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8. 13/11/15

Era un sabato mattina, il cielo milanese era grigio e incombente, quasi a fare da cassa di risonanza al nostro umore. Ricordo ogni dettaglio di quei due giorni, per vari motivi. La sera prima, mentre io e mia madre prendevamo l'aperitivo nel salotto buono della città, in un contesto terribilmente simile accadeva l'inimmaginabile, l'indicibile.

Quel sabato vagavamo in piazza Duomo, silenziose e appesantite dall' enormità delle notizie che arrivavano da oltralpe. In genere, quando qualcosa non va, per stare meglio, mi basta sbirciare le guglie che spuntano dai palazzi, quando il 23 svolta verso Piazza Fontana... non quel giorno. Così ci eravamo trovate ai piedi della Cattedrale, insolitamente orfana di turisti e più silenziosa e solenne del solito.

Occhi bassi, scorsi nel riflesso del selciato, umido di pioggia, l'immagine tremula di un piano a coda e di un musicista riccioluto e sorridente che si accingeva a suonare.
Ci fermammo a lungo.

Terminato ogni brano, l'artista bizzarro si alzava spumeggiante e veniva ad abbracciare il suo pubblico, ovvero noi. Quell'uomo era felice, in un modo talmente incontenibile da non ammettere di non essere condiviso.

Suonava per due persone in una uggiosa mattinata di novembre ed era la persona più entusiasta sul pianeta. Quando decise di fare una pausa si fermò qualche minuto a chiacchierare e ci raccontò di come aveva fatto dello scorrazzare un piano in mezza Italia la sua carriera. Si può dire che, di quell' imcontro, la musica sia stata il minore fra i doni.

Si fa chiamare "il pianista fuori posto" e quella mattina dopo averlo conosciuto, io ho ritrovato un po' il mio.

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