qualcosa che cerchiamo di incastrare, su una strada chiamata destino.

«Cindy, piantala!», la rimprovero.

Lei ride, i suoi occhi sono neri come la pece, profondi, sembrano volerti inghiottire nel buio, creando il contrasto perfetto tra la pelle candida e il rosso dei capelli, che porta rasati su un lato.

«Piantala tu, Dam, sei così pesante alle volte», sbuffa, lasciandosi cadere di peso sul divano.

La prendo per un polso.

«Non provocarmi».

Si sporge verso di me senza alcun timore, i suoi occhi penetrano in profondità.

«Altrimenti?», soffia.

«Cindy!», grido e scatto a sedere sul letto. «Un'altra volta», mormoro toccandomi il petto, dove il cuore martella prepotente contro il costato tanto da farmi male. Cerco di regolarizzare il respiro che sento mancare. È come quando sogni di essere sott'acqua, nuoti ma non riesci mai a riemergere; l'ossigeno inizia a mancarti, i polmoni bruciano ed è esattamente così che mi sento, mentre poco per volta mi riconnetto alla realtà. Mi sfilo la maglia dalla testa, sono madido di sudore... come sempre da quando le mie notti sono accompagnate dai soliti incubi. Al solo ricordo di lei, i brividi percorrono il corpo dandomi una scarica elettrica. «I demoni sono qui», sussurro a me stesso, toccando la testa che quasi mi esplode.

Il ticchettio della sveglia, appesa alla parete, è il solo rumore che spezza il silenzio che mi avvolge; fisso i secondi quasi interminabili scorrere. Mi sono svegliato, circa una settimana fa, con il suono incessante di un bip che mi martellava le tempie. Avevo aghi infilati ovunque nelle braccia che facevano scorrere Dio solo sa cosa nelle mie vene. Volevo solo che il mondo si spegnesse.

Ed è stato esattamente così, si è spento nel momento più bello, quando stavo sfiorando il paradiso, mentre sentivo il suo respiro scaldarmi il volto, il suo sapore contro il mio che mi chiamava. Non ho avuto nemmeno il tempo di realizzare, di rendermi conto di quello che mi stava succedendo, era tutto troppo confuso. Il calore era diventato troppo forte, come se stessi letteralmente bruciando dall'interno. Lo sentivo crescere, prendersi ogni cellula per ridurla in pezzi e quando ha raggiunto la testa, ha semplicemente staccato la spina; poi... solo il vuoto. Il nulla più assoluto. Sono stato inghiotto da un buco nero del quale sento ancora il vuoto scavarmi l'anima.

Un'infermiera mi ha guardato come se fossi un miracolato, le sue esatte parole sono state: «Ti ha salvato un angelo». "Forse", ho pensato fra me e me.

«Overdose», mi aveva spiegato un medico mentre mi osservava con sufficienza, giudicando la mia azione. Non tutti riescono a sentire quella parola, non hanno la fortuna di riaprire i loro fottuti occhi, perché la merda nella quale si sono persi, alla fine, ha avuto la meglio.

Cazzo, questa volta ho superato davvero il limite.

Mi ero rimproverato, come se questo bastasse, come se ora ogni cosa sarebbe potuta andare meglio, ma in realtà avevo appena varcato le porte dell'inferno senza nemmeno saperlo. Sono bastate poche ore per farmi precipitare ancora più a fondo, mentre incominciavo ad affrontare quarantotto ore di tormenti. Le più lunghe della mia vita, nelle quali ho buttato fuori nel modo più brutale possibile, tutto ciò che in poco tempo avevo mandato giù... veleno.

Il corpo tremava, ero sudato fradicio, come se fossi emerso dall'oceano. I muscoli si contorcevano, scossi da spasmi che non riuscivo a controllare mentre lo stomaco stringeva le sue pareti contro i miei organi provocandomi dolori lancinanti, fino a ritrovarmi piegato su me stesso, con le ginocchia al petto, agonizzante e la paura si insinuava sempre più a fondo nella testa.

Fottuti flash mi facevano perdere la cognizione di tempo e spazio, in bilico costante fra sogno e realtà. Stringevo le lenzuola nei pugni cercando il modo per salvarmi, ma non c'era via di scampo, stavo pagando il prezzo per la mia ennesima cazzata e lo sto ancora pagando rinchiuso qui dentro, in un centro per tossicodipendenti.

Perché è questo che sono. Non vuoi accettare la realtà finché non ti viene sbattuta in faccia con violenza, finché chi ti osserva da capo a piedi ne ha visti mille passare sotto i propri occhi e tu sei l'ennesimo che cercano di salvare da sé stesso. Ecco dove mi sono recluso con le mie stesse mani, prigioniero delle scelte sbagliate e schiavo dei miei gesti; ora sono a un bivio, dove scegliere la strada giusta da percorrere.

«Sanders, tutto bene?».

Jemie, uno degli infermieri di turno, si affaccia sulla porta della camera, mentre sta facendo il suo solito giro di controllo.

«Una meraviglia», rispondo sarcastico.

Si poggia allo stipite della porta, incrociando le braccia al petto con fare sicuro. Non mi sta sulle palle come gli altri che a volte ti trattano come fossi solo un numero, uno che tanto tornerà a torturarsi fino alla volta successiva, nella quale il destino ti volterà le spalle e non ti risveglierai più.

«Non è facile, ma puoi farcela, hai fatto la scelta giusta».

Rido nervoso. Non ho avuto scelta, in realtà. Quando ho visto Arleen entrare nella mia camera d'ospedale, ho realizzato che non stavo salvando nessuno, ma stavo portando tutti all'inferno insieme a me. Mi ha scongiurato, pregato e le sue lacrime disperate hanno bagnato il mio volto. Non potevo dirle di no, che ero così codardo da non voler affrontare i miei problemi. I suoi occhi imploravano il fratello cazzone di un tempo. Ho accettato di farmi aiutare.

È difficile ammetterlo, lo è tutt'ora quando provano a entrarmi nella testa, convinti di sapere cosa ti spinga a farti tanto male, ma non lo possono sapere finché non ne porti le cicatrici addosso.

«Vuoi qualcosa?», mi chiede Jamie continuando a fissarmi.

«Lo sai che non prendo nulla», gli ricordo, riferendomi ai sedativi che potrebbero aiutarmi a riposare meglio, ma non voglio niente del genere, i miei incubi sono pezzi della mia vita, tasselli mancanti che devo rimettere al loro posto.

«Lo so che sei testardo. Non ho mai visto uno come te e credimi che ne ho visti di ragazzi passare in queste stanze», spiega.

Jamie ha più o meno quarantacinque anni, se li porta discretamente bene. Alto, spalle larghe, moro, carnagione olivastra. È sposato con due figlie, me l'ha raccontato un giorno per distrarmi, mentre mi iniettava uno dei loro intrugli per le mie crisi.

«Non sono testardo, voglio solo cercare di essere lucido il più possibile. Cazzo, non mi riesce già così; se mi dai pure quella merda, amico, da qui non esco più», sospiro, pensando a quando potrò realmente andarmene da questo posto.

Ci sono notti nelle quali se non sono sveglio per i miei incubi, lo sono per quelli degli altri. Li sento urlare in modo disumano, le loro grida mi entrano fin dentro le ossa, mentre cercano di lottare, di sopravvivere, perché è questo che cerchi di fare, cerchi di sopravvivere. Sei vivo ma non abbastanza, perché sei morto dentro, ma non del tutto. Sei malato, ma puoi guarire se lo vuoi. E, cazzo, io lo voglio con tutto me stesso.

«Lei era qui anche oggi», commenta senza incontrare il mio sguardo, che in questo momento lo sta incenerendo.

Lei è sempre qui, nella mia testa, in questo cuore che perde un battito al solo pronunciare il suo nome.

Lei che ha visto il lato peggiore di me.

Lei che, ancora una volta, ha subito le mie cazzate.

Lei, Allyson, un nome inciso ormai nella mia anima.

«Fatti i cazzi tuoi, Jamie», lo avverto e lui sorride.

«Stai sbagliando a tenerla lontana», insiste stuzzicando la mia pazienza.

Serro le mani in due pugni.

Per la prima volta le nocche non sono sbucciate e sento mancarmi quella scarica di adrenalina mentre colpivo senza sosta il mio avversario, all'interno di quella gabbia che mi ha imprigionato con i miei demoni come se fossi un'animale.

«Non merita di vedere anche questo», dico indicandomi.

In una settimana ho perso più di cinque chili, le occhiaie mi contornano sempre di più lo sguardo, le mani non cessano mai di tremare e le crisi d'astinenza sono imprevedibile, sopraggiungono all'improvviso. Ti attaccano come un nemico alle spalle, che cerca di buttarti al tappeto. Ti piegano in due in un solo istante, nel quale senza rendertene conto ti ritrovi steso a terra, il corpo scosso dagli spasmi in attesa che qualcuno accorra a iniettarti il liquido magico che pian piano ti restituisce al mondo.

Non può vedermi in questo stato. Non l'ho permesso nemmeno in ospedale nonostante sentissi i suoi singhiozzi oltre la porta artigliarmi il cuore, la sua voce calda che mi penetrava sotto la pelle, ma le devo risparmiare almeno questo schifo. Ho dovuto tenerla lontano da me, anche se l'unica cosa che mi avrebbe fatto respirare a pieni polmoni sarebbe stata proprio la mia Al. Ma per una volta non ho voluto pensare a me, questa volta so di fare la cosa giusta. È già difficile reggere lo sguardo di mia madre che continua a venire ogni santo giorno. Prima Arleen, ora io. Avremo mai pace? Il sole inizierà a sorgere anche nelle mie giornate, dove il cielo è sempre più grigio e sembra che si sia mangiato il suolo dove cammino?

«Quella ragazza è ostinata, Damon, e tu...», mi addita Jamie, con un lieve sorriso stampato in faccia, «hai bisogno di lei».

Serro la mascella, indispettito dalla verità delle sue parole, e ridendo fa un passo indietro, salutandomi con un cenno della mano. Ho sempre avuto bisogno di lei, anche se continuavo a negarlo a me stesso, perché era più facile fuggire dalle emozioni, era più semplice cercare di non provarle, perché sapevo che quando l'avrei sentita davvero, mi avrebbe fatto male.

«Come te la passi?».

Sono seduto sul mio letto, Cody è in piedi con la schiena poggiata alla parete, le mani infilate nelle tasche dei jeans.

«Bene, amico, non vedi?», ghigno.

«Non essere così coglione!», abbaia seccato.

«Non riesco a essere meglio di così», confesso senza guardarlo in volto.

«A quanto pare, sì, visto che ti stai facendo rimettere in piedi».

Una risata amara sfugge dalle mie labbra.

«Mi sto facendo rimettere in piedi?», scuoto la testa. «Non so se sono più a pezzi ora o mentre ero strafatto», mi sento uno schifo, apatico, senza stimoli e mi sembra quasi di impazzire. Quei coglioni degli strizzacervelli la chiamano la fase "dell'umor nero", forse non sanno che i tempi nei quali il mio umore era migliore sono molto lontani.

«Credi che mi faccia piacere vederti così? Vorrei che fossimo in qualche bar, in giro a fare cazzate o...», lo guardo negli occhi, di un nocciola più lucido del solito, lo sguardo di chi c'è sempre stato, quello di chi mi ha guardato le spalle quando io, invece, gliele voltavo.

«Giuro che se ti metti a piangere, ti prendo a calci in culo», lo sfotto, anche se mi rendo conto ti quanto stia soffrendo per le mie stronzate, per non aver voluto dire di no quando avrei potuto, quando ero in grado di fermarmi in tempo in questa corsa che ho fatto solo contro me stesso, solo per ritrovarmi sconfitto. Con i pezzi di una vita incasinata fra le mani da rimettere a posto. Ma il problema è che non so da dove iniziare, da dove riprendere senza farmi male e senza farne agli altri.

«Non piangerei mai per un coglione come te», dice scrollando le spalle in modo sicuro.

«Come no», ridiamo per un istante, nel quale dimentico di essere in questa stanza dalle pareti color crema, con solo un letto e un armadio ad arricchirla e il vuoto della mia anima a colmarla.

«P-posso?».

Il cuore si ferma, il respiro si incastra nei polmoni bruciando come fosse fuoco. Una chioma di capelli biondi sono la prima cosa che vedono i miei occhi, prima di incontrare il suo sguardo. Il colore del mare nel quale mi sono tuffato come se non sapessi più nuotare e volessi solo annegare in lei, nella purezza delle sfumature argentate di quegli occhi che mi avevano reso prigioniero di un sentimento che non conoscevo.

«Al... Al, tu...».

Sorride, non sembra soffermare molto la sua attenzione su di me, come ho immaginato mille volte nella mia testa, chiuso in queste quattro mura, con il solo ricordo di ciò che eravamo a farmi compagnia e il timore di cosa avrei visto nei suoi occhi quando si sarebbero posati sul mio corpo segnato più di prima.

«Non dovrei essere qui. È questo che stai dicendo, Dam?», si avvicina posando ai piedi del letto un contenitore porta vivande.

«Già, non dovresti stare qui», ribatto. Questo non è un posto per te, io non sono la persona per te. Guardami, guardami davvero e scappa, perché so che questa volta non ti lascerò scivolare dalle mie mani se rimani. Si toglie il capotto.

«Fuori si gela», commenta stringendosi nelle spalle come se niente fosse, come se non mi avesse sentito.

«Io... io ora vado», esclama Cody mentre lo fulmino con lo sguardo, ma fa finta di non vedermi, dandomi una pacca sulla spalla per poi squagliarsela.

«Come hai fatto? Ho detto chiaramente che...».

Sorride ancora una volta e vengo rapito dalla sua bocca, la forma che prende mentre si piega all'insù creando quelle piccole fossette ai lati. I capelli legati in una coda alta le lasciano il volto libero come piace a me. Mi lascio trascinare dai lineamenti che ho impressi nella mente, da quando la mia matita, senza che riuscissi a fermarla, aveva preso a disegnare il suo viso, senza immaginare che sarebbe diventata la mia ossessione. Mi mordo il labbro inferiore fermando la corsa di quei ricordi, mentre cerco di arrestare anche quella che sta facendo il mio cuore nel vederla nuovamente di fronte ai miei occhi.

«Che non erano gradite visite da parte di Allyson Evans, lo so. Ma sai, sono abbastanza testarda. In più, sono anche molto gentile, cordiale e disponibile», spiega gesticolando in modo tranquillo. Come se non ti avessi rovinato la vita, come se non ti avessi trascinata a fondo con me.

«Disponibile?», scandisco schioccando la lingua contro il palato. Non mi piace questa parola associata a lei. I nervi si tendono senza che me ne accorga e la voglia di prenderla per stringerla con possesso invade ogni mia terminazione nervosa, ma non lo faccio.

Non meriti che queste mani ti tocchino ancora dopo quello che ti ho fatto, che ho fatto a un "noi" che non siamo riusciti a respirare.

«Jamie è molto simpatico e ho pensato di preparare dei muffin per i suoi figli; alla fine è stato così gentile da farmi passare».

Corrugo la fronte inarcando un sopracciglio.

«Jamie? Brutto figlio di...».

La mano di Al copre la mia bocca inebriandomi del suo profumo, socchiudo gli occhi perché mi voglio smarrire nella fragranza che accarezza la sua pelle, un misto di cocco e vaniglia. La prendo nella mia ma la lascio subito, i tremori sono troppo forti e mi irrigidisco, non voglio che mi veda in questo stato.

«Ora che mi hai visto, puoi anche andare», dico con poca delicatezza, alzandomi in piedi per raggiungere la finestra che si affaccia sul cortile della clinica; un piccolo giardino è il solo colore fra queste mura bianche. Guardo qualche ragazzo passeggiare, qualcuno chiacchiera con un parente o forse un amico. Mi basta vederla e sentirla alle mie spalle per trovarmi sospeso nel vuoto; riesce a destabilizzarmi, a strapparmi via quel poco di corazza che cerco ancora di tenermi cucita addosso.

Cazzo, Al.

«Continui a cacciarmi via, ma io continuo a tornare perché so che mi vuoi anche tu».

Ti ho sempre voluta da stare male, da sentire l'aria mancare, ma non te l'ho mai detto.

La sua mano si posa sulla mia schiena. Mi irrigidisco sotto il suo tocco che brucia e non perché lei non mi faccia più lo stesso effetto, ma perché la persona che si trova di fronte, in questo momento, non è la stessa che ha conosciuto a settembre.

«Non puoi volere uno come me», mormoro ad alta voce quei pensieri che ho custodito come segreti.

«Ti ho sempre voluto, anche quando ancora non lo sapevo. Credo che funzioni così. Ti detestavo, ma in realtà...», mi volto e cerco di guardarla negli occhi, sprofondo in quello sguardo, consapevole che annegherò ancora una volta in lei.

«In realtà?».

Mi prende le mani nelle sue, tentenno, le dita scivolano incastrandosi, le sue carezze mi tranquillizzano.

«Ma in realtà mi avevi già strappato il cuore dal petto», confessa in un soffio.

Poggio la fronte contro la sua.

«Lo sai quanto cazzo sono incasinato? Non sai quanto sia difficile provare a camminare senza farsi male, quando mi sento schiacciare dal peso del mondo malato che mi sono costruito attorno...», confesso con la voce che si incrina per la prima volta; sto perdendo le forze, quelle che hanno lottato contro la persona sbagliata... lei. «Lo sai che non so quando ne verrò fuori, che non potrò mai farti promesse?», le dico con gli occhi chiusi mentre rivedo frammenti di noi scorrermi davanti, sferzandomi la mente.

«So che ce la farai a venirne fuori», sussurra soffiando contro il mio viso.

«Non so più nemmeno chi sono, Al», ammetto. Sono chiuso in un posto di merda fingendo che tutto vada bene e se mi guardassi dentro, vedrei solo i suoi occhi grigio-azzurri provare a darmi la forza.

«Dam...», la sua mano accarezza il mio volto.

«Al, non sono bravo a fare un cazzo, figurati a parlare in questo momento», mi sgretolo fra le sue mani, sulle sue parole dalle quali per la prima volta forse mi lascio avvolgere. Le prendo la mano e la porto alla bocca. Poso piccoli baci sulle sue nocche. «Qualsiasi cosa accada, ci ritroveremo», mormoro la nostra promessa. Gli occhi le si riempiono di lacrime. «Aspettami, lasciami un pezzo del tuo cuore, lascialo per me, perché ritornerò, perché io torno sempre da te, Al», le confesso per la prima volta. Il suo volto si nasconde nell'incavo del mio collo. La stringo a me cullandola fra le mie braccia e dopo tanto lo sento, sento di essere a casa, con lei. «Insegnami, Al, insegnami a sognare, strappami via dai miei incubi. Portami lontano da qui, dai casini che ho lasciato», la scongiuro, con la paura di non farcela che pompa forte nelle vene.

«Ti aspetto, Dam, io ti spetto», promette tirando su col naso; non sarebbe la mia Al se non la facessi piangere anche ora. Le prendo il viso fra le mani, piegando le ginocchia per arrivare alla sua altezza.

«Cosa aspetti?», le chiedo riducendo gli occhi a due fessure.

«C-cosa vuoi dire?».

Abbozzando un sorriso sbieco.

«Baciami, Al», soffio contro la sua bocca. «Cazzo, baciami!», la supplico.

Le mordo il labbro inferiore, chiudo gli occhi e in questo modo lascio che il mondo scompaia. Le sue labbra sono calde e si adattano perfettamente alle mie; ci inseguiamo in baci che ricordando i nostri tormenti, mentre i respiri incalzano. La mia lingua la reclama sfiorandole il labbro superiore che si socchiude al mio tocco. Ci ritroviamo come se non ci fossimo mai lasciati.

Ed è proprio così, tu mi appartieni, piccola, sei la sola cosa che mi tiene ancora in vita; scorri nel mio sangue, vivi nel mio cuore e occupi la mia mente.

Con i pollici le accarezzo le guance.

«Aspettami, piccola, perché io tornerò da te».

Non lo prometto solo a lei, ma soprattutto a me stesso.

SPAZIO XOXO:

Come vi sembrano questi due primi capitoli?

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