Ogni tanto ripenso a Salvatore, Sasà. L'ho conosciuto in un'umida sera di gennaio, nel pub sotto casa. Era uno di quei palermitani a cui la Sicilia ha fatto da mamma e matrigna. Lui aveva deciso di allontanarsene, costruire la sua vita altrove e rendersi indipendente da quel genitore ingombrante, che però continuava a tenerlo stretto e a fare incursioni nei suoi ricordi.

Mi baciò al primo appuntamento, con sfrontatezza, senza chiedere il permesso.

E' un attore Sasà, un po' artista un po' saltimbanco. Alternava la consapevolezza scanzonata di chi non si prende mai troppo sul serio all'intensità della sua terra. Si esibiva in celia e galanteria senza cambiare espressione. Si professava ateo libero e affamato, ma credeva all'esistenza del malocchio.

A volte, raramente, permetteva alla mancanza di prenderlo, si lasciava vedere come esule prestato a una terra straniera, che apprezzava ma a cui non riusciva a fondersi. "Io non ho amici" disse una volta guardandomi negli occhi, eppure teneva tutti, me compresa a distanza, come fa con le cose temporanee chi sa che prima o poi dovrà fare ritorno a casa.

Mise subito in chiaro che non voleva una storia seria, e a me stava bene. Eppure la prima notte mi chiese di restare. Mi abbracciò forte e appoggiò il respiro sui miei capelli.

Mi piaceva Sasà, la sua complessa leggerezza faceva bene al mio cuore malandato.

A volte mi spogliava con foga e gettava i vestiti a terra con noncuranza. Ma poi, quand'era il momento di dormire si alzava, li raccoglieva ad uno ad uno e li ripiegava con la cura di una madre, lisciando ogni piega con attenzione. Io osservavo dal letto quell' anima in bilico. Pensavo che forse, in un altro momento, avrei pure potuto innamorarmi.

Mi piaceva Sasá, quando parlava del suo lavoro i suoi occhi neri infiniti si squarciavano in un bagliore fulmineo di felicità. Della Grande Bellezza di un piccolo ineffabile istante che custodisco, di questo gli sono grata.