Capitolo 19 Damon
In trappola dal peso delle nostre stesse scelte.
Chiudo il portone di legno bianco laccato alle mie spalle. Sono stato fuori, con indosso solo un asciugamano in vita. Avrei dovuto sentir freddo, ma la verità è che da quando la sua bocca ha preso a muoversi, non ho sentito più niente. Le sue parole, dapprima confuse, hanno incominciato ad affondare le mie sicurezze, mi hanno schiacciato strappandomi il respiro, il suolo da sotto i piedi e tolto tutto in soli venti minuti.
«Tutto bene, Sanders?», mi chiede Arnold; lo guardo ma in realtà è come se non lo vedessi. Sento la bile salirmi in gola, corro verso il bagno raggiungendo a stento il water al quale mi aggrappo. Riverso quel poco che ho nello stomaco, liberandomi di quelle frasi che continuano a martellarmi il cervello. Sollevo la testa, poggiando la mano alla parete di piastrelle di ceramica beige. Mi sostengo fino al lavabo dove apro l'acqua e con entrambe le mani sciacquo il volto.
«Mi devo svegliare», impongo quasi a me stesso, nella speranza che sia solo un incubo mentre continuo a strofinare lo sporco che si insinua fin sotto le ossa. Guardo il riflesso di me stesso allo specchio, scuoto il capo e un sorriso amaro che si trasforma in una risata isterica colma il silenzio circostante. Mi aggrappo talmente forte al marmo del lavandino che le nocche sbiancano. Il respiro aumenta, insieme al cuore che sembra volermi esplodere fuori dal petto. Arranco verso la scala che porta al piano superiore, una fitta al petto mi mozza il fiato in gola quando ripenso al suo corpo contro il mio poche ore prima, al suo sorriso, alla sua voce così dolce e rilassata che mi cullava con le sue parole, come solo lei è capace di fare.
Un passo dietro l'altro sento i gradini del parquet scricchiolare sotto il mio peso e un senso di oppressione preme talmente forte mentre mi avvicino sempre di più alla porta della mia stanza. Fisso la maniglia di ottone, la guardo con la mano sospesa a mezz'aria con il timore di toccarla, come se scottasse. Espiro tutta l'aria che ho nei polmoni, la apro. Allyson è seduta sul letto, i capelli le ricadano di lato, coprendole parte del volto, si infila le scarpe. La scruto con attenzione con un groppo in gola. Solleva i suoi occhi grigio-azzurri contro di me ed è esattamente come ricevere un pugno alla bocca dello stomaco.
«Dov'eri sparito? Mi sono svegliata e non c'eri», chiede mostrandomi un sorriso raggiante che illumina tutta la camera. Dio quanto è bella anche appena sveglia. Chiudo la porta. «Dam...», mi richiama mentre continuo a mostrarle le spalle; persino il dolore al costato sembra essere svanito nel nulla, sostituito da qualcosa di più grande che sta divorando ogni parte di me in pochi secondi, attimi che, cazzo, mi stanno scivolando dalle mani. Non può essere vero.
«Mi ami?», sibilo in una supplica e mi volto a guardarla. Inclina il capo confusa, cerco di incastrare i suoi occhi ai miei perché non scappi via. Perché tu non mi puoi lasciare ora, non te ne puoi andare, perché io ci potrei morire nella tua assenza.
«Certo che ti amo, Damon, perché me lo chiedi?», infilo le mani tra i capelli scoccando un'occhiata al soffitto.
«Perché io ho bisogno che tu mi ami, Al», la voce che si incrina e le parole si strozzano in gola mentre cerco di pronunciarle. Avanza verso di me.
«Ti amo, Dam», ripete con sicurezza, posando le sue mani sul viso. Intreccio le mie alle sue.
«Promettimi che qualsiasi cosa accada non mi lascerai», la imploro. «Promettilo», continuo con la disperazione che ha preso possesso della mia vita e mi sta trascinando a fondo.
«Mi stai spaventando, Damon».
Bacio ogni nocca della sua mano, chiudo gli occhi per sentire solo lei e il profumo della sua pelle liscia come seta.
«Ti amo così tanto, Al», confesso quelle parole già dette affinché non le dimentichi. «Non sapevo cosa significasse amare incondizionatamente qualcuno. Non conoscevo questi sentimenti, finché non ho incontrato te. Sapevo, sin da quel nostro primo scambio di sguardi, che sarei diventato pazzo pur di averti. Hai mandato in frantumi tutte le barriere che mi ero creato nel corso degli anni. Hai saputo trovare il bene dove esisteva solo il male. La luce dove c'era solo buio...», gli occhi colmi di lacrime offuscano la sua immagine mentre cerco di guardarla.
«P-perché mi dici tutto questo, Damon?», le gambe cedono, insieme alle lacrime che solcano copiose il mio volto.
«Non andartene, baby... non lasciami», farfuglio in preda al panico. Si china in ginocchio verso di me.
«Dam, cosa sta succedendo?», la voce le trema. Pesto i pugni contro la moquette della camera.
«Non ho mai voluto farti del male... mai, piccola, credimi...», ripeto come un mantra, «ma sembra che il mondo intero stia remando contro di noi».
«Dam, parla!», grida facendomi sussultare, dentro mi sento come morire. Sollevo il volto verso di lei.
«Quando ti sei svegliata, non c'ero perché è venuta una persona a cercarmi...».
La fronte si aggrotta creandole due linee profonde, le braccia incrociate al petto pronte a proteggersi da ciò che sta per esploderci addosso.
«C-chi era?», biascica a stento.
«Baby, ascoltami...», provo a dire tendendo una mano verso di lei, che però scatta in piedi allontanandosi da me di un passo.
E non te ne sei andata, ma è come se lo avessi fatto.
Lo vedo nei tuoi occhi che mi implorano che lo farai e io precipito, crollo nel vuoto che stai creando fra noi.
«Chi era?», urla spezzando queste mura che ancora ci tengono al riparo dalla tempesta che sta per investirci.
Mi sollevo da terra cercando la forza di dirle la verità.
«Al...», il suo nome come una promessa sulle mie labbra, quella di amarla per sempre.
Scuote il capo in senso di diniego.
«Dimmelo, per favore», chiede con un fil di voce che riesce a farmi incespicare sui miei passi come una spinta.
«Era J-Joselyn», confesso e lo sento, sento qualcosa spezzarsi, il filo impercettibile che ci ha unito fino adesso si scioglie, scivolando dalle nostre mani.
Gli occhi si dilatano, il terrore a velarli al solo pronunciare il suo nome. Faccio un passo avanti per cercare di raggiungerla affinché mi guardi e ascolti ciò che ho da dirle, lei d'istinto si sposta facendone due indietro.
«Ascoltami, risolverò tutto...», premo le mani sulle sue braccia. Scrolla le spalle per allontanarmi, riducendo gli occhi a due fessure.
«Cosa devi risolvere? Cosa vol-voleva da te?», si morde nervosa il labbro inferiore, il suo sguardo incomincia a posarsi su ogni angolo della camera dove inizia a camminare avanti e indietro.
«Ti prego, Al... promettimi che...».
Le mani si intrecciano nella folta chioma di capelli color caramello.
«Cazzo, Damon! Smettila con questi giri di parole...», gli occhi si velano di lacrime. Inchioda il mio sguardo al suo.
«È incinta... Joselyn è incinta...», scoppia sulla mia bocca e il suono di quelle parole ci risucchia in una spirale che ci riporta a quel periodo nel quale, dopo esserci lasciati, io dovevo dimenticarla. Dovevo scacciarla via dai miei pensieri e Joselyn era lì, era la sola valvola di sfogo che la mia mente malata aveva per accettare di aver perso la sola persona della quale mi sia mai fregato davvero... lei, la mia Al.
Scuote terrorizzata la testa, una mano copre la bocca soffocando i singhiozzi che mi colpiscono uno dietro l'altro, squarciandomi il cuore in mille pezzi.
«T-ti prometto che...», provo a dire, ma le sue piccole mani si asciugano veloci le lacrime, come se potesse bastare quel gesto per cancellare ogni cosa.
«N-non... non posso», esclama annaspando nel suo stesso respiro.
«Al, ascoltami...», la imploro.
Sprofonda a sedere sul letto e io mi inginocchio di fronte a lei; il suo sguardo è smarrito, rapito da quelle parole che l'hanno pugnalata alle spalle. Mi aggrappo con le mani alla sua maglietta, la tiro come se fossi un bambino, lei è tutto il mio mondo.
«Guardami...», la scongiuro.
«Non può essere vero...», biascica senza guadarmi, senza ascoltarmi. Affondo la testa sul suo grembo.
«Non lasciarmi. Al, non posso vivere senza di te...».
Verso tutte le lacrime che ho in corpo, i respiri sono strozzati dal groppo in gola che vuole soffocarmi.
«D-devo... io devo andarmene», mi spinge per le spalle allontanandomi da lei. Il terrore mi rotola addosso e non posso evitarlo, la sto perdendo, questa volta la perderò per sempre.
«No, Al, non lo fare!», grido afferrando le sue mani. Sono in ginocchio davanti a lei, la disperazione di perderla si sta materializzando di fronte ai miei occhi e il panico mi travolge come un'onda che mi inghiotte in un abisso che non sono pronto ad affrontare senza di lei.
«Mi dispiace...», biascica con una voce che sembra non appartenerle, il tono freddo e distaccato.
E sei qui, ma mi hai già chiuso la porta in faccia.
Sei qui, ma il tuo silenzio mi urla addosso, sei qui e mi sento già perso.
«D-devo ancora capire se è mio...», dico tutto d'un fiato, «ti chiedo solo questo. Tutte le cazzate che ho fatto stanno riemergendo dal baratro in cui ero sprofondato», ammetto a me stesso. Ero convinto che una volta uscito da quella clinica, ripulito da ciò che mi aveva cambiato, avrei avuto un'altra possibilità. Ma non avevo messo in conto che i miei errori mi avrebbero seguito.
Ogni seme avvelenato dal mio essere stava fiorendo come un demone per venirmi a cercare.
«T-tu non sai se è tuo?», chiede stringendosi nelle spalle e privandomi di incontrare i suoi occhi.
«Io... io non lo so, piccola...».
Si volta furente di rabbia.
«Non chiamarmi "piccola" in questo momento, quando potresti aspettare un figlio da lei!», tuona indicando con il dito indice un punto a caso della stanza, deglutendo a fatica.
«Hai ragione, scusa. Le ho chiesto di fare il test di paternità oggi stesso».
Restiamo in silenzio per alcuni secondi che durano un'eternità. Si sposta verso la sedia della mia scrivania, prende il cappotto e se lo infila.
«Dove vai, Allyson? Per favore non andartene», sono talmente disperato che farei qualsiasi cosa in questo momento. Il solo pensiero di perderla mi getta nel panico più totale.
«Vado a casa, ho... ho bisogno di aria e.... e devo pensare...».
La fermo piazzandomi davanti.
«Non lasciarmi», mi mordo il labbro talmente forte che il sapore metallico del sangue scivola dentro la bocca.
«Chiamami quando saprai se è tuo figlio».
La freddezza con cui pronuncia quella frase mi raggela il sangue nelle vene. La verità è che l'ho già persa. Mi passa a fianco, il suo profumo inebria per un solo istante il mio respiro prima che diventi solo un lontano ricordo.
«Ti amo, non dimenticarlo».
I suoi passi si fermano alle mie spalle. La porta sbatte, strizzo gli occhi. «No!», grido scagliandomi sulla scrivania e con un gesto secco della mano faccio cadere ogni cosa che vi è posata sopra. La rabbia continua a montare, il dolore più grande che abbia mai provato mi inghiotte in un luogo dove non esisterà più nessuna luce se non potrà esserci lei al mio fianco. Strattono dal letto le lenzuola che odorano ancora di lei, mi siedo sul pavimento stringendole al petto come la cosa più preziosa che mi sia rimasta.
Posteggio l'auto di fronte all'indirizzo che mi ha dato Joselyn, le mani sudano, allentano e aumentano la presa sul volante mentre squadro l'edificio di mattoni grigi di fronte ai miei occhi. Non doveva andare così. Quando Joselyn ha incominciato a farfugliare tutte quelle stronzate non le ho creduto, ma nei suoi occhi, per la prima volta, ho visto qualcosa di diverso... la sincerità. Mi sono sentito morire nell'istante in cui ho capito che poteva essere tutto vero. Il primo e unico pensiero è stato quello che avrei perso Allyson. Le mie orecchie non ascoltavano più, la mia testa non ragionava, pensavo solo a lei e a come sarei riuscito a tenerla ancora una volta dalla mia parte. È sempre stata al mio fianco, anche quando non la volevo e continuavo a respingerla. È passata sopra a tutto il dolore che sono stato capace di infliggerle, solo per il semplice fatto che ero un fottuto bastardo che non voleva ammettere a sé stesso quanto la amava.
Scendo dall'auto non appena vedo quella di Joselyn posteggiare due parcheggi più in là. Persone entrano ed escono dall'edificio. Mi soffermo a guardare una donna incinta, con la mano posata sul tessuto teso del maglione che spunta dall'apertura del cappotto. Sorride al suo compagno, forse suo marito, e sembrano felici. Non ho mai pensato di avere un figlio, mio padre credevo fosse un buon esempio, ma negli anni mi sono dovuto ricredere più di una volta. Sembra tutto uno scherzo del destino, io padre del figlio che porta in grembo Joselyn.
«Damon», mi volto verso Alec che tiene stretta a sé la sorella. «Tu cosa ci fai qui?», abbaio infastidito dalla sua presenza.
«Cosa ti aspettavi, che non venissi anche io?», ribatte digrignando i denti, i nostri sguardi si inceneriscono a vicenda.
«Certo che vi inventereste di tutto pur di rovinarmi la vita», commento sfilando una sigaretta dal pacchetto rosso di Marlboro. «Smettila, per una cazzo di volta non si tratta solo di te e della tua fottuta esistenza, Sanders!», mi ammonisce con un grugnito.
Sbuffo il fumo indifferente verso di lui. Prima chiudiamo questa situazione, meglio sarà per tutti.
«Potrebbe non essere mio», gli faccio notare scoccando un'occhiata verso il suo ventre, una morsa si stringe attorno allo stomaco.
«Sei serio?», ringhia furioso avanzando verso di me e Jos lo tira per un braccio trattenendolo. Abbozzo un ghigno. «Sai bene che era persa di te, a tal punto da portartela in fondo alla merda che ti è arrivata fino al collo...», la vena lungo il collo gli si ingrossa, insieme allo sguardo iniettato di sangue che cerca di intimorirmi. Punta il dito contro il mio petto, inarco il sopracciglio seguendo il suo gesto per fargli intendere di togliermi le sue luride mani di dosso. «Sono certo che sei un bastardo, quanto sono certo che nella sua vita ci sia stato solo tu».
Jos devia il mio sguardo mentre provo e vedere l'espressione che dipinge il suo volto.
«Non dimenticarti di Jeremy, potrei sempre farmi da parte e lasciare a lui il lavoro sporco», lo minaccio.
Scuote il capo sogghignando.
«Non dimenticarti di Sebastian», ribatte a muso duro.
«Basta!», esplode Jos in un grido che attira l'attenzione dei passanti. «Vuoi avere la conferma che sia tuo? Bene, siamo qui per questo, perciò andiamo», sibila a denti stretti attraversando la strada.
Alec le apre la porta per farla entrare, io li seguo cercando di mantenermi a distanza. Il corridoio di fronte a noi mi ricorda quello della clinica, l'odore asettico riempie lo spazio e sento la nausea riaffiorare; ogni fottuto passo che faccio in avanti mi ricorda tutto ciò che mi sto lasciando dietro... troppo dolore. Entriamo all'interno della sala d'attesa e altre coppie che aspettano il loro turno si tengono per mano, sfogliando riveste su bambini, scambiandosi sguardi amorevoli. Io con tutto questo non c'entro un cazzo. Ci sediamo in attesa e prendo distanze da loro, mettendomi dalla parte opposta, la testa poggiata alla parete rosa alle mie spalle, gli occhi verso un soffitto che mi sta crollando addosso; solo il suo sguardo annientato dalle mie parole a sferzarmi la mente con prepotenza.
«Signorina Sanchez?», chiede, poco dopo, un'infermiera paffuta con un caschetto biondo e due occhiali a fondo di bottiglia che le ricadono sul naso.
«S-sì», biascica lei.
«Da questa parte, il padre chi è?», scruta il volto prima di Alec e poi passa a sondare il mio.
«Chi dovrebbe essere. Siamo qui per fare un test di paternità», rimarco, ricordandolo a tutti i presenti con noncuranza.
«Allora suppongo sia lei, venga», dice avanzando con lunghi passi fino a una porta con la targhetta color oro in bella mostra e la scritta "Dott.ssa Mason". Bussa in modo pacato e poco dopo apre la porta. «Prego», ci indica di entrare, Alec fa un passo ma viene fermato. «Lei deve attendere fuori».
La mascella schiocca serrandosi in modo tale da rivelare i suoi lineamenti marcati. La dottoressa sorride non appena ci apprestiamo a sederci di fronte alla sua scrivania. Avrà più o meno quaranta, quarantacinque anni, capelli rossi raccolti che lasciano cadere qualche ciocca qua e là.
«Come stai, Joselyn?».
La guardo capendo che non è la prima volta che si reca qui.
«Da quanto lo sai?», chiedo.
«Un... un mese», mormora chinando lo sguardo sulla scrivania color mogano.
«Lei deve essere Damon?», si informa la dottoressa mantenendo un tono professionale, con le mani giunte sopra una cartella clinica.
«Sì, sono io», sprofondo sulla sedia ma vorrei scomparire; anzi, no, vorrei solo tornare indietro nel tempo e cancellare tutto, pulire lo sporco che mi sono lasciato e trovarmi nuovamente di fronte alla segreteria del campus della Tufts con la sua coda di cavallo che sventolava di fronte ai miei occhi.
«Faremo un prelievo a entrambi, nel sangue di Joselyn scorre già il DNA fetale. Esamineremo il tutto ed entro tre massimo cinque giorni vi faremo sapere», spiega, poi si alza e invita Jos a seguirla. «Però prima voglio visitarti, dato che sei qui».
Resto immobile sulla sedia senza voltarmi mentre la conduce dietro il paravento color crema che copre la visuale del lettino.
«Scopri la pancia», dice la dottoressa. Torturo le mani. Non dovrei essere qui, ripeto a me stesso. Ho provato a chiamare Allyson non appena era andata via dalla confraternita, ma ha il telefono staccato. Ho dovuto rivelare a Kam che razza di verme sono, affinché possa starle accanto. Conosco la sua fragilità.
Un suono ritmico e veloce, si insinua nelle mie orecchie.
«Lo senti?», le chiede.
«È il suo... il suo cuoricino», balbetta Joselyn.
Le palpebre pesanti si chiudono quasi da sole, accompagnate dal suono calzante di quel piccolo cuore che batte nel suo ventre.
Un bambino... e se fosse mio?
SPAZIO XOXO
Sarà vero?
Joselyn incinta di Damon?
E cosa succederà adesso tra lui e Allyson
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro