Capitolo 46
KYLE'S POV
Dopo aver accompagnato la mia ragazza a casa, mi incontrai con Ryan nel parcheggio della scuola, per mettere in chiaro le cose.
«Hai ancora voglia di rinfacciarmi la tua vittoria?» domandò Ryan, camminando verso di me, tentando di mantenere la calma. Era strano. Di solito ero io a scoppiare per la rabbia.
«Forse lo farò a vita. Resta il fatto che un patto è un patto. Le hai viste anche tu quelle parole scritte sul suo foglio» dichiarai, provando a sentire un senso di soddisfazione, ma nulla. Forse ero disgustato da me stesso per quella sfida.
«E come da patto non pretenderò altro da lei che amicizia. Fammi solo un favore, ricorda che lei non merita il male» disse evitando di guardarmi negli occhi. Annuii soltanto, consapevole di non poter contestare quella verità. Entrambi girammo la testa quando sentimmo un forte rumore provenire dall'uscita della palestra dove era la festa.
«Come avete potuto? Lei non è un oggetto, non ve lo perdonerà» sentimmo pronunciare da Katy. Non attese risposta, camminò verso l'uscita, aspettando che James la seguisse, non prima che ci avesse detto alcune parole: «Ho provato a non farle ascoltare la conversazione, ma è stato inutile»
Scossi la testa per dirgli di non preoccuparsi e lui seguì la ragazza. Amore o meno, Desy avrebbe mai potuto perdonarmelo?
***
DESY'S POV
Sapete quella brutta sensazione che si prova quando tutto sta andando troppo bene? Non credete sia realtà e, be', forse è meglio così. Perché è quando tutto va bene che c'è qualcosa che non va. Volevo godermi ogni singolo momento, ma era difficile con un peso che mi attanagliava il petto appena sveglia.
Per una volta il mio compleanno non era stato un brutto momento e credo che avrei ringraziato a vita le persone che l'avevano reso indimenticabile. Potevo essere una principessa per una serata, ma bisognava piantare saldamente i piedi a terra e cominciare a pensare ad un futuro tutt'altro che reale.
Mi alzai dal letto, stiracchiandomi e sbadigliando.
La scuola era finita e l'estate stava quasi cominciando per noi studenti. Bastava affrontare gli esami di maturità e aspettare le varie risposte dalle università.
Avevo inviato diverse domande, ma quella in cui speravo di più era la facoltà di lettere moderne alla Harvard, per poter magari aspirare a fare giornalismo un giorno.
La consegna del diploma era vicina e i risultati sarebbero usciti a breve. La mia idea era di studiare per gli esami in modo adeguato, prima di potermi godere appieno l'estate con i miei amici e magari con Kyle.
Guardai il cellulare per vedere il giorno del calendario. Bene, tre giorni intensi di studio e tutto sarebbe andato per il meglio. Inoltre, avevo tre chiamate perse dalla mia migliore amica. Chissà cosa avrebbe voluto dirmi. Non credendo fosse qualcosa di importante, rimandai la chiamata. Andai al piano di sotto per fare la prima colazione, trovando papà intento a cucinare dei waffle e Sasha riempirli di nutella o marmellata. Di fianco c'era Ethan attaccato al suo cellulare e Meg che leccava le dita sporche di cibo.
«Tesoro, chiameresti Jem? Dorme ancora» mi chiese Sasha, alzando un momento gli occhi su di me.
«Vengo con te!» rise Meg, alzandosi dallo sgabello vicino all'isola della cucina e raggiungendomi, non prima di aver lavato velocemente le sue mani.
«Adoro svegliare tuo fratello! Che ci inventiamo oggi?» parlò entusiasta, mentre salivamo le scale. Non potei fare altro che ridere.
«Invece di ridere, vedi di collaborare!» mi ammonì lei.
«Un'idea ce l'avrei io» propose Ethan, sbucato dal nulla.
«Quindi stai passando nell'altra squadra?» gli domandai, alzando le sopracciglia con un sorrisetto.
«Nah, cerco solo divertimento» sorrise lui. Alzai gli occhi al cielo.
«Aspettatemi» disse prima di scomparire, per poi tornare con il barattolo di nutella tra le mani, un cucchiaio e una piuma presa chissà dove. Lo seguimmo in camera di Jem, ancora intento a russare.
Ethan spalmò un po' di nutella sulla guancia di mio fratello e toccò il suo naso con la piuma, concentrato con la lingua tra le labbra. Jem, come previsto, si spalmò con entrambe le mani la sostanza dappertutto, facendoci ridere a crepapelle, per poi svegliarsi a causa dei nostri rumori.
«Ti aspettiamo giù per la colazione» annunciai a mio fratello. Questo, con ancora gli occhi chiusi, leccò un indice e disse: «Credo di essere sazio»
***
KYLE'S POV
Avevo appena lasciato un messaggio a Desy, dicendole di uscire di casa. Speravo non avesse ancora parlato con Katy. Sapevo che James stesse facendo di tutto per me, convincendo la sua ragazza a non raccontare quella piccola scommessa. Forse ci sarebbe riuscito, forse no. Intanto volevo godermi una giornata con la mia, di ragazza. Non volevo perdere tempo, sapendo che di tempo non ne avevo molto. Un secondo dopo la vidi affacciata alla finestra a guardarmi per poi sorridere. Capii che non sapeva ancora niente. Forse avrei dovuto dirglielo io. Quando la vidi uscire dalla porta, però, quel pensiero sparì. Non le avrei detto la verità, non volevo perderla.
«C'è qualcosa che non va?» mi domandò, inclinando leggermente il capo e avvicinandosi a me. I suoi lunghi capelli corvino svolazzavano a causa del dolce vento, la maglietta di un azzurro acceso accentuava perfettamente le sue forme e il colore esaltava le sue labbra rosee e la sua pelle chiara e delicata. Le diedi un leggero bacio sulle labbra e uno sulla testa, tenendola stretta a me e inspirando il suo dolce profumo. Mi risvegliai dal mio stato di trance, scuotendomi leggermente. Mi sentivo ridicolo difronte a tale bellezza.
«No, principessa. Volevo solo portarti in un posto»
La sentii irrigidirsi e pensai cosa avesse potuto immaginare. Per un attimo presi in considerazione che potesse ricordare il posto in cui l'avevo portata non molto tempo prima, ma era ubriaca e non avrebbe potuto ricordare neanche il nostro bacio. Quindi scartai l'idea, anche se non era lì che in quel momento avrei voluto portarla.
«Possiamo andare?» le domandai, allontanandola leggermente da me per guardarla negli occhi e toccando delicatamente una sua guancia. Lei annuì ed io intrecciai le nostre mani. Quanto avrei voluto proteggerla da me stesso. C'erano ancora segreti di cui lei non sarebbe mai venuta a conoscenza, per sua fortuna.
Le aprii velocemente lo sportello e sorrisi quando lei, ovviamente, parlò, sorridendo: «Guarda che la so aprire anche da sola»
Sapevo che lo diceva tanto per farmi irritare, perché le piaceva, e non per cattiveria, perché persona più buona di lei non ne avevo mai vista prima.
«Non ti addolcirò mai, eh?»
Scosse la testa ridendo ed entrando nell'auto. Feci il giro di questa per fare lo stesso. Accesi il motore e partii.
***
Cinque minuti più tardi eravamo giunti a destinazione.
«Era la casa al lago dove andavo con la mia famiglia quando poteva essere definita ancora tale»
Volevo raccontarle una parte di me che avevo chiusa dentro, a cui nessuno poteva accedere. Spensi la macchina. Aprì lo sportello e scese, guardandosi intorno, seguita da me.
«Non c'è nessuno, ora» precisai, mentre lei mi guardava preoccupata.
«Tuo padre...?» domandò con un cipiglio sul volto a voce bassa. Probabilmente non vedendolo più in giro da un po', pensò che non fosse più su questo mondo, ma, per fortuna, non era così. Nonostante non fossi d'accordo con lui e per la maggior parte del tempo lo odiassi, era un sollievo sapere che c'era.
«Certo che sei proprio pessimista» dichiarai, tra lo scherzo e il serio.
«Se vivi certe cose non puoi farne a meno»
Mi ricordò tutto il suo dolore ed ebbi una fitta al cuore, consapevole di essere tra coloro che gliene ebbero causato.
«Vieni, entriamo» le dissi, stringendo di più la sua mano, per farle forza, tintinnando con l'altra il mazzo di chiavi.
«Non credo di essere mai entrata qui» constatò, guardandosi in giro. Scossi la testa. Mi feci seguire al piano di sopra dove una volta era la mia stanza da letto ed ora solo dei mobili scoloriti e un letto a una piazza.
Mi allungai sopra quest'ultimo, facendo posto anche per lei. Si stese al mio fianco, poggiando la testa sul mio petto e sospirando come nella più totale pace. Era in quei momenti che mi faceva totalmente impazzire averla vicino. Chiusi le braccia intorno al suo piccolo corpo, tenendola più stretta a me.
«Perché mi hai portata qui?» domandò ed io le diedi più aria, portando una mano dietro la mia testa.
«Perché volevo raccontarti una parte della mia vita. Ne saprai già qualcosa, ma vorrei condividerlo con te dal mio punto di vista»
Alzò la testa, fissandomi con i suoi grandi occhi scuri e una ciocca di capelli le coprì il volto. Soffiò forte per spostarla, invano. Tolsi la mano dal mio capo per portare quella ciocca dietro al suo orecchio, rubandole un bacio. Vedendo la sua espressione, sorrisi. Era così dolce. Si avvicinò, dandomi un bacio veloce ed io la strinsi ancora di più a me. Tra i nostri corpi non passava un filo di aria ed era davvero bello il contatto.
«Io ci sono» mi disse.
«Non ne dubito»
Restammo per un minuto in silenzio e poi presi coraggio per parlare, raccontandole un episodio tra i tanti che mi aveva fatto diventare ciò che ero.
«Shhh... fai piano» sentii sussurrare dalle scale. Non riuscivo a prendere sonno, lo stato di dormiveglia era fottutamente andato a farsi benedire dopo aver sentito quelle parole che scaturirono in me profonda rabbia.
Sbirciai l'orario dal mio telefono in carica e spalancai con un colpo secco la porta della mia stanza, incontrando immediatamente il viso di mia madre e quello di un uomo qualunque ubriaco in casa mia.
«Bambino mio, vai a dormire» parlò mia madre, provando ad avvicinarsi.
«Non sono più un bambino, cara mamma, ti sei persa tutta la mia adolescenza» specificai, lasciandola con l'amaro in bocca e, sperai, un peso nel cuore. Dopo che la porta fu sbattuta alle mie spalle, sperai soltanto che mio padre non sarebbe tornato da lavoro prima della mattina stessa, per non dover chiudere gli occhi davanti a un simile obbrobrio. Lo sapeva... sapeva di mia madre, ma non voleva accettarlo e lo evitava in tutti i modi. Per questo odiavo lei, per questo odiavo lui. Come poteva un ragazzo come me, con genitori simili, nascere solo e con tutte le rotelle al proprio posto? Tutto ha il proprio motivo, e se io ero così, il motivo c'era.
***
«Io non riesco a capire questo passaggio qui» le spiegai, poggiando l'indice sul libro di matematica davanti ai nostri occhi e la testa sulla sua spalla. Sbuffo, facendomi sollevare il capo un tantino per guardarla negli occhi.
Credo che fosse ancora sbigottita per il fatto che, mentre stavamo parlando del più e del meno, precedentemente, l'avevo lasciata lì, sul letto, da sola, facendomi aspettare per correre in macchina e prendere il libro di matematica che avevo nello zaino semivuoto in macchina.
Non so come avevo fatto a pensare alla matematica tutto d'un tratto, ma stava di fatto che mancava poco agli esami e non volevo essere bocciato per una stupida materia soltanto, sapendo di dover aspirare ad un'università prestigiosa.
«Allora, qui va messo "2kπ". "k" perché si intendono tutti i giri che la circonferenza può compiere; mentre "2π" perché significa 360°, poiché π vale 180° e 2 per 180° fa 360°, capito?» mi spiegò, parlando velocemente, come se io già dovessi sapere tutto. Io odiavo la trigonometria e quelle cavolo di equazioni e disequazioni goniometriche. Però sapevo cose che lei non sapeva, un po' di cultura generale. Probabilmente l'avevo letto qualche giorno prima in un sito trovato per caso.
«Sì, ora ho capito. Mi confondevo per il significato di π. Avevo letto significasse un'altra cosa...»
«Cosa?» domandò con la sua solita voglia di conoscere. Era un'altra cosa che amavo di lei; sempre così curiosa della vita.
«Sebbene il π possa indicare per i matematici 3,14 oppure, come in questo caso, indichi 180°, nessun scienziato è mai riuscito a calcolarne il vero valore. Il π non è uguale a nessun numero decimale definito o periodico; per questo è classificato come un numero irrazionale e trascendente, perché, per quanti calcoli si possano fare, nessuno ha mai trovato il suo valore preciso. Molti lo vedono come un'infinito, come io vedo il nostro amore» conclusi, spiegando tutto ciò che sapevo in materia. In realtà sapevo altro, come la festa in suo onore che si presentava ogni anno a San Francisco, ma evitai di dirlo per non allungare troppo il brodo, altrimenti avrebbe perso il filo del discorso e non avrebbe ascoltato le mie ultime parole.
Era davvero concentrata su di me, su ciò che dicevo, tanto che ancora stava pensando alle mie parole quando arrossì visibilmente, mettendosi poi le mani davanti al viso.
«Il nostro amore è infinito?» azzardò, aprendo medio e indice per guardarmi con i suoi occhi.
Abbassai le sue mani dal viso, prendendole tra le mie e avvicinando le nostre labbra.
«Sì, un amore al π» le dissi, baciandola delicatamente.
«Sì, mi piace. Un amore al π» constatò, baciando il mio naso velocemente, districando lentamente una mano dalle mie e portandola con grande passione dietro la mia nuca, attirandomi in un bacio ancora più passionale. Era possibile avere il paradiso per colui che meritava l'inferno?
***
Dopo che le ebbi raccontato parte della mia vita che non avevo condiviso con lei e con nessun altro, dopo che avevamo parlato ancora, smettendo all'istante di studiare e abbracciandoci per molto tempo che a me sembrò un battito di ciglia, la portai in un fast food e morii dalle risate guardando la sua faccia quando, una per volta, rubavo le sue patatine.
«Sei un'ingrata e un'ingorda»
«Ehi! Mi offendi» disse, mettendo un finto broncio. Baciai le sue labbra, leccando un po' di salsa all'angolo. La vidi sorridere e pensai che il mio cuore si sarebbe potuto sciogliere da un momento all'altro. Sfortunatamente il mio cellulare iniziò a squillare: James. Schiacciai immediatamente il tasto rosso e le mie mani iniziarono a sudare.
«Non rispondi?» domandò leccandosi le dita.
«Non è importante. Hai ancora fame?» le chiesi.
«No, ma se non ti lecchi le dita godi solo a metà» mi rispose, facendomi una linguaccia, imitando la pubblicità dei Fonzies.
«Peccato che non sono Fonzies, queste» specificai, prendendola in giro.
«Sono pur sempre patatine» alzò le spalle, facendomi ridere per la sua espressione.
Il telefono cominciò a squillare di nuovo. Avevo paura di rispondere. Era Katy questa volta.
«Rispondi, vado un attimo in bagno» mi disse Desy, alzandosi.
Entrò nel piccolo bagno del fast food ed io risposi al cellulare: «Pronto?»
«Sono Katy, volevo solo dirti che non sarò io a distruggere la vita della mia migliore amica, ma non sono d'accordo con te»
«Grazie, Katy»
«Non c'è da ringraziare. Prega solo che non lo verrà mai a scoprire, se ci tieni davvero»
Annuii, dimenticando che non poteva vedermi.
«Ah... e dì una cosa al tuo amico. Può smetterla di chiamare, perché con me ha chiuso»
Spalancai di colpo gli occhi. Che?
***
Dopo aver riportato la mia ragazza a casa, non riuscivo a togliermi dalla testa ciò che mi aveva detto Katy. Andai nello strip dance in cui ero sicuro avrei trovato James, un posto poco raccomandabile. Quando entrai, la musica rimbombò forte nelle mie orecchie, adocchiai prima le varie spogliarelliste e poi lo vidi immediatamente a piagnucolare vicino alla barista. Questa era piena di tatuaggi, con due grosse tette rifatte messe in mostra e un pantoloncino tanto corto da far intravedere il sedere. Lei puliva i bicchieri e lui gesticolava in modo sospettoso. Aveva bevuto parecchio e si vedeva. Chissà perché noi ragazzi tendiamo a ridurci così per tutto.
«Janet» salutai la ragazza che tra l'altro avevo anche scopato più di una volta.
«Ti sta causando problemi?» domandai, dando una pacca sulle spalle al mio amico.
«No. Vuoi qualcosa da bere? È sempre un piacere quando entri qui» sussurrò quella, lasciando andare i bicchieri e sporgendosi sul bancone appoggiando il suo seno.
«No, grazie Janet. Sono qui solo per recuperare il mio amico»
«Oh, che peccato! Magari passa un altro giorno»
Era evidente che si aspettava qualcosa da me che quella volta non sarebbe arrivato.
«Certo, certo» dissi solo per togliermela davanti. Cosa che constatai funzionò quando la ragazza se ne andò sculettando al massimo, lasciandomi un bacio al volo.
«Ehi, amico!» mi disse mezzo rincoglionito James, accortosi solo in quel momento della mia presenza.
«Ehi, amico un cazzo! Che hai combinato?»
«Niente. Katy mi ha lasciato»
«Perché?»
«Perché tu sei un coglione e io lo sono con te, perché ti difendo. In pratica ti ho salvato il culo e ne pago le conseguenze»
«Perché mai avrebbe dovuto lasciarti?» domandai, non capendo davvero il motivo.
«Non ne ho la più pallida idea. Tu le capisci le donne? Be', io no!» gesticolò in modo imbarazzante.
«Credo che nessun uomo potrà mai comprenderle sul serio. Dai, andiamo»
«Non voglio andare da nessuna parte. Voglio Katy»
«Sembri un bambino, James. Katy ritornerà, ma non se resti qui, in questo strip dance»
«Forse hai ragione» rispose, tentando di alzarsi.
«O forse non ritornerà» continuò, buttandosi giù moralmente.
«Sei un coglione!» sussurrai, prima di caricare la maggior parte del suo peso sulle mie spalle e trascinarlo in macchina nonostante le sue lamentele.
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