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Il marchio

Quel giorno era una giornata piovosa, c'era molto vento ed il cielo era tutto nero. Stavo guardando fuori dalla finestra quando vidi l'acqua scendere dal cielo; rapida come un felino.
Le persone in strada camminavano con l'ombrello, altre si riparavano sotto i balconi, alcune andavano a fare la spesa al supermercato ed altre se ne ritornavano nelle proprie case. Le macchine che passavano per le strade avevano tutti i tergicristalli attivi per levare l'acqua dai vetri anteriore e posteriore e schizzavano tutta l'acqua, che si era accumulata nelle buche del manto stradale, ai lati della strada.

Ero ancora con il naso sulla strada, davanti al fuoco del mio appartamento, sorseggiando una cioccolata calda, mentre continuai a fissare il mondo da una finestra di vetro: così fredda che si contrapponeva col caldo del fuoco. Ogni volta che pioveva mi ricordavo quando ero piccolo.
I miei nonni dicevano che la pioggia era il pianto degli angeli, che soffrivano per la perdita di qualcuno...
Adesso, guardando fuori da essa, scorgevo tutto il mondo che mi circonda. Pensai ai bimbi che non potevano giocare nei verdi prati di Central Park o ai grandi che stavano lavorando, aspettando con ansia che la lancetta dell' orologio scocchava le 18 per ritornare a casa dalla loro famiglia, oppure ai nonni che passano tutta la giornata a giocare con i loro nipotini.

Iniziai a pensare alla relazione con Jacob e mi sentì di nuovo soffocare e avevo l'impressione di essere ancora dominato, confuso e stressato.
Ne avevo abbastanza che mi si diceva sempre che cosa dovevo fare e mi senti in colpa perché continui a cedere alle sua avance.
A delle semplici domande come che cosa fare insieme, dove andare, che cosa preferiva e così via, si avviliva facilmente perché si aspettava che io già conoscessi tutte le risposte e i suoi desideri e che soprattutto anteponessi le sue priorità alle mie.
Dal momento che avevo a che fare con un individuo dispotico, una domanda gli costava prendere delle decisioni quando era convinto che era già tutto deciso... e sulla base di ciò che era meglio per lui.
Ogni volta che gli ponevo una domanda, rischi di irritarlo perché credeva di essere l'unico a poterle fare.
Provava a controllartmi facendomi sentire come se per lui fossi "tutto".
Arrivava a lusingarmi anche con complimenti superficiali o vaghi. Spesso, però, in un batter d'occhio cominciava a sminuirmi o maltrattarmi, soprattutto se pensava che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Mi sentivo molto spesso insignificante, imbarazzato, umiliato e triste, dopo che mi aveva parlato. Tendeva a insistere finché non mi stancavo e arrivavo a cedere, trasformando il mio netto rifiuto in un debole assenso, facendomi sentire persino in colpa o provare un senso di vergogna verso te stesso.
Esercitava pressione su di me per fare sesso, cosa che Nathan mi aveva sconsigliato di fare. Se mi spingeva ad avere dei rapporti sessuali con lui, anche quando non ne avevo voglia, vuol dire che stava cercando di condizionare il mio comportamento per ottenere quello che vuole.
Era sempre in cerca di un modo per cambiare una parte del mio carattere o della mia personalità, rimodellarmi, nel disperato tentativo di controllare il mondo che lo circonda.
Mi parlava sempre in questo modo: "Sei tu il problema" o "Tu hai un problema". Non è mai colpa sua. Aveva perfino cercato di crearmi problemi, mettere zizzania tra i miei amici e allotanandoli dicendo bugie su di te o su di loro.

Jacoh si sentiva fuori controllo e cercava di riconquistarlo attraverso il dominio su di me.
Era spaventato dal fallimento, in particolare dal proprio, e non era in grado di comprendere le conseguenze quando qualcosa andava storto.
Alla base di tutto c'era una profonda paura o ansia per i propri limiti ,spesso mai esplorati, e il timore di non essere rispettato, oltre alla sfiducia nelle mie capacità di portare a termine dei compiti.
Era convinto che nessuno sappia svolgere un lavoro meglio di lui. In un'epoca in cui ci viene costantemente detto cosa fare senza spiegarci pienamente il motivo, pensiamo a tutte le regole, scuse e avvertimenti a cui siamo sottoposti ogni giorno, questo individuo colmava tale mancanza e si poneva come unica figura autoritaria, a prescindere dal fatto che abbia o meno le abilità per farlo, cosa che non ha.

Comprendevo che il mio valore non era condizionato da questa persona. Devevo sempre ricordare di essere pari al maniaco del controllo, anche se il suo comportamento vuoleva farmi credere il contrario.
Era un passaggio fondamentale per il mio benessere psicologico. Questa persona, mirava alla mia autostima. Non importa quanto male mi possa far sentire, dovevo sempre ricordare a me stesso che la sua natura disturbata è un suo problema e non mio!
Se lasciaco che mi manipolasse la mia mente, allora gli permettevo di vincere. Dovevo ricordare che fra i due, la persona razionale ero io e solo io potevo avere delle aspettative ragionevoli in merito a ciò che l'altro può e non può fare.
Non dovevo permettere ai suoi desideri irrazionali di farmi sentire inadeguato in alcun modo.

Non era più quella relazione bellissima e piena di felicità che era una volta. Stava diventando un rapporto di abusi. Allora decisi di lasciarlo. Gli comunicai che avevo bisogno di una pausa. Chiusi il rapporto e continuai la mia vita.
Ma sapevo dentro di me che quello stupro non poteva essere cancellato in nessun modo. Mi aveva marchiato.
E un marchio, quando logora la pelle, non è più possibile mandarlo via.

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