6. La riunione
«Sei ferito?»
Anche se gli avesse risposto di sì, intuì dallo sguardo vacuo della ragazza, non gliene sarebbe fregato molto.
Così rispose con un sorriso sprezzante e la fissò con tutta l'acredine che il suo corpo emanava.
«Sei preoccupata per me, tesoro?»
Summer levò lo sguardo al cielo, l'ex-professore si frappose fra i due.
«Adesso basta, Adam! Ora la devi finire! Tra poco saremo convocati, ci faranno diverse domande, dobbiamo fare un rapporto dettagliato di quanto è avvenuto, dei mesi trascorsi, di ciò che è successo a noi e ai nostri compagni. Lo so che stai male, lo so che è difficile, per te, sopportare tutto questo. Ma resterai muto, intesi? Muto come un pesce. Guardami negli occhi.» L'uomo afferrò con forza il mento diafano del giovane. Il contrasto era abissale. I lineamenti di Xavier erano irregolari e sproporzionati. Il naso aquilino, il mento appuntito e sporgente, le sopracciglia folte e mal disegnate e gli occhi scuri e infossati caratterizzavano in modo unico e originale il profilo di un uomo a cui della bellezza classica non glie n'era mai importato nulla. E di certo non gliene importava adesso di quella di un fanciullo all'acqua di rose, tanto prepotente quanto psicolabile e infantile. «Non dirai nulla, non una parola, un'offesa, neanche mezza frase. Guardami, Adam! Resterai zitto! Zitto, muto!»
Con le unghie smangiate gli graffiò in modo superficiale la pelle, in modo da cicatrizzare il messaggio sulla sua faccia da schiaffi.
«Come un agnellino sacrificale» lo irrise il giovane.
Summer sbuffò e fece per andarsene.
«Dove vai? Dobbiamo restare insieme! Siamo una squadra, dobbiamo guardarci le spalle a vicenda! Non è stato il benvenuto che ci aspettavamo, di certo questo cretino non ha reso le cose più facili, ma dobbiamo stare uniti, dobbiamo...»
«Io non vi devo proprio un cazzo, Xavier.»
L'uomo si alzò di scatto, irrigidito dalla volgarità di quella affermazione. L'aveva sempre saputo, l'aveva sempre intuito, ma sentirglielo professare ad alta voce, guardarla in faccia e capire che ogni suo pregiudizio nei suoi confronti era ben motivato, gli fece male.
«Quindi per te adesso è tutto finito? L'hai ritrovato e la tua missione si è conclusa?»
«Anche la vostra missione si è conclusa. Comunque sì, per me è finita. Non devo niente ad Adam, perché lo dovrei proteggere? Che marcisca all'inferno, per quanto me ne può fregare. L'ho già dovuto sopportare abbastanza.»
Provò ad allontanarsi di nuovo, ma l'uomo l'arpionò con violenza. Gli occhi solitamente pacati e clementi fremevano di rabbia.
«Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto quello che abbiamo affrontato, insieme, come puoi dire una cosa del genere? Eh? Me lo spieghi? Ci hai usati per tornare da lui e ora ci rinneghi con tanta superficialità? Come fai a essere così ipocrita, Summer?»
Le iridi verde pallido sorressero senza alcun pudore il suo sguardo inclemente.
«Te l'ho detto: io non vi devo niente. Io sono qui per lui. Non per Adam.»
L'ex professore provò l'impulso irresistibile di tirarle un ceffone e il solo pensiero lo mortificò. La lasciò andare, sconvolto dalla stanchezza che l'aveva portato al limite tra il bene e il male.
«Sono ancora qua, comunque, nel caso ve ne foste scordati» sogghignò divertito il ragazzino.
«È questo il problema, è questo il vero problema: che sei ancora qua!» gli strillò contro la pilota.
«Summer, ascolta, gli Anziani ci hanno dato un incarico...»
«Non prendo ordine da un'oligarchia reazionaria secondo la quale un individuo gode di piena libertà solo quando è inserito all'interno di un gruppo sociale gerarchicamente ordinato.»
Una pappardella appresa a memoria, pensò Xavier. Aveva subito riconosciuto il giovane anarchico che aveva abbracciato con tanto ardore. Credeva lo avessero giustiziato nelle prigioni, che quello che avessero imbarcato fosse solo un sosia.
E invece no, era lui per davvero. Si era salvato, contro ogni previsione.
«Forse non hai letto le leggi che sono apposte fuori da quella capanna di legno, al centro del villaggio. Non me ne importa di disquisire di politica, non ora. Adam è Umano e noi...»
«C'è anche un'altra Umana...»
«L'hai vista, Summer? Hai visto anche tu cosa ha fatto? È una ragazzina squilibrata che ha addestrato una tigre per farsi giustizia da sola!»
In quel momento qualcuno si sgranchì la voce, un ringhiare ostile simile a quello di un animale.
Tutti e tre trasalirono scorgendo la sagoma imponente e austera del comandante della quinta missione.
Ulrik non accennò nemmeno mezzo sorriso, eseguì solo un lieve cenno del capo.
Fu comunque molto esaustivo.
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La sala centrale, così l'avevano rinominata al villaggio, era un'asettica costruzione in legno, di forma circolare, posta proprio al centro dell'accampamento. Il tetto, da poco ricostruito, era lievemente spiovente, segno che il clima doveva essere abbastanza temperato in quel luogo. Vi erano un paio di finestre, rivestite con tende scure. Ai lati di queste, erano state affisse alla parete lanterne di bronzo e ferro battuto, a olio.
Da un lato della struttura erano stati posti, davanti a un tavolo sgombro, tre seggi con alti schienali e braccioli logorati dal tempo e dall'umidità.
Uno rimase vuoto, sugli altri sedettero una donna tarchiata, dalla pelle abbronzata, con una lunga treccia variopinta da cui sporgevano piume e fiori secchi, e un uomo statuario e massiccio, alto come il biondo ufficiale, ma dai colori e lineamenti opposti. Tanto Ulrik era algido e freddo come le stirpi che popolavano il nord Europa, tanto Solomon era scuro e caldo, come le genti che avevano vissuto nell'Africa centrale. Il volto di entrambi era però ugualmente inespressivo.
Il capo villaggio si era rifiutato di indossare il copricapo o di dipingersi le guance di rosso acceso. Quella era una teatralità che amava esporre Melchor. A lui non interessava allestire una messinscena. Avevano già dato sufficiente spettacolo.
Osservò severo i nuovi arrivati, li studiò a fondo, impegnandosi però a non muovere nemmeno un muscolo, a non far ruotare il globo oculare, a mostrarsi indifferente, quasi distratto, assorto. Una maschera che non aveva bisogno di trucco, una maschera che aveva imparato a indossare in quei lunghissimi quarant'anni in cui aveva vissuto su quel pianeta infame. Vi era atterrato giovanissimo, ingenuo, zelante e curioso. Era stato ridotto in cenere, bruciato vivo, riportato alla vita con la forza, contro il suo volere, da un uomo che poi l'aveva abbandonato senza alcuna spiegazione, senza nemmeno concedergli un vero addio.
Luis...
Chissà cosa avrebbe fatto lui al loro posto. Li avrebbe accolti festoso o sarebbe stato previdente? Aveva commesso molti errori, Luis, con la sua benevolenza, la sua sconfinata bontà d'animo.
Erano morti degli uomini a causa sua.
Melchor gliel'aveva ripetuto fino allo sfinimento. Solo a causa sua...
Non dovevano essere deboli come lo era stato lui, dovevano essere più accorti, più spietati di quei demoni che a lungo li avevano torturati, dovevano divenire un incubo se volevano riposare sonni tranquilli.
Solo i mostri non hanno paura del buio.
❈
Kuran aveva voluto accompagnare a tutti i costi Summer, la ragazza bionda, emaciata e sgualcita, che ora si appoggiava al suo petto fingendosi una principessina appena tratta in salvo dal suo prode cavaliere. Gli bastò una rapida occhiata per comprendere che anche quella fosse una maschera. Il perché l'indossasse, era un mistero che andava svelato.
L'uomo, sui trent'anni, o forse anche meno, portati molto male, aveva già iniziato la sua disquisizione. Sarebbe andato d'accordo con Hans, rifletté Solomon? Avevano rivestito lo stesso ruolo all'Accademia. Forse no, lui seppe essere più conciso. Ogni tanto, involontariamente, lanciava occhiate ammonitrici al terzo e ultimo superstite, il ragazzino che era stato aggredito dalla tigre. L'Umano.
Incrociò quello sguardo di cobalto. Lui gli sorrise. Una fila di denti bianchi, dritti e lucenti, due iridi di un blu aggressivo, la giacca strappata dagli artigli della bestia portata con onore.
Solomon non mosse nemmeno un muscolo, sebbene dentro di sé stesse combattendo una guerra cruenta.
❈
Xavier prese fiato e si guardò attorno. Sperava di essere stato esaustivo, chiaro e di non aver annoiato troppo l'uditorio.
Non ebbe nessun feedback da parte dei presenti e questo lo deluse parecchio. Gli sembrava di essere tornato a scuola, a fare lezione di meccatronica applicata o analisi matematica ad alunni che non volevano ascoltarlo, che pensavano solo alla loro mera e desolante sopravvivenza.
Almeno Adam non era intervenuto, era davvero rimasto in silenzio. Già quello era un buon segno. Non aveva gradito la presenza di Ulrik, l'aveva giustificata col fatto che era, in fin dei conti, il comandante della squadra di esploratori che li aveva soccorsi. Riusciva a digerire meno il ragazzo moretto coi lineamenti orientali, che stringeva a sé quella gatta morta di Summer come se qualcuno gliel'avesse potuta rubare. Che pessima coppia. Non sapeva chi dei due gli stesse più antipatico.
Nessuno la udì arrivare.
Fu il moto nervoso del mastino della casata svedese a destare la loro attenzione.
Nel pieno di novembre, con l'escursione termica e l'aria fredda che si preparava al cambio di stagione, lei era ancora semi-svestita e scalza.
Questa volta indossava una gonna lunga, verde oliva e una blusa bianca che le lasciava il ventre scoperto. Sulla pelle chiara era visibile una spessa cicatrice sporgente di un rosso acceso. Per un attimo l'ex professore temette potesse trattarsi di un taglio cesareo, un'ipotesi raccapricciante vista la sua giovane età. Poi, rivalutando la posizione, l'ampiezza e lo screzio, si rese conto che doveva essere stata un'operazione d'urgenza, forse un'appendicectomia.
"Come ha fatto a sopravvivere a qualcosa del genere? Come ha fatto a guarire?"
I suoi pensieri tornarono subito all'Umano. Si avvicinò a lui, teso e guardingo, e con un cipiglio severo l'ammonì di non fiatare.
Evangeline, d'altro canto, non prestò loro attenzione, aveva interrotto il discorso dei nuovi arrivati e sembrava non importarle nulla. Avanzò aggraziata come una ballerina, il naso all'insù, le spalle distese e la schiena dritta. Si diresse verso Solomon, che non si era ancora mosso, e con un movimento languido e sensuale si sedette sul suo bracciolo, chinò il capo verso il suo collo e cominciò a sussurrargli qualcosa all'orecchio, mentre i lunghi capelli schiariti dal sole fungevano da riparo a occhi indiscreti.
Ulrik ringraziò di essere stato già avvisato, il suo cuore non avrebbe retto a quella scena improbabile. Nessun cuore, umano, animale o in titanio che fosse, si consolò, avrebbe retto.
Il pilota lo scosse per una spalla, era ancora ignaro di tutto. Rik scosse a sua volta il capo con mestizia. Non sapeva cosa dire, non sapeva nemmeno se aveva il diritto di dire qualcosa. Sapeva solo che il braccio sinistro era così intorpidito da ardergli di dolore e che per questo faticava a respirare.
Rimasero in quella posizione indiscreta a confabulare per tanti, troppi, lunghissimi minuti, sotto gli sguardi attoniti e perplessi dei superstiti della sesta spedizione e l'espressione sempre più frustrata della donna di mezza età, che stringeva i braccioli del proprio seggio con tanto trasporto che a breve li avrebbe disarcionati.
Quando Eva si rialzò, sorrise come se nulla fosse e fece l'occhiolino a Kuran, il quale invece impallidì.
«Avevi qualcosa da comunicarci, cara?» la redarguì sarcastica Magda.
«Nulla di importante.» Era cambiato qualcosa nel suo tono, da sempre forte e deciso, in netto contrasto con la sua figura esile e minuta.
Adesso la sua voce era più affilata, più roca, venata di odio ostentato con arguzia e irriverenza.
Il capo villaggio si aggiustò sulla sedia, le pupille sospese nel vuoto, come se soppesasse una decisione difficile da prendere.
Alla fine annuì.
«Siete i benvenuti nel nostro villaggio, superstiti dell'arca K-030» intercedette al suo posto Magda. «Sono felice che alcuni di voi si possano essere riconciliati con i loro compagni.» Indicò Summer e Kuran, che si strinsero l'un l'altra come se invece di essere stati accolti, fossero stati minacciati. «Apprenderete che le nostre regole sono poche ma rigide. Sono sicura che Ulrik potrà illustrarvele alla perfezione. Al momento non abbiamo tende libere a disposizione, spero che i vostri compagni si mostrino disponibili a ospitarvi almeno per stanotte. Sarà sempre Ulrik a predisporre per voi, nei prossimi giorni, una nuova sistemazione. È il migliore in questo campo, un valido aiuto per tutti noi.» Batté le mani, felice di aver delegato i compiti più importanti e di essersi liberata dall'impiccio.
«E quindi finisce tutto qua? È solo questo che sapete dirci? Siete i benvenuti?» Adam era avanzato così rapido e tempestivo che Xavier non era riuscito a placcarlo.
«E tu, troietta, non hai niente da dirmi? Nemmeno il tuo nome?» L'ex-professore l'afferrò malamente per un braccio, ma il ragazzo lo disarcionò con una forza e una tecnica inaspettata perfino per il compagno.
Avanzò ancora qualche passo, immemore delle promesse fatte. «Nulla da dire sul tuo potere? Nulla da dire su questa puttanata dell'umanità? Nulla da dire sul fatto che mi hai fatto scaraventare qua, contro il mio volere, su questo pianeta di merda, riferendo agli Anziani che io ero l'unica possibilità di sopravvivenza per la missione?! Era solo una menzogna! Non ho potuto far nulla per loro! Nulla! Sono morti tutti. E sono morti a causa tua!»
Lei gli rise in faccia, uno scroscio squillante che ben poco aveva di sincero.
Il ragazzino fremette serrando i pugni, non aveva mai odiato tanto in vita sua, e sì che si credeva nato dall'odio e sopravvissuto solo grazia a esso. Ma lei ribaltava tutto, lei rivoluzionava il significato stesso di quel sentimento viscerale. Desiderò poterla uccidere, desiderò farle così male da costringerla a supplicare, desiderò farle cose orribili e se le immaginò tutte, nei più vividi e sadici dettagli, bramò la sua fine come fosse la sua unica speranza di redenzione.
«A causa mia o a causa tua?» chiese Eva.
Adam annaspò.
La tigre infernale era riapparsa dietro la sua schiena, come se avesse udito gli insulti che erano stati rivolti alla sua protetta.
Il giovane deglutì a fatica, non si mosse. Poteva anche sbranarlo vivo, non era un codardo, non avrebbe chinato il capo, mai, non davanti a lei.
«Non esiste alcun potere» sibilò.
«Tu non hai nessun potere» precisò quella, suadente. Fece un altro passo nella sua direzione, la bestia la imitò.
«Io sono Umano, sono l'ultimo Umano rimasto sull'arca K-030, l'ultimo sopravvissuto, io sono...»
«Tu non sei Umano.»
Erano faccia a faccia adesso.
Nemmeno a un palmo di distanza.
La ragazza puzzava di fango e umidità, aveva la pelle impregnata dell'odore asfissiante della foresta, aghi di pino, corteccia, pioggia, foglie di quercia e acqua salmastra. Le sue iridi erano di un colore indefinito, tra l'oro, il castano e il verde smeraldo. Era così magra che le avrebbe potuto spezzare un braccio con una mano sola. Desiderò farlo, desiderò così tanto romperle qualcosa che dovette dirigere la sua attenzione agli arti rigidi del suo corpo per resistere a quell'impulso insano.
«Io sono Umano, posso provarlo!» le rispose con un tono più alto del normale, in modo che il messaggio potesse risuonare nell'intera sala. «Posso provarlo» ripeté in modo più pacato, rassicurando se stesso
Evangeline gli sorrise con falsa dolcezza. Chinò il capo di lato, come se lo volesse soppesare.
«Sai come hanno fatto a verificare che io fossi Umana, quando sono arrivata in questo meraviglioso e pittoresco villaggio?»
Magda si alzò dalla sedia, rossa in volto. Bastò uno sguardo della tigre a dissuaderla da ogni suo intento.
«Mi hanno picchiata finché non ho sputato sangue sul selciato, poi mi hanno trascinata nuda in una gabbia in cui era stata rinchiusa per mesi una tigre. Sì, proprio lei, Regina, quella che vedi alle mie spalle. Era così affamata che non sarebbe bastato di certo il mio corpo a saziarla!» Rise di gusto.
Xavier e Summer aspettarono fino all'ultimo che qualcuno negasse le sue affermazioni, che qualcuno si opponesse, controbattesse, che le confutasse, almeno in parte. Assistendo a quel silenzio omertoso, la giovane pilota afferrò il colletto della maglia del fidanzato, cercò i suoi torvi occhi imperscrutabili, neri e tristi come la notte. Ma tutto ciò che vi trovò fu solo una conferma.
Era la verità.
«E perché sei ancora qua?»
Stavolta l'Umana fu soddisfatta di quella replica, annuì colpita, sempre sorridente.
«Secondo te, perché sono ancora qua?»
Adam non seppe risponderle.
«Quindi vuoi picchiarmi, spogliarmi e farmi divorare vivo dalla tua tigre ammaestrata? È questo che vuoi fare?» replicò dopo un'attenta riflessione. Nelle sue iridi di zaffiro brillava tutta l'arroganza temprata fin da bambino.
«Oh, no, non ce n'è alcun bisogno» rispose con voce squillante. Si avvicinò al suo orecchio. I capelli profumavano di fiori. Fiori e rugiada mattutina. «Io so già che tu non sei Umano» mormorò in modo che solo lui potesse udirla.
E per la prima volta in vita sua quell'affermazione l'offese.
Dopo anni di esperimenti e privazioni, dopo tutto ciò che aveva subito, dopo tutto ciò che aveva sopportato, lei osava...
«Lurida pu...»
Non fece a tempo a terminare l'imprecazione.
La tigre ruggì, un tuono rimbombò fuori dalla capanna e pochi istanti dopo un lampo stemperò la notte che incombeva spietata all'esterno, una folgore di luce spettrale filtrò attraverso le spesse tende che rivestivano le finestre.
Quando tornarono a spostare l'attenzione sull'Umana, lei era già sparita.
Fuori invece aveva iniziato a diluviare.
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