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1 La cafoneria è arte

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L'aria tiepida primaverile e la giornata di sole, avevano spinto Elena a lasciare il triste pensiero mattutino che la investiva ormai da due anni, ogni mattina quando si alzava e ogni santa sera quando si coricava. "Basta - si era detta quella mattina - devo prendere in mano la mia vita, non posso continuare così. Svegliati e risorgi Elena, da oggi sarai l'araba fenice!".

Si fece una doccia. Si sentiva più spensierata del solito canticchiando un'arietta insulsa, giusto per tirarsi un po' su di morale. Si mise un paio di jeans da cui spiccavano uno strappo sulla coscia e un altro puntellato di strass sul ginocchio, la t-shirt rosa che la metteva di buonumore, le Vans della stessa tonalità e rispolverò la vecchia attrezzatura completa di cavalletto, colori, pennelli, stracci.

Raccolse il suo amato cappello, regalo e ricordo dell'amata zia Rita che non c'era più. Era vivo il ricordo delle sue lunghe telefonate che duravano anche un'ora, quando partiva per la tangente e non smetteva più di elencare tutte le sue amiche e le relative vie dove abitavano e dintorni.

Piegò quindi il comodo camicione da lavoro dentro la tracolla e constatò che c'era tutto. Aveva già trovato il posto da dipingere en plein air, lo aveva adocchiato per caso un giorno, mentre passava per la strada tortuosa che portava ai Colli, quando il suo sguardo fu rapito da un'alta e scoscesa collina.

Sulla sommità, un'ampia casa padronale dominava il panorama di sotto e spiccava nel verde con la sua tinteggiatura rosa antico. La graziosa chiesetta accanto, aveva un'aria da Pieve di montagna, con il campanile annesso e l'immancabile campana che svettava ben visibile dalla strada tra le feritoie in controluce.
La parte ripida che scendeva fin sulla strada era coperta da piante, cespugli, betulle, acacie e altri tipici arbusti del luogo.

Più in su, alcune arnie smaltate di sgargianti colori erano disposte in fila ordinatamente, ed erano trattenute da una lunga staccionata in legno che seguiva il contorno della collina, e fecero strappare un sorriso ad Elena al pensiero di quel dolce sapore ogni mattina a colazione.
"Che fortuna, caspita - disse fra sé - abitare in quel Paradiso".

E si accorse, proseguendo e girando attorno alla collina, che il lato davanti era di un paesaggio mozzafiato: rosai fioriti e multicolori su tanti piccoli terrazzamenti a gradoni che s'inerpicavano uno dopo l'altro, fino in cima alla collina, dove li aspettava il grande caseggiato antico.

Il tutto faceva rilassare lo sguardo, assaporando le armoniche tonalità dei tanti colori pastello. A lato, una bianca stradina serpeggiante si arrampicava fin su, segnata da un profilo di alti cipressi ai due lati, i quali bilanciavano la sensazione allo sguardo: quella suggestiva e irreale da favola, contro quella austera e pesante di severi guardiani del posto.

Elena era stata sempre curiosa e appassionata di ville antiche e storiche già da prima della sua laurea in Architettura, dove conobbe il suo Riccardo, e quando ce n'era una da visitare, non disdegnava di aggregarsi alla compagnia degli storici del luogo, ben lieta di ascoltare e bearsi delle amenità che la guida spiegava e mostrava loro.
E quel borgo lassù la stuzzicava al massimo della curiosità.
"Segui il tuo istinto - le diceva il suo uomo- sei portata per la pittura. Puoi venire allo studio ogni tanto, quando abbiamo bisogno di una mano".
E la guardava con occhi da innamorato.

Basta, aveva deciso.
Doveva immortalare sulla tela quel luogo magico, e lo avrebbe fatto con il beneplacito consenso dell'amato Riccardo. Anche se non c'era più ormai da due anni, gli parlava davanti alla fotografia sopra la mensola del caminetto. Ogni volta le sembrava che la assecondasse e la spronasse ad andare avanti, mentre puntava il suo sguardo vuoto, lo stesso di ogni mattina.

La ragazza parcheggiò la sua Porche, diventata da poco di sua proprietà. Troppi i ricordi per essere venduta, troppi i giri fatti insieme per lasciarla inerte nel garage, e la lasciò al lato opposto dello spiazzo verde su cui avrebbe appoggiato l'occorrente.

Cominciò ad aprire il cavalletto e fece un sorriso, pensando a quante volte suo marito aveva protestato per il poco spazio nel bagagliaio, e metteva già nel conto di doverla sostituire a malincuore, nel caso avessero avuto dei bambini. Ma il destino li aveva divisi troppo presto.

Scacciò il mesto pensiero, guardando in su per distogliere il dolore, verso la collina verdeggiante che attirava i suoi sensi e cominciò impaziente a schiudere i vari tubetti a olio.

Fremeva dalla voglia di imprimere la tela di quei bellissimi, vividi colori, le svariate tonalità di verde, il colore che più le piaceva mescolare. Si sbizzarriva ad aggiustarlo con i vari gialli, i rossi, i blu e quanto amava scombinarli e rimpastarli, fino a godere di tutti i tipi di tonalità che riusciva a creare. E il risultato era sempre soddisfacente.

Il dipinto prendeva forma a poco a poco e il tempo sembrava le sfuggisse di mano. Doveva finire in fretta, perché il sole cambiava con la varietà della luce anche il tono dei colori, a mano a mano che scendeva dietro i Colli, ma si rassicurò pensando che sarebbe ritornata nei giorni seguenti alla stessa ora, con la stessa luminosità, finché il quadro non fosse terminato.

Era assorta nella personale tavolozza dei suoi mille pensieri, quando fu interrotta dallo sgommare di un'auto. Rimase ferma con lo sguardo sulla tela. Le era capitato durante le lezioni d'arte en plein air con il suo caro maestro e le sue compagne di corso, di ricevere i complimenti di chi, ciclisti, automobilisti, gente a passeggio, si fermava incuriosito a osservare le loro opere e commentare liberamente.
Sentì lo sportello dell'auto aprirsi.

- Ehi tu - una voce maschile l'apostrofò autoritaria - lo sai che sei sul mio terreno e che stai calpestando la mia erba?

La ragazza alzò la testa, gli occhi nascosti dalla tesa del vistoso cappellino azzurro che la riparava dal sole, inquadrò una sagoma scura accanto ad un'auto dal profilo non ben definito, e si rammaricò per non riuscire a vedere bene in faccia il suo interlocutore.

- Ti do dieci minuti per raccogliere i tuoi stracci e portare il culo fuori da qui. Quando ritorno non voglio vedere nessuno, e ti avviso per l'ennesima volta, se vedo una sola cartaccia per terra, stavolta ti denuncio, puoi starne certo. Sono stanco di ripetertelo ogni volta.

A quel punto la ragazza pensò che l'avesse scambiata con qualcun altro, ma si sentì comunque offesa. Nessuno aveva il diritto di apostrofarla in quel modo. Mai, era stata offensiva nei confronti di qualcuno, e il modo in cui le aveva parlato quell'individuo l'aveva riempita di bile.

Era la famosa acqua cheta che scorreva tranquilla finché, trovando un dislivello alto e sassoso, si spartiva in mille zampilli scintillanti, saltellanti, scroscianti e rumorosi.
E in quel momento era il Niagara.

Sbagliato o no, non poteva parlare a un suo simile in quel modo maleducato, ed Elena si sentì in dovere di difendere quel suo collega che di sicuro era andato per dipingere, come lei, quel pezzo di natura bellissimo da immortalare.

- Scusi signor troglodita - cercò di stare calma, tenendo un tono di voce basso - come vede il mio cavalletto è fermo, ho un piede trentasette - e in quel momento maledì la genìa di sua madre per la tara, caratteristica di famiglia, che portava pure lei ad avere un piede piccolo nonostante la sua soddisfacente altezza - e non credo di essere un elefante che le sta distruggendo il prato, perciò le sue minacce sa dove se le può mettere? Se è intelligente lo capisce da solo, ma mi sa che glielo devo scrivere, che ne dice, magari sul cofano della sua costosa auto. E non sarà certo facile eliminare la vernice ad olio senza tirare via quella di sotto. Comunque me ne vado con le mie gambe, senza il suo benevolo aiuto e la ringrazio per la sua insolente scortesia!

E si affrettò a caricare tutto, più in fretta possibile, per non irretire di più quel rozzo villano.

- A non più rivederci, troglodita insulso! - le uscì spontaneo, mentre metteva velocemente le ultime cose nel bagagliaio.

- Ti rendi conto che mi stai insultando, sai che è un reato? - le urlò di rimando l'uomo con la voce strozzata dalla rabbia.

La ragazza innestò la retromarcia, abbassò il finestrino e con calma tirò fuori la mano, alzò il dito medio e partì facendo rombare il motore dell'auto tanto amata dal suo Riccardo. "Lo senti questo suono tesoro, questa è musica - le diceva ridendo - non è un semplice motore, ascolta, la riconoscerei tra mille".

Era stato il suo primo acquisto, dopo aver aperto lo studio di Architettura, insieme ai suoi due cari amici Lucio e Alberto. Anche lei, finita l'Università era andata ogni tanto a dar loro una mano e ora che il suo giovane marito non c'era più, erano proprio i due amici a portare avanti lo studio.

Elena non era più entrata in quegli uffici, non ce la faceva. Lo immaginava ancora dietro la sua scrivania, lo vedeva correre da un ufficio all'altro con carte in mano, gli occhiali sulla testa, elegante, gioioso, divertente, intelligente...

**

L'avvocato penalista, dottor Leonardo De Vittis, entrò furioso nello studio.

- Andreina, mi chiami il capitano Aureli, subito!

Non gli era mai capitato di essere redarguito e insultato da un essere insignificante vestito da palombaro che gli mostrava il dito medio.
E non era riuscito nemmeno a guardarla in faccia quella donna sboccata.
Si era sbagliato di persona, certamente, ma tutta quella gente che occupava il suo spazio verde per i propri comodi e lasciando di tutto sul terreno, lo aveva veramente stancato.

Quella era proprietà privata con tanto di cartello in evidenza perdio, e poi la palombara l'aveva insultato di brutto, come nessuno si era mai permesso.
Di sicuro aveva un marito ricco che sfruttava e cornificava, magari vecchio, calvo, con la pancia flaccida e il portafoglio pieno.
Le conosceva bene quelle come lei. Quella donna doveva essere punita. Era colpevole e basta!

**
- Perciò, in nome della nostra immemore amicizia, caro capitano, mi devi trovare il proprietario di quella fottuta Porche - e gli ripeté scrupolosamente i numeri della targa - non ti sarà difficile, e io mi farò portavoce di una parolina buona con i tuoi superiori per farti promuovere a generale.

Una risata dall'altra parte, accompagnata da un "Va bene bastardo", concluse la telefonata.
Leonardo si sentì soddisfatto, avrebbe preparato una bella letterina a quella lingua biforcuta, avrebbe richiesto anche i danni per l'erba calpestata e per gli insulti gratuiti.
A certe persone bisognava insegnare l'educazione in tutti i modi possibili.

**
Elena si sentì ribollire di rabbia, come il mosto nei tini dopo la vendemmia. Il troglodita aveva avuto pure il coraggio di rintracciarla e farle mandare una bella lettera da un avvocato, e le gambe le tremarono nel leggere quel sollecito di risarcimento, mentre il rimorso per aver esagerato con le parole le rimestò il pensiero in un sommesso, colposo ripensamento.

Si era addormentata nervosamente e si era svegliata con la voglia di imprecare, e lei sapeva bene contro chi.
Aveva un estremo bisogno di sfogarsi con qualcuno.
Sua madre era meglio lasciarla stare, le avrebbe consigliato di invitare quell'individuo a cena e vedere se poteva nascere qualcosa: "Non vorrai restare vedova a vita - le avrebbe detto - fossi in te non perderei nessuna occasione".

Si alzò di malavoglia, controllò il cellulare e tralasciò il messaggio della madre che la invitava a cena con la sua amica di Bridge, stranamente assieme a suo figlio, il quale era tornato da una settimana da Londra. Continuò a scorrere sul display i vari messaggi mattutini e si soffermò su quelli di Lucio e Alberto.

Le volevano bene, specialmente la moglie di Lucio, Giorgia, e la fidanzata storica di Alberto, la paziente Brigitta.
Quanto si erano divertiti tutti insieme, serate, feste, cene, pranzi e gite!

Bei tempi, pensò amaramente Elena, ed era grata a quei quattro amici che non l'avevano mai abbandonata, dopo l'incidente di Riccardo.
La chiamavano spesso invitandola, inutilmente, ad uscire e farsi nuove amicizie, e pensò seriamente di prendere in considerazione i loro consigli. Era ora di voltare pagina anche per lei.

Lisciò i suoi lunghi capelli biondi, indossò un tailleur bluette, i suoi tacchi che le davano un senso di forza e orgoglio e s'incamminò fiera, dopo due anni di tormento, verso il sospirato ufficio per dare un saluto ai suoi cari amici-colleghi. Sorrideva al pensiero delle facce che si sarebbe trovata davanti per la sorpresa. E lei, come si sarebbe comportata?

Una debolezza alle gambe tremolanti, accompagnò Elena lungo i corridoi che separavano i vari uffici, che lei conosceva bene. Troppe immagini le scorrevano davanti, facendola regredire nella memoria e stringere il cuore.

- Signora Weill, che piacere rivederla - la ragazza alla reception le sorrise piacevolmente sorpresa - le posso essere d'aiuto?

Elena trovò che Eleonora non fosse cambiata di una virgola in quei due anni passati: elegante, professionale, capelli neri raccolti sulla nuca, occhiali che la rendevano graziosa sul nasino alla francese, un corpo ben plasmato e i modi gentili.

- Grazie Eleonora, vado a salutare i dottori e poi vado via. Forse ci vedremo più avanti e magari ci daremo del tu, visto che ci conosciamo da tanto, non credi?

Arrivò titubante davanti alla porta di Alberto, bussò con la mano che tremava e quando sentì un "Avanti" con la voce sicura del suo amico, entrò di prepotenza, come volesse anticipare e scongiurare l'emozione che era certa l'avrebbe investita.

- Non ci credo, sei proprio tu!

I due si scontrarono in un lungo, stretto e affettuoso abbraccio, non avendo più niente da raccontarsi, si erano già detti tutto negli sguardi e in quell'abbraccio.

- Lucio sbrigati, vieni immediatamente da me, muoviti, subito! - Alberto citofonò all'amico, concitato, non volendo svelare la sorpresa.

Elena ebbe appena il tempo di sedersi sulla seggiola girevole, che la porta dell'ufficio si aprì all'istante e un trafelato Lucio si precipitò preoccupato, fermandosi di colpo davanti ad Elena e con la bocca aperta per la sorpresa. Un attimo di smarrimento e poi l'amico si lanciò sulla ragazza, la alzò da terra facendole fare una giravolta e l'abbracciò con enfasi smisurata.

**
- Quindi, lo zotico ti ha pure mandato una lettera da un avvocato con la richiesta danni per aver pestato la sua preziosa erba e averlo mandato senza riguardo a quel paese?

Alberto e Lucio fecero una sonora risata, ma vedendo l'espressione seria di Elena decisero che sarebbe stato meglio aiutarla e sostenerla. Lo dovevano al loro amico oltre che a lei.

- Io andrei da quell'avvocato e cercherei di parlargli - consigliò Lucio che era il più serio dei due - sai, a volte uno è incazzato per i fatti suoi e le parole partono da sole. Tu hai offeso quel tipo che nemmeno conoscevi, ma lui l'ha fatto per primo. D'altronde è proprietà privata, ma tu non hai fatto tutto il danno che quantifica lui, fallo capire al suo avvocato. Mettetevi d'accordo davanti ad una tazzina di buon caffè, vedrai che capirà.

- Io credo - continuò Alberto che non perdeva l'occasione per fare la sua solita battutina ironica - che quando vedrà lo schianto che si troverà davanti, non saprà più cosa dire e straccerà tutto.

Elena si sentì sollevata, aveva fatto bene ad andare dai suoi amici. Parlare con loro era stato il toccasana giusto che le serviva in quel frangente ostico, una spalla in più su cui appoggiarsi.

Ora doveva stabilire come muoversi con il troglodita. Andare con le buone forse non portava a niente. Avrebbe visto la debolezza dell'avversario e avrebbe infierito di più. Decise quindi di andare dall'avvocato con la lettera del suo cliente in mano, gli avrebbe spiegato le sue ragioni calma e pacata, ma decisa, e se non fosse bastato avrebbe mandato una contro denuncia all'avvocato stesso per abuso di potere.
In fondo non aveva ammazzato nessuno, almeno finora.

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