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Prologo

Evangeline fu ridestata dai brividi di freddo che si inseguivano lungo le sue gambe. Le lenzuola stropicciate erano cadute dal letto e, visto che indossava solo una vecchia maglietta di Ulrik, era totalmente scoperta, in balia della fresca brezza mattutina.

Cercò il suo calore con la mano, ma lui non c'era.

Quando riaprì le palpebre, ancora pesanti di sonno, la sua figura era in realtà poco distante, seduta di schiena, i gomiti ancora troppo spigolosi appoggiati sulle ginocchia, la testa tra le mani.

«Rik!»

Si sarebbe pentita amaramente di quell'interruzione, sarebbe stato il suo più grande rimpianto, non essere rimasta più a lungo a letto, a rimirarlo, non aver atteso anche solo un minuto di più, aver infranto l'incantesimo con la sua irruenza, proprio lei che era sempre stata così prudente, così pacata, così lungimirante...

Il comandante si riebbe con un sussulto. Fece per voltarsi e poi cambiò idea, si alzò in piedi, impetuoso e serio. «Devo andare.»

La sua voce era scostante, eppure tremava, come se celasse al suo interno qualcosa di molto più profondo, più doloroso.

La ragazza lo raggiunse rapida, colta dal panico. L'afferrò per la maglia e l'abbracciò da dietro, trattenendolo a sé.

«Cos'è successo? Aspetta, non andare, resta ancora...»

«NO!» sbottò lui e sciolse la stretta con tale forza da farle senza volere male. «È tardi, non possiamo più vederci a quest'ora.»

Queste parole la ferirono più del gesto in sé. Una pallottola di antisettico metallo nel suo ventre umano.

Ulrik oltrepassò il varco della tenda e uscì all'aperto, lasciandosi investire dalle prime luci dell'alba.

Lei lo raggiunse col cuore che scalpitava nel petto, i capelli mezzi annodati sulla nuca, la maglietta che le arrivava solo a metà coscia, i piedi ancora scalzi sul terreno polveroso.

«Torna dentro, Eva!» Cercò di spingerla all'interno, ma lei si aggrappò con le unghie al suo braccio di titanio, trapassandolo con gli occhi cangianti, spalancati per la collera e il timore.

«Cos'è successo, Rik? Me lo vuoi spiegare? Che ti prende?»

«Niente, abbiamo sbagliato, cioè... io ho sbagliato. Ho commesso un gravissimo errore, ecco... Non possiamo più vederci, non così.» Il suo tono era basso, freddo, distaccato, non reggeva il suo sguardo, lo direzionava altrove, come se si aspettasse di veder comparire altri sopravvissuti da un momento all'altro, come se temesse di venire scoperto, lì, con lei, dopo una notte passata a dormire insieme nella stessa tenda, dividendo lo stesso letto. Una delle tante...

«Ma cosa dici? Perché proprio adesso? Non capisco, torna dentro due secondi, ti prego...»

Lui si liberò con fin troppa facilità dalla sua morsa. «No, Eva! Basta! Questa cosa deve finire. Deve assolutamente finire. Adesso, subito.» S'infiammò. I suoi occhi turchesi erano velati di lacrime.

L'organo cardiaco di Eva si contrasse. Boccheggiò, fece un passo indietro, guardandolo senza riuscire a proferire verbo. La sua mente stava impazzendo, i suoi organi interiori vennero inghiottiti da un enorme buco nero che si era spalancato proprio al centro del suo addome mutilato.

«Mi dispiace, non possiamo più andare avanti così. Siamo stati imprudenti. Io sono stato imprudente. È stata solo colpa mia, non ho pensato alle conseguenze, ero così preso che... Però adesso è tardi e bisogna trovare una soluzione... Ho pensato... ci ho pensato e questa è l'unica possibile.»

«Ma di cosa diavolo stai blaterando? Cosa è successo, Rik?! Parlami!» strillò l'Umana, gli occhi sempre più febbricitanti, le labbra che fremevano rese aride dal nervoso.

«Ci hanno scoperti...»

«E allora? È questo il problema? Mi prendi in giro? Chi ci ha scoperti? Perché ti interessa così tanto?»

«Tu non capisci...»

«No, non capisco un cazzo, perché tu non mi spieghi!»

«Torna dentro, Eva, qualcuno potrebbe sentirci.» Ulrik provò a spingerla di nuovo, lei fu più veloce, si divincolò dalla sua presa e andò a posizionarsi in mezzo alla strada tra le abitazioni, con le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati scossi dai tremori.

«Ora tu mi dici cosa è successo» sibilò. Sentiva il potere vibrare nel suo corpo, la tempesta emotiva stava per sopraffarla e tra poco la natura avrebbe cominciato a risponderle a dovere.

Ulrik ancora non la guardava, non ci riusciva. Si portò una mano alla fronte. Sembrava a disagio.

«Chi ci ha scoperti?» ripeté.

Nessuna risposta. Sapeva che la ragazzina e Melchor avevano avuto brutti trascorsi, riferirglielo avrebbe solo peggiorato la situazione. Ed era una situazione seria, che andava trattata con la gravità che meritava, da persone adulte.

«Ti sei svegliato per un incubo, stanotte. È stato per quello? Stai ancora sognando lei? Maisie?»
«Perché devi nominarla?! Cosa c'entra lei adesso?!» Finalmente riuscì a incontrare le sue iridi di ghiaccio.

«Non lo so, dimmelo tu!» La voce era incerta, disperata, tentennava come solo in rare occasioni aveva fatto. L'insicurezza la stava attanagliando, non riusciva a respirare tale era l'oppressione che premeva contro il suo diaframma.

«Te l'ho già detto: deve finire qua. Siamo andati oltre.»

«Oltre dove?! Ma cosa stai dicendo?!»

«BASTA!» esplose lui, incurante delle famiglie che si stavano svegliando, dei turni che stavano per iniziare, di chi li avrebbe potuti benissimo udire.

Evangeline sussultò.

Quelle cinque lettere riverberarono nelle sue sinapsi. E spensero ogni cosa.

«Ho detto basta!» sottolineò un'ultima volta con un tono più fermo e deciso. Girò i tacchi e si allontanò verso la camerata che divideva con Hans e Kuran, senza voltarsi indietro, lasciandola lì, sola, mezza svestita, a brandelli.

«Non tornare!» urlò alle sue spalle.

Lacrime traditrici già scorrevano lungo le guance.

Lui non si fermò.

«Non tornare» mormorò tra sé e sé, il cuore che supplicava l'esatto contrario. Lo sentiva con chiarezza, dentro di sé, spezzarsi in maniera definitiva.

I fiori attorno alla sua tenda erano tornati a chiudersi per rispetto nei suoi confronti. Fiori azzurri, la gloria del mattino.

Di nuovo quella scelta.

Di nuovo quel bivio.

Rannicchiarsi a terra e scoppiare a piangere, fino a quando qualcuno non l'avesse trovata, farsi confortare dalle braccia forti e scure della sua migliore amica, sfogarsi e aspettare. Aspettare perché prima o poi anche quel dolore sarebbe passato, prima o poi anche quell'ennesima pugnalata improvvisa si sarebbe rimarginata. Lei si rimarginava sempre, dopotutto. Era Umana. Poteva toccare il fondo, tastare il terreno, mangiare la polvere, aspettare il momento in cui avrebbe avuto le forze per risalire.

"Andrà tutto bene, Eva."

Oppure...

Oppure poteva esplodere.

Come una supernova.

Trasse un profondo respiro, ingerì l'acqua salmastra che il suo corpo dissolveva sulla pelle ormai fredda come il marmo.

E si diresse come una furia verso il lato nord della barriera.


Thea quando la vide arrivare emise un'esclamazione incomprensibile, tra il preoccupato e lo sgomento.

Eva la superò senza degnarla di un'occhiata.

La donna provò a fermarla, farfugliò qualcosa sul pericolo, sui comandanti, sulle leggi, sul fatto che fosse senza scarpe, mezza nuda. Ma dietro la ragazzina comparve la tigre, con la bocca e le zampe ancora sporche di sangue per la caccia notturna, gli occhi ferini insolitamente ardenti.

Thea si zittì di colpo.

«Oggi non sarò di turno» si congedò l'Umana e alla sopravvissuta dell'arca F-100 non rimase altro che acconsentire a quella follia senza proferire verbo.

La vide immergersi nella foresta, le gambe troppo magre che avanzavano senza timore, la grossa bestia feroce che le guardava la schiena.

Un brivido le scosse le membra, non si riuscì a spiegare il motivo.

Aveva un orribile presentimento.


Eva camminò a lungo in silenzio. Lasciò che le lacrime le corrodessero la pelle, si morse così forte il labbro inferiore da assaporare il gusto ferruginoso del suo stesso sangue tra i denti.

Il potere si diramava impervio e selvaggio tutto attorno a lei, amplificando il suo stato emotivo e rendendolo palese a tutti gli esseri viventi che abitavano quel pianeta infame.

Regina sbuffò per quella teatralità eccessiva.

«Tu non puoi capire» l'accusò l'Umana, senza nemmeno voltarsi.

La tigre scosse il capo.

«Lo sapevi, no? Che non era quello giusto. Ma non mi hai fermata. Tu sapevi che mi avrebbe ferita e non hai fatto nulla per impedirglielo!»

Di nuovo il felino rimase impassibile di fronte alle sue petulanti recriminazioni.

«Mi ha spezzata, Regina!» La ragazza si immobilizzò al centro della cupa foresta e le rivolse contro i suoi occhi sbiaditi dal pianto.

Il mondo si zittì. La bestia si arrestò.

«Mi ha spezzata. Guardami! Guardami come sono ora!»

La tigre non replicò nulla. Sostenne lo sguardo sul corpo gracile dell'Umana. Non le sembrava rotta, non all'esterno almeno. Non era in grado di comprenderla, poteva ascoltarla ma non riusciva a empatizzare con lei. Sentiva il suo dolore però. Quello lo avvertiva con una nitidezza infausta.

«Per lui avrei distrutto tutto. Tutto. Invece alla fine è stato lui a distruggere me.»

La tigre si avvicinò per strusciare il volto contro il suo braccio, in segno di conforto e solidarietà.

«No, è finita. È tutto finito» rispose lei alla domanda implicita. «Sono stata terribilmente stupida. Una bambina. E lui se n'è approfittato, se n'è sempre approfittato. E questo è il risultato.»
Da lontano sopraggiunse, zigzagando tra i fitti tronchi degli alberi, il branco che stava attendendo.

Regina le leccò il dorso della mano, lasciò una lunga scia umida e viscosa sulla pelle.

L'Umana riprese a singhiozzare. «Lo amavo così tanto... Avevo perso tutto, mi sono aggrappata a una vana speranza... Ora ho perso anche quella. Mi capisci, Regina? Io non volevo vedere, non potevo vedere. Perché era evidente, lo è sempre stato, in fondo l'ho sempre saputo. Mi sono solo illusa.»

I lupi si palesarono davanti a loro, mantenendo una distanza di sicurezza.

Anche se Eva se ne accorse, non lo diede a vedere. Guardava invece la sua immagine riflessa negli occhi dell'animale che le stava al fianco.

«Non ho più nessuno, non ho più niente. No, non ho più nulla per cui lottare... Mi capisci?»

La bestia fece un lieve cenno appena percettibile.

Forse sì, forse adesso la capiva.

Eva si ricordò di Kuran, del suo sguardo triste dentro la tenda, quel mattino. Lei aveva intuito cosa stesse provando e in fondo al suo cuore aveva intuito che sarebbe arrivato anche il suo momento.

Kuran aveva perso Shani e lei prima o poi avrebbe perso Ulrik. Lo sapeva, ma era andata avanti lo stesso, non aveva saputo resistere, non aveva saputo proteggersi.

Si era fidata.

E adesso cosa le sarebbe rimasto? Solo bei ricordi e sogni infranti.

«Perché l'ha fatto?» sussurrò, pur sapendo che il quesito sarebbe rimasto senza risposta.

L'Alpha prese coraggio e si avvicinò a lei.

L'animale emise un lungo e profondo ululato che rimbombò in tutta la valle, facendo rizzare il pelo ai suoi compagni.

Poi l'osservò attento, in attesa.

I due occhi eterocromatici, il pelo bianco immacolato.

Eva gli sorrise, portò le mani ai lati della bocca, alzò il mento verso il cielo e l'imito, con quanto fiato aveva in gola.

Un richiamo sociale. Iniziava il maschio alfa, con un suono piuttosto basso, un preambolo, proseguiva il beta, con quanto fiato aveva in gola, e infine tutti i lupi si univano in un solo abbaio, così eterogeneo e tempestoso da dare l'impressione di essere al cospetto di un branco smisurato.

Regina osservò con ansia crescente quella scena.

La compagna tornò a fissarla con uno strano sorriso maligno dipinto sul volto.

L'arroganza Umana non possedeva limiti ed era sempre di un'inquietante meraviglia.

«L'hanno sempre detto, no? Che ero pericolosa. Estremamente pericolosa. Bene, benissimo!» La sua risata turbò tutti gli astanti. Fissò il cielo che filtrava tra le chiome verdi degli aceri. «Allora questa volta reagirò, questa volta sarò io a colpire, questa volta sarò io a ferire per prima, mi armerò di unghie e denti, azzannerò senza pietà, lascerò alle mie spalle solo morti e feriti, sarò un essere spietato e letale, sarò degna di quella gabbia in cui mi avevano rinchiusa, degna dei loro peggiori pronostici.»

Tornò a fissare Regina.

«Una nuova era avrà inizio. E questa volta... ti giuro che questa volta sarò all'altezza.»

La tigre ruggì.

«Volevano che fossi l'antagonista di questa storia. Rivestirò il ruolo che hanno cucito apposta per me.»

Ruggì di nuovo.

Eva ammiccò concorde.

Con un cenno del capo diede ordine ai lupi di seguirla.

E iniziò a correre.

I piedi, immemori del dolore, sembravano sfiorare il terreno da tanto il suo passo era rapido e leggero. Il respiro si adeguò alla velocità impetuosa mentre le mani accompagnavano il movimento dando slancio al suo busto magro.

La corsa non era troppo rapida perché era lunga la strada da percorrere. Distanziò con facilità la pesante tigre, che nell'ultimo tratto l'accompagnò solo con lo sguardò. Faticò invece a mantenere l'andatura dei lupi.

Il figlio di Smerdjakov era particolarmente robusto, sembrava non essere predisposto per avvertire stanchezza o fatica.

Eva conosceva la strada. Quel pianeta le apparteneva da quando vi aveva messo piede.

Lei apparteneva alla Terra e la Terra le rispondeva con un vigore del tutto nuovo e innaturale.

Aveva visto in lei una nuova progenie, il ritorno di qualcosa che sembrava andato perduto per sempre, l'inizio di un futuro pieno di promesse.

L'aveva eletta con la naturalezza consona a quel pianeta contorto, diverso da tutti gli altri astri che occupavano l'infinito universo, unico nel suo genere, speciale. Su quel pianeta un battito d'ali di farfalla avrebbe potuto scatenare un tornado di dimensioni epocali dall'altra parte del globo. Contrasti insanabili venivano accolti come eventi normali.

Eva aveva accettato quel ruolo con profonda reticenza, prima cercando di sopprimerlo, di negarlo anche a se stessa, poi soccombendo a esso, vittima e spettatrice di uno spettacolo a cui non voleva partecipare.

Mai più, si ripeté, mentre le gambe s'infiammavano d'acido lattico.

Mai più, si ripeté, mentre il cuore cessava di lagnarsi per il mal d'amore e iniziava a pompare sangue ed endorfine nelle vene.

Mai più si sarebbe sottomessa.

Mai più l'avrebbero ferita.

Mai più l'avrebbero ingabbiata.

Mai più l'avrebbero umiliata, denigrata, sottovalutata, sminuita, lasciata da parte perché non era abbastanza forte, perché non era abbastanza matura.

Mai più.

La vegetazione cominciò a diradarsi.

La rupe glabra si affacciava su un mare in tempesta. Grossi nuvoloni scuri oscuravano quella che avrebbe dovuta essere una lunga e placida giornata di sole.

Mai più.

Gli angoli delle labbra si incurvarono verso il cielo.

Il dirupo era alto una decina di metri, finiva con uno sperone sassoso, simile al becco ricurvo di un rapace intento a rimirare l'orizzonte.

Eva accelerò il passo.

Il branco, dietro la sua schiena, si fermò appena in tempo, le zampe pelose stridettero sul terreno ghiaioso. L'inerzia del loro moto li trascinò fino al bordo.

L'Umana fu l'unica a non rallentare il passo.

Progredì spedita, con un'espressione di pura follia dipinta sul volto.

Nessuna paura, nessuna esitazione, la sua corsa avvertì anzi una lieve accelerazione.

Prima di prendere il volo.

Prima del tuffo finale.

Prima che tutto svanisse nel buio.

Il vuoto sotto le sue gambe, il cuore che sembrava volerle fuggire dalla gola, il respiro che si mozzava, la mente che si spegneva.

Poi solo il nulla.

La caduta.


La rinascita.


Vi avevo avvertiti che avremmo cominciato bene ma non benissimo... 

Chi si ricorda della profezia del salice piangente? Be', a questo faceva riferimento ;)


Buon lunedì e grazie a tutti per essere ancora qua ❤️

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