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7. Verità

Kuran aveva lasciato uno dei suoi gettoni a Summer, in modo che potesse fare un'altra doccia, prima di coricarsi. Le aveva prestato alcuni suoi indumenti, anche se le stavano grandi il doppio, cadevano flaccidi sul suo fisico scarno, rendevano ancora più palese il dimagrimento eccessivo a cui era stata sottoposta in quei tre lunghi mesi.

Summer avrebbe potuto rifiutarsi, permettere a lui di darsi una sciacquata o tranquillizzarlo sul fatto che avesse iniziato a dimagrire molto prima di quella partenza, molto prima di quella spedizione, forse quando c'era ancora lui, quando non si era ancora arruolato, come se presagisse che qualcosa di orribile stesse per accadere...

Ma non era sicura che fosse quello che lui voleva sentirsi dire.

Summer aveva un braccio forato dalle zanne, alcuni buchi argentati, altri rossastri, un seno screziato da filamenti sottili, un lungo collare frastagliato che le risaliva fino all'orecchio sinistro.

Il pilota osservò muto quelle cicatrici lucenti, si chiese quanto vi fosse andata vicina, quanto avesse rischiato di perderla, quanto avesse dovuto soffrire, lei, a causa sua.

«Sto bene adesso.» Sembrava avergli letto nel pensiero. Si sdraiò sulla brandina striminzita.

Ulrik non era rientrato alla tenda, probabilmente avrebbe passato la notte insonne. Hans si era trattenuto fuori, alla ricerca di una sistemazione per l'ex-professore e l'Umano, di cui non conoscevano ancora il nome.

Il pilota era stato categorico: in quell'abitazione erano già in troppi, non c'era più spazio per nessuno. Il vice-comandante aveva brontolato riguardo l'ospitalità e lui l'aveva bellamente ignorato.

Voleva stare solo con lei. Dovevano parlare.

«L'ho fatto per te. Solo e unicamente per te.»

Kuran avvertì il cuore rattrappirsi in petto, un dolore acuto e perforante, che riverberava in ogni estremità del suo corpo. Dovevano essere parole romantiche, un sacrificio apprezzabile, un segno di vero amore. Eppure rimaneva ogni volta annichilito da quella dichiarazione, gli faceva male.

"Ma se lei fosse rimasta sull'arca, sarebbe morta comunque..."

«Cos'è successo? Come hai fatto a tornare in Accademia? Questi mesi... come avete fatto a sopravvivere?»

Lei scostò lo sguardo. Era sdraiata sotto di lui, riusciva a vedere con nitidezza ogni ombra sul suo volto, le profonde borse violacee che le contornavano gli occhi così spenti, così sbiaditi, le sopracciglia rade, le nuove rughe attorno alla bocca e sulla fronte. Anche i capelli erano sbiaditi, alcune ciocche bianche rivelavano traumi di cui lei non gli avrebbe mai parlato.

«Sono tornata per te, non potevo lasciarti andare... tu sei la mia famiglia, Kuran.»

«Summer, io non ho nemmeno un cognome.»

Lei lo fissò spaesata.

I giovani cresciuti in Accademia perdevano il cognome. Questo perché l'Accademia li adottava, a tutti gli effetti. Quelli che abbandonavano quell'ambiente rigido e austero (molti pochi in verità, era raro che qualcuno vi riuscisse), potevano chiedere che gli fosse riaffidato il cognome che avevano alla nascita o di ottenerne uno nuovo. La ragazza non l'aveva fatto. Aveva preferito rimanere così, solo Summer. E con quel nome così breve era chiaro a tutti da dove provenisse. Le colleghe la squadravano male, i genitori storcevano il naso, in ogni luogo in cui presentava la sua carta d'identità riceveva sguardi diffidenti o come minimo imbarazzati. Fuggita, espulsa, radiata, non importava, portava addosso l'onta di un disertore. Non glie n'era mai importato molto, vi era abituata. Era stata proprio quella scuola ad addestrarla a resistere ai pregiudizi, all'odio che il mondo sembrava riversarle contro a ogni minima occasione. Era stata l'Accademia a insegnarle a camminare a testa alta, fiera, sprezzante, con quel filo di arroganza di chi è sicuro di essere nel giusto, di non aver nulla di cui vergognarsi, di dover essere solo fedele a se stesso e al proprio amore.

E il suo amore ora era lì, davanti a lei. Non le sembrava ancora vero. Aveva fatto tutto questo per lui, solo e unicamente per lui, ma non le pareva ancora vero. Ci aveva sperato, aveva pregato l'Universo, aveva supplicato i vecchi e defunti Dei degli Antichi, ma ci aveva mai seriamente creduto? Forse no. Forse era stata una missione suicida, fin dall'inizio, un modo come un altro per farla finita, un tentativo estremo per ricongiungersi con chi non c'era più, con chi l'aveva abbandonata per sempre.

Quello che Summer non capiva era che Kuran lo aveva intuito. E non poteva che soffrirne.

«Cosa c'è che non va, Kuran? Non sei felice? Non ti sono mancata?»

«Ma sì, certo che mi sei mancata...»

«Allora perché fai quella faccia? Perché sembri così triste? Come se non mi volessi!»

«Non è così, è solo che...»

«Perché? Ho fatto tutto questo per te, solo e unicamente per...»

«BASTA RIPETERLO!» sbottò lui con un tono troppo alto, che solo in rarissime occasioni era stato portato a utilizzare. «Basta ripeterlo!» ripeté, portandosi una mano sulla fronte, come se quell'urlo l'avesse stremato.

Gli occhi della sua fidanzata si riempirono di lacrime. Non aveva forze per litigare, riuscì solo a sollevarsi sugli avambracci, scrutare la schiena curva, il profilo troppo bello e severo.

Lo attese col cuore in gola, incapace di fare altro.

Alla fine, lui si voltò, gli occhi allungati non avevano traccia alcuna di pianto, eppure erano arrossati.

«Andrà tutto bene, adesso. È tutto finito. Sono felice che tu sia viva, sono felice di averti ritrovata.» Le aggiustò una ciocca dietro l'orecchio. «Non dovrai temere più nulla, ci sarò io adesso. Andrà tutto bene.»

"Ripete queste frasi a se stesso, non le sta dicendo davvero a me" pensò la ragazza, mentre annuiva con condiscendenza.

«Perché non siamo andati nella tenda di Tomas? Eravamo due coppie, forse avremmo disturbato meno. Xavier e Adam sarebbero potuti venire qui, poi io Tom lo conosco da una vita, siamo cresciuti insieme e...»

«Secondo te ti sembra una buona idea dormire nella tenda con il tuo ex?!» le abbaiò contro.

La compagna scoppiò a ridere. E sebbene lui fosse arrabbiato, il suono di quella risata spontanea, così simile a quella solare che era solita scrosciare spesso, dalla sera alla mattina, anche per futili motivi, quando erano più giovani, lo rabbonì.

«Davvero? Ne avete parlato? Che imbarazzo! Ma è successo un sacco di anni fa! Eravamo ragazzini!» Lo baciò su una guancia e lui si sdraiò con lei, sprofondò il viso sul suo petto e chiuse le palpebre a disagio. «Non dirmi che eri geloso?» Lo punzecchiò ancora una volta.

Avrebbe voluto scherzare con lei, ma non vi riuscì.

Dentro di sé sentiva il mostro che si contorceva, indomito e insofferente, la strinse con ardore, cercando di cacciare tutti i suoi più oscuri pensieri, quello che era successo, le litigate, il tradimento...

"E lei che è venuta fin quaggiù per me, solo e unicamente per me."

Non ne poteva più di quelle parole, non voleva più udirle. La sua mente le trasmetteva senza sosta, monito inclemente di una vita vile passata a prendere decisioni sbagliate.

«Dimentichiamoci di tutto e tutti. Voglio lasciarmi il passato alle spalle. Mi interessa solo che tu ora sei qui, con me. Andrà tutto bene, adesso, non dovrai preoccuparti più di nulla.»

E Summer ancora una volta glielo lasciò credere, di essere una di quelle donne che hanno bisogno di un uomo forte e salvifico, di poter soggiacere alla sua protezione.

Entrambi avevano la loro litania che li teneva in vita.

Nessuno dei due si accorse che il loro abbraccio era sempre più freddo. La fiamma si stava spegnendo e i ricordi non erano combustibili sufficientemente forti da farla bruciare una terza e ultima volta.





Hans si avvicinò impacciato ai due nuovi arrivati.

«Professore» lo salutò, e imbarazzato si profuse in un mezzo inchino, con la mano tesa e tremante e gli occhiali che scivolavano lungo il naso dritto sempre più madido di sudore freddo.

«Hans, possiamo anche lasciare da parte queste inutili cerimonie.» Xavier lo redarguì con un gesto brusco.

Il ragazzino sorrise e gli strizzò l'occhio, guardò sardonico quei due uomini che si passavano di fianco senza degnarsi di uno sguardo, uno perché troppo timido, l'altro perché troppo orgoglioso.

Si erano già conosciuti, nelle aule dell'Accademia. Mentre Hans però si chiudeva spesso in biblioteca per produrre tesi e ricerche e correggere gli scritti dei propri mentori fino a tarda notte, Xavier preferiva stare in aula, a contatto coi ragazzi, soprattutto quelli più giovani, fuggiva le scartoffie e non poteva sopportare di stare in mezzo alla polvere e alle anticaglie. Due poli opposti che di rado si erano scontrati, se non a qualche riunione collegiale, a qualche consiglio in presidenza. Anche lì però non avevano mai avuto modo di parlarsi. Hans sempre rinchiuso nel suo mondo aneddotico, logico e razionale, Xavier troppo preso da temi più cocenti e attuali, come il bullismo spietato che imperversava nei corridoi, l'espulsione o la bocciatura di alcuni ragazzi, per lui troppo immaturi per pagare a tale prezzo le loro puerili marachelle, il ritiro di altri per esaurimento fisico e mentale, l'assenza di spirito di solidarietà, di collaborazione, di lavoro di squadra, l'importanza di una didattica più incentrata a creare amicizie sincere piuttosto che rivalità spietate. Xavier voleva la rivoluzione, Hans voleva studiare in santa pace, possibilmente da solo.

«Lui è Adam comunque.» Fece un rapido cenno al ragazzino.

Al collega caddero a terra gli occhiali. Dovettero aiutarlo a recuperare le lenti nel fango, nella semioscurità crepuscolare. Il temporale aveva lasciato sul selciato ampie pozzanghere.

L'Umano aveva un ghigno in faccia, illuminato dagli occhi di zaffiro, che lo fece rabbrividire.

«A-adam?» balbettò.

«Adam Dima Hollander, al suo servizio» si profuse in un irrisorio saluto militare.

«M-ma l'Umana... l'Umana si chiama...» Il professore fece un rapido calcolo delle probabilità. Rimase con lo sguardo attorcigliato nei pensieri per parecchio tempo, finché non udì l'uomo sgranchirsi la voce sempre più spazientito.

«Non dovevi accompagnarci alla nostra tenda, Hans?» sbottò nervoso.

Adam scoppiò a ridere.

Mentre li guidava a capo chino, lo udì sfotterlo alle sue spalle. Insulti, una battuta volgare.

Incredibilmente però il compagno non gradì molto quell'umorismo. «Sta' zitto. Sono stato chiaro? Zitto! Io non ti copro più le spalle! Mi sono rotto del tuo atteggiamento del...»

«Stai calmo, zietto...»

«Ascoltami bene, Adam, sono stufo, stufo marcio...»

«Certo, zietto.»

«Adam!»

Lo afferrò malamente per il bavero della maglia. Lui rise di nuovo, lo lasciò fare, sventolò le mani con finta innocenza.

Xavier era così fuori di sé dalla rabbia da apparirgli ridicolo, i capelli ancora bagnati dalla doccia gocciolavano sulle sopracciglia folte, inarcate nel cipiglio più severo che avessero mai assunto, rendeva il suo profilo ancora più lungo e spigoloso.

«Okay okay, zietto» cinguettò in falsetto.

Vide una vena sulla fronte tesa dell'uomo pulsare sangue e titanio al cervello.

Stupidi Titans, loro non sanno cosa voglia dire... non sanno davvero cosa significhi, perdere la ragione...

«Ho detto okay!» ripeté togliendosi la morsa di dosso con fin troppa facilità.

La capanna di Tomas e Shani era piccola, in legno, squadrata, con tende scure alle finestre e il tetto rivestito di paglia.

Quando entrarono, trovarono due materassi rinfoderati di crine, ricoperti da spesse trapunte di lana grezza di pecora, su una struttura vacillante di metallo. Alcuni panni puliti erano stati piegati con cura sul bordo.

Il resto della stanza era stato riordinato alla bell'e meglio, si notavano ancora le innumerevoli scritte sul muro, aforismi storpiati, doppi sensi, riferimenti neanche troppo velati a una sessualità vissuta con gaudio, come fosse uno degli ultimi piaceri che ci si potesse permettere su quel pianeta infame. Qualche indumento stropicciato nascosto dietro il letto dei due amanti e un mucchio di fiori secchi appesi per il gambo davanti a una finestra, erano gli unici averi degni di essere chiamati tali. Ciò non sfuggì all'acuto sguardo dei nuovi arrivati.

Tomas e Shani erano seduti vicini. Shani rigida e sull'attenti, Tomas stravaccato sugli avambracci in un dissimulato menefreghismo. Non avevano partecipato alla riunione, ma avevano già sentito da alcune voce che non era andata molto bene: c'era stato un secondo scontro tra i due Umani.

«Io dormo con lei» sogghignò Adam, e fece l'occhiolino alla bellissima fanciulla bruna che gli si presentò davanti.

Nessuno fece in tempo a rispondere, la risata cristallina del giovane anarchico coprì ogni possibile replica. Avvolse un braccio attorno alla vita tesa della sua ragazza, solo in apparenza per istinto territoriale: in realtà stava cercando di contenere col suo caloroso affetto la rabbia furiosa che crepitava dentro di lei.

Shani aveva le orecchie che fumavano. Avrebbe potuto farli saltare tutti in aria.

«Non ti conviene, la mia fidanzata nasconde un coltello sotto il cuscino e ogni volta che fa un incubo te lo punta alla gola. Spiacevolissimo, soprattutto alle cinque del mattino. Un'esperienza che non raccomanderei al mio peggior nemico.» Si alzò a sedere, la tirò a sé e la baciò sulla fronte. Lei sorrise appena, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di cobalto del nuovo arrivato, come se stesse soppesando su come cavarglieli con le unghie.

«Pazienza. Da quanto ho capito le ragazze in questo villaggio non sono per nulla ospitali...»

«Ti prego...» Xavier si lasciò ricadere su un materasso a terra, stremato. Si pettinò all'indietro i capelli umidi, poi rivolse uno sguardo mite al ragazzo che lo stava osservando.

«Sono davvero felice di rivederti, Tomas. Mi ricordo benissimo di te.»

Il giovane anarchico sobbalzò. Cercò di inquadrare il suo viso, senza riuscirvi.

«Mi dispiace per quello che ti hanno fatto. Credimi, ho provato in tutti i modi a dissuaderli, ci ho messo la faccia, ho fatto appelli, lettere di protesta, ho chiesto la grazia agli Anziani. Ho perfino pagato un avvocato per...» La voce gli si mozzò in gola. Inutile. Era stato comunque tutto inutile.

Quella rivelazione li spiazzò. Forse era meglio rabbia e diffidenza a nostalgia e imbarazzo.

«Il celebre ladro di parabole... ti immaginavo molto diverso. Che ne so, un po' più rude.» Adam inclinò il capo di lato, lo studiò un paio di volte, dall'alto al basso, con un ghigno impietoso.

Tomas gli fece un lieve cenno d'assenso, senza allontanare il braccio dalla sua guerriera, che stava fremendo d'impazienza. Ora era davvero sul punto di esplodere.

«Spiacente di aver deluso le tue aspettative, questa è una mia specialità.»

«La mia invece è essere all'altezza delle peggiori.» Gli strizzò un occhio blu oltremare.

Tomas rise, non lo stava prendendo sul serio.

«Bene, andrete d'accordissimo. Mi sembra di essere regredito alla scuola della prima infanzia.» Xavier scosse la testa.

«Dove lavorava la dolce Summer, vero? Non possiamo dormire con lei? Anzi no, perché non possono venire qua lei e Kuran? Anche loro sono una coppia! E noi invece facciamo una camerata di soli uomini!»

Xavier afferrò malamente una manica della giacca dell'Umano, lo costrinse a sedersi al suo fianco.

«Adam, te lo ripeto una sola, ultimissima, volta...»

Quel nome fece sussultare i due amanti, che esaminarono nervosi Hans in attesa di conferma, di risposte. Gli occhiali sporchi del professore si appannarono di nuovo.

«Cosa avete contro il mio nome?»

Nessuno riuscì a replicare a dovere per alcuni lunghissimi istanti di silenzio.

Dovette riformulare la domanda, in modo più volgare. «Che cazzo avete tutti e quanti contro il mio nome?!»

«Vedi... L'Umana... beh, lei si chiama Evangeline, ma tutti noi l'abbiamo sempre chiamata Eva.»

Vi avevo avvisati che Kuran sarebbe stato più presente, ma che non sapevo se questo sarebbe stato un bene o un male...

Adam invece è sempre più simpatico e il povero Xavier sempre più stressato.

Si intravedono ship improbabili all'orizzonte...

Però le più improbabili sono quelle che poi si avverano... 😏

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