50. Assenza
La tempesta invece che scemare aumentò.
In breve tempo divenne impossibile scorgere il paesaggio fuori dalla grotta. C'era un pesante manto bianco che gravava sulla terra. Il cielo era grigio e tormentoso, la temperatura polare.
Pigiati in uno spazio angusto, prigionieri dell'intemperie, erano sia carne nuda che rasoi: ogni movimento rischiava di ferirli o di farli sanguinare.
Il culmine lo si raggiunse quando Melchor schiaffeggiò Eva con tale impeto che la guancia le si gonfiò e divenne viola.
Tomas prese le sue difese e Shani uscì a cercare Ulrik, con le lacrime agli occhi per il nervoso.
«Devi rientrare.»
L'udito del comandante era compromesso dal vento. Gli pareva di avere chiodi aguzzi che dai timpani si infilzavano dritti nel cervello.
«Sto facendo la guardia» sbottò.
«L'ha colpita, cazzo!»
Lui si girò di scatto.
Erano passati più di quattro giorni, quasi cento ore di assoluta agonia.
Ed Evangeline non si era ripresa. Era sveglia, il battito nella norma, il respiro regolare. Però pareva del tutto insensibile agli stimoli esterni, fissava nel vuoto, non si muoveva. Manteneva una postura fiacca, passava la maggior parte del tempo raggomitolata nel sacco a pelo, in posizione fetale. Non rispondeva, non emetteva suoni, sembrava sordomuta, a tratti incosciente.
Aveva dormito molto, non aveva mangiato quasi nulla. Solo quando Rik entrava e la costringeva a inghiottire acqua zuccherata, ubbidiva. Le scorte erano quasi terminate, erano avanzate solo noci. Lui non gliele offriva perché quell'immobilità lo preoccupava: aveva paura di soffocarla.
Era l'unico a ignorare l'assurdità della situazione, l'unico che non cercasse con lo sguardo Summer, che non rispondesse alle provocazioni di Melchor o Adam.
Dormiva fuori. I capelli ghiacciati erano di un bianco spettrale. La punta delle dita era divenuta blu e il naso si era screpolato. Gli serviva del titanio, ma non lo chiedeva.
«Devi fare qualcosa, devi parlarle!»
Rik si massaggiò le tempie, rimase per qualche istante a fissare il vuoto.
«Non so se ne sono capace.»
Shani sospirò. «Questa neve... io non credo sia una coincidenza.»
Lui gettò lo sguardo in un punto indefinito, nel passato.
Poi si alzò in piedi e rientrò.
La caverna era un tugurio dall'odore grave: aliti affamati, fumo, sudore e fango. Erano stanchi e disperati, avevano freddo, non riuscivano a riposare.
«Fuori.»
Non alzò la voce. La sua sola presenza fu sufficiente. Sfiorò con la testa il soffitto roccioso.
Per un attimo tutti lo guardarono spaesati.
Fuori c'erano zero gradi.
«Non lo voglio ripetere.»
Melchor fu il primo a uscire, borbottando che sarebbe andato a caccia. Cercò di passargli il più distante possibile: non voleva guai. Forse si era pentito del gesto, molto più probabilmente ne temeva le conseguenze. Bea lo seguì a capo chino.
Adam aiutò Summer a rialzarsi. Le sussurrò qualcosa riguardo il fatto che una boccata d'aria fresca le avrebbe fatto bene. Lei l'ignorò, ma ubbidì al capitano.
Tomas si allontanò da Eva, che era tornata ad accucciarsi dentro il sacco a pelo.
«Abbiamo provato in tutti i modi! Adam ha controllato i riflessi. Tomas l'ha pregata di fare almeno un segno d'assenso. Io l'ho sgridata, l'ho perdonata, le ho chiesto scusa, ho rivangato vecchi ricordi, le ho parlato di Kuran... Niente!» Shani aveva le guance umide e la voce tremante.
Rik serrò la mascella.
«Adam blatera cose strane riguardo il potere. Potrebbe darsi che lei si sia... fatta male. Cercando di fare quella... cosa, su Kuran. Voleva riportarlo in vita ma... non ce l'ha fatta. Forse una parte di sé è morta con lui.»
Quest'immagine diede a Ulrik una scossa. «Fuori» ripeté, stavolta ad alta voce.
Shani scosse la testa e seguì Tomas all'esterno.
Avevano tenuto il fuoco acceso notte e giorno. L'antro era caldo, grazie ai loro respiri e alla combustione, ma l'aria era tossica, girava poco ossigeno.
Non sapevano dire che ora del giorno fosse. Non era notte, c'era luce là fuori. La bufera reprimeva il concetto stesso di temporalità. Si sarebbero potuti trovare lì da poche ore, quattro giorni, una settimana o un mese. Forse sarebbero tutti morti così: sepolti nelle montagne. Summer e Adam ne sapevano qualcosa, avevano già vissuto quella storia e non la volevano rivangare.
Rik si chinò nel giaciglio che aveva creato per la ragazzina, si sedette al suo fianco, le ginocchia divaricate e le braccia stese sopra. Controllò la borraccia che le aveva lasciato. Era ancora piena.
Rimase qualche minuto ad ascoltare il respiro di lei sincronizzato col vento che sferzava le chiome secche della foresta.
Non si sforzò di formulare un bel discorso, di scegliere le parole giuste. Non le aveva mai avute e non esistevano in quel momento.
Aveva un vago ricordo di se stesso da bambino: parlava poco e solo se interpellato. Di questo gli insegnanti si complimentavano, rinforzavano quell'aspetto caratteriale come fosse una qualità, un dono raro. Ai tempi Ulrik non parlava non perché ambisse a divenire l'alunno modello: non parlava perché non aveva nulla da dire.
Le parole erano bizzarre, potevano essere travisate e dare adito a diverse interpretazioni. Soprattutto quelle riguardo le emozioni. Per lui non avevano alcun significato. Aveva tutto ciò che si potesse desiderare: una casa, uno scopo, tre pasti al giorno, insegnanti premurosi, un letto, vestiti, un posto sicuro dove crescere, dottori che si prendevano cura del suo cuore, medicine sul comodino, vitamine dal sapore fruttato. Quella si poteva chiamare felicità?
Rik chinò la testa sul proprio grembo. Doveva essere felice, adesso, sapendo che dopo quel terribile agguato almeno loro si erano salvati? O poteva concedersi di essere triste, arrabbiato, stanco?
Stanchezza era l'emozione che avvertiva più spesso, il suo perenne stato d'animo.
Forse anche Eva era stanca. D'altronde aveva dormito molto. Forse stavano tutti esagerando mentre invece avrebbero dovuto solo essere felici. Perché erano vivi, e Kuran no. Lui era morto.
Quindi Kuran era l'unico che possedeva il diritto di essere triste o arrabbiato.
«Andrà tutto bene» biascicò.
Eva non mosse un muscolo, non perse un battito, non rallentò o accelerò il respiro.
Rik si fece coraggio e si voltò verso di lei. Con delicatezza la sollevò, la mise seduta e se la trascinò in grembo. Ma quando incrociò per sbaglio quegli occhi assenti, perse coraggio.
La strinse a sé, solo per non doverla guardare, per rimandare, per non vedere.
«Andrà tutto bene» si promise con fermezza.
Tre parole ridicole, senza alcun significato.
Sentiva la sua guancia contro il petto. Per la prima volta ringraziò la sua valvola cardiaca silente: non avrebbe rivelato il suo vero stato emotivo.
Forse era paura ciò che provava? Un terrore cieco che non riusciva a dominare?
«Fa lo stesso» aggiunse dopo qualche minuto. Non poteva soffermarsi troppo o gli altri là fuori sarebbero congelati.
Adempiere a quel compito gli costava e si sentiva in colpa per questo.
Senso di colpa. Un'altra emozione. Ora erano davvero troppe, non le riusciva nemmeno a contare.
Le diede un bacio sui capelli ispidi e freddi. Profumava ancora di primavera, anche in pieno inverno.
«Anche se niente tornerà mai più come prima, fa lo stesso. Anche se non ti riprenderai mai più, fa lo stesso. Anche se non ti ricordi di me, degli altri, della nostra missione, di te stessa... fa lo stesso. Torneremo al villaggio e mi prenderò cura io di te.»
Nostalgia, per quelle mattine in cui la vedeva distante, nei campi, con un bambino in braccio e un sorriso sul volto, e non osava andarle a parlare.
Rik rimase in quella posizione, col mento appoggiato alla sua nuca per parecchio tempo. Poi avvertì una lieve pressione e subito si riebbe dallo stato di torpore. La fissò col cuore in gola.
Aveva ancora uno sguardo velato che lo trapassava. Ma aveva reagito. Aveva reagito a qualcosa, anche se lui non capiva cosa.
«Ho perso...» Il tono di voce fu così flebile che lui non colse l'ultima parola. Non la riconobbe. La sua Eva non parlava in quel modo.
Aveva paura di spezzare l'incantesimo, quindi deglutì e rimase muto, in attesa.
«Devo andare.»
Andare dove? Perso che cosa?
Confusione, agitazione, turbamento. Il battito non era accelerato, ma la sua mente era in subbuglio, incasinata.
Però aveva parlato, ed erano quattro giorni che non apriva bocca se non per inghiottire a forza un sorso d'acqua. Aveva parlato e avrebbe dovuto essere felice di ciò.
Perché non lo era?
«Va bene.» Si sorprese di se stesso, delle sue parole. Deviò lo sguardo, la strinse con il braccio destro mentre con la mano sinistra le carezzava la schiena. «Va bene. Mi fido di te. So che tornerai. So che... è successo qualcosa che non posso capire e che tu non mi puoi spiegare. Ma so che tornerai.»
Evangeline divenne più rigida sotto il suo tocco. Per questo sciolse la presa e la lasciò andare.
Si sforzò di instaurare un contatto oculare, invano.
Lei non lo metteva a fuoco. Quelle parole le aveva dette a se stessa, non a lui, come se avesse improvvisamente preso consapevolezza della propria condizione.
«Io non ti abbandono. Resterò qui. Resteremo tutti qui, ad aspettarti.»
Non che avessero niente di meglio da fare, avanzare nella tormenta era impossibile. Sperò che lei si rendesse conto però dello sforzo che gli imponeva quella fiducia incondizionata.
D'un tratto una goccia piovve sul dorso della mano di lei. Entrambi si chinarono a fissarla. Evangeline non stava piangendo e la caverna non era umida. Quindi voleva dire che...
Rik si tastò le guance. Erano fradice. Non si era accorto di piangere. Forse era solo il ghiaccio che si scioglieva sulle tempie. Forse stava anche lui perdendo la ragione. Aveva bisogno di titanio. Tanto titanio e una macchina che glielo iniettasse in vena in ingenti quantità.
Quando Eva alzò lo sguardo, lui colse un barlume di lucidità.
«Devo andare.»
Rik annuì.
Si alzarono in sincrono. Dopo quattro giorni l'Umana stava in piedi da sola, sembrava possedere controllo del proprio corpo e iniziativa nei movimenti.
C'erano mille ragioni per cui lui non l'avrebbe dovuta lasciar andare: non aveva mangiato quasi nulla, era deperita, non avevano controllato la ferita alla mano, fuori c'erano una bufera di neve e zero gradi.
Shani si sarebbe incazzata e avrebbe dovuto fare a botte con Adam e la sua impulsività.
«Lo sai che ti amo, vero?»
I sentimenti non esistevano, ne era stato convinto per anni. Esistevano i fatti, le azioni e le reazioni, le lezioni da studiare, gli allenamenti, i bersagli da colpire, gli esami da superare.
Eva si voltò a guardarlo, prima di uscire dalla caverna. Fu come se lo vedesse per la prima volta.
"Mi fido di te e ti credo. Non l'ho fatto all'inizio e ho impiegato molto tempo per cambiare. Ma adesso so che solo tu puoi risolvere questa situazione, so che lo devi fare, per noi e per la missione, per tornare a casa."
Non le disse nulla.
Evangeline svanì prima che qualcuno facesse in tempo a fermarla.
Ulrik rimase a pagarne le conseguenze.
❈
Summer affondò le gambe nella neve e guardò verso l'alto. Sembrava pioggia, ma quando cadeva non faceva rumore. Era silenziosa e spietata, candida e mortale. Non aveva alcun sapore, appariva inconsistente, innocua. Ma si accumulava piano piano, s'irrigidiva, diventava solida, dura, come se la terra stesse sedimentando un nuovo strato per mettere maggior distanza tra sé e il passato.
«E quindi? Hai intenzione di lasciarti andare?»
Dopo tutto quello che gli avevano fatto, dopo essere stato malmenato e ridotto in fin di vita, dopo che avevano trasportato per settimane il suo corpo contuso e ammaccato, dopo aver trascorso quattro giorni in una grotta umida e buia, lui era comunque di una bellezza ultraterrena. Pelle bianca, ciglia così scure che sembravano dipinte con l'inchiostro attorno agli occhi per mettere in evidenza le iridi oltremare. I capelli, sempre più lunghi, gli cadevano lisci ai lati. Non riusciva a tenere la schiena dritta, anche se si sforzava di assumere una postura fiera.
Era così ingiusto.
Summer non lo poteva sopportare.
«Non ho intenzione di stare a guardare mentre ti uccidi con le tue stesse mani.»
Ridicolo. Ridicolo piccolo ragazzino ipocrita. La pilota sorrise tra sé e sé.
«E allora vattene.»
Lui avanzò impudente.
C'era qualcosa che spaventava l'Umano? Qualcosa che lo spaventava a tal punto da fargli provare un po' di sano timore reverenziale?
Ricordava la promessa fatta a Xavier. Ma non gli importava. Anche a lei era stato promesso che sarebbero tornati tutti sani e salvi al villaggio.
In fondo dava ragione a Bea: in quel gruppo c'era sempre stata una gerarchia. Alcuni di loro avevano un valore maggiore. La fragile e criptica Evangeline era insostituibile e inestimabile. Summer era una nullità. E Kuran? Kuran quanto valeva?
Per lei ogni cosa.
Per lui, solo ed esclusivamente per lui io sono qua.
Adam si era avvicinato, le stava alle spalle ora, le alitava sul collo.
«Alla fine sai che è stato un egoista. Sapeva che il dolore di chi resta è maggiore del dolore di chi giace. Puoi dire che ti ha salvata, ma la verità è che ha scelto la soluzione più facile, è stato un vile.»
Un attimo prima stava guardando il cielo con gli occhi socchiusi, il naso umido e la bocca serrata in una linea retta.
L'attimo dopo gli aveva messo entrambe le mani al collo, sollevato da terra e costretto contro la ruvida corteccia ghiacciata di una quercia.
Summer non aveva mantenuto un bell'aspetto. Il fascino si era sciupato col tempo, i suoi compagni di classe non l'avrebbero mai riconosciuta. Aveva solchi neri sotto gli occhi, i capelli fini legati in una minuscola coda. Molti erano divenuti prematuramente bianchi. A lei non gli importava. L'invecchiamento precoce non le faceva paura. Nulla le faceva più paura. Non aveva nulla da perdere e nulla da guadagnare.
Strinse la morsa sul collo del ragazzo, riconobbe vecchi segni giallastri di mani molto più grosse delle sue. Un po' se ne dispiacque: stava per guarire e lei lo stava spezzando di nuovo.
Chissà cosa avrebbe detto Xavier, chissà cosa avrebbero detto gli altri, quando fosse rientrata e avesse ammesso di aver uccido l'Umano.
«Fallo. Avanti» la spronò con quel poco di fiato che gli restava.
Chissà cos'avrebbe detto la sacerdotessa, la ragazzina prodigio, la prescelta. Chissà, magari si sarebbe degnata di darle una spiegazione.
Se Eva fosse intervenuta prima, Kuran sarebbe stato ancora vivo.
Quel nome le aprì uno squarcio nella mente.
Adam non aveva più fiato, era rosso e gonfio, le pupille riverse all'indietro.
Lei però vide il suo fidanzato, alto, fiero e severo.
"Odio le sceneggiate."
Sì, avrebbe detto qualcosa del genere. Le sfuggì un mezzo sorriso.
Un altro attimo e Adam era steso sulla neve, a bocconi. Tossiva in maniera convulsa, tremava.
«Non nominarlo mai più» lo avvisò.
Lui le rivolse uno sguardo ostile e provocatorio. Lei non lo sapeva, ma aveva già raggiunto il suo scopo: farla reagire.
«Mi fai schifo, Adam Dima Hollander. Saresti dovuto morire tu, non lui. Ma non pensare che per questo io smetterò di lottare. La mia vita adesso vale doppio, perché lui ha sacrificato la sua per me.» S'inginocchiò al suo cospetto. C'era ancora una bellezza residua nel suo aspetto, qualcosa di battagliero, forgiato dalla disperazione e dall'amore. «Tu puoi dire lo stesso? Chi mai si sacrificherebbe per uno come te?»
Ferì molto più a fondo di quanto avrebbe mai creduto possibile.
Dima rimase muto, immobile.
La vide alzarsi e tornare verso la crosta rocciosa.
L'Umano invece si sdraiò, lasciò sprofondare la sua massa nella neve.
Alla fine, cercò di convincersi, non gli importava.
❈
Come Ulrik aveva previsto, Adam lo attaccò con violenza quando venne a sapere che aveva lasciato uscire Eva da sola, senza nemmeno chiederle dove andasse, perché o quando avrebbe fatto ritorno. Melchor si produsse in insulti poco gentili su un presunto deficit intellettivo, Shani ebbe una crisi isterica, Tomas cercò di alleviare la tensione con qualche battuta sciocca, invano.
Il capo villaggio e Bea avevano catturato due scoiattoli. Anche se fossero stati così disperati da mangiarli per intero, compresa la pelliccia, comunque non si sarebbero sfamati in sei.
Le scorte erano ufficialmente finite e fuori non aveva smesso di nevicare.
Per questo il comandante uscì armato di fucile.
Per un secondo gli parve di sentire la presenza di Kuran alle spalle.
"Se vai a caccia, portami con te."
S'impietrì davanti all'ingresso, strinse forte l'impugnatura dell'arma.
E andò solo.
❈
Un cielo bianco, nessuna traccia, nessuna impronta.
La foresta ricordava, a modo suo.
Una ragazza camminava distratta.
Incedeva senza paura, stanca, afflitta.
La foresta la chiamava, la rimproverava, la consolava.
Lei si lasciò percuotere da quei suoni.
La terra ricordava, ricordava sempre, teneva traccia di tutto, non dimenticava nulla.
Non li aveva mai dimenticati.
Erano fiori estirpati dal suo giardino.
Senza di lei erano destinati ad appassire.
Loro si erano dimenticati da dove venissero. Ma la terra no, non si poteva scordare di loro.
E ora che erano tornati, per sopravvivere, dovevano piantare nuove radici.
La ragazza posò una mano sul terreno, avvertì la vibrazione.
Ora anche lei era pronta a lasciarlo andare.
La morte era un processo naturale.
Qualcosa restava in una forma diversa.
Qualcosa rimaneva sempre.
La terra non dimenticava, ma sapeva perdonare.
Le restituì qualcosa che lei aveva perso.
La sua coscienza.
❈
Avevano impiegato più tempo a spellare e disossare l'animale, che a mangiarlo. I morsi della fame non si erano acquietati, anzi. Avevano nello stomaco una voragine. Era come se quell'assaggio avesse aumentato il loro bisogno invece che sedarlo. Si erano quasi pentiti, avevano gli occhi lucidi e uno strano tremore alle mani.
«E se assumessimo del titanio? Ne abbiamo a volontà» suggerì Tomas.
Cercava di non puntare lo sguardo sul ventre troppo piatto di Shani, ma tutte le sue energie convogliavano comunque in un'unica direzione.
«Non servirebbe a nulla. I primi anni al villaggio ci abbiamo provato. È stato deleterio, per alcuni. Se il tuo corpo si abitua alla fame, quando riprendi a mangiare gli effetti collaterali sono terribili. Un digiuno prolungato aggrava le condizioni di salute in maniera marcata, indipendentemente dalle assunzioni di Hc34Fc987, al punto da metterne in serio pericolo la vita.» Melchor era calmo, risparmiava energie, non discuteva, parlava poco. Se per alcuni era un sollievo, per altri era un campanello d'allarme. Se anche lui che era sopravvissuto all'inferno si stava rassegnando a morire... loro non avevano alcuno scampo.
«Ci dev'essere qualcosa...» La voce di Tomas si spezzò a metà della frase.
Shani lo abbracciò e lui crollò sul suo petto, reprimendo un singhiozzo.
Più avevi da perdere, maggiore era il dolore, constatò Adam, con un ghigno ostile. Intercettò lo sguardo del comandante: fu un tacito ammonimento a tacere.
Ubbidì per istinto di sopravvivenza, non perché gliene importasse qualcosa.
Bea si affacciò alla caverna, timida e titubante.
«Ha smesso di nevicare» mormorò.
Il mattino seguente l'Umana tornò.
Capitolo un po' strano... voi non trovate?
È il picco di fantasy in questa saga distopica, spero che il messaggio vi sia arrivato.
Ve la ricordate la profezia della scimmia?
"Stai infrangendo tutte le leggi della natura, Umana. Hai varcato ogni limite. E sì, aveva ragione quel Titans. Questo è pericoloso. Molto pericoloso."
A questo faceva riferimento. Ci sono delle leggi che non possono essere infrante, ogni cosa ha un inizio e una fine. Dobbiamo accettarlo. Riconnettersi al tutto (ovvero alla natura) chiede come pegno la perdita di se stessi.
"Umana, riuscirai a combattere da sola?"
Domani comunque, se l'Universo vorrà, partirò per le vacanze in un remoto paesino calabrese in cui la connessione scarseggia ma il mare è davvero splendido. I capitoli sono pronti, ma onestamente non mi dannerò l'anima per pubblicarli, voglio godermi le mie meritate ferie (credetemi, ho sgobbato un sacco quest'anno, mi hanno aumentato le ore e questo caldo è stata la mazzata finale).
Al massimo al mio ritorno farò due aggiornamenti settimanali per recuperare.
Cosa ne dite? Fatemi sapere! 🙏🏻
Grazie come sempre per il vostro sostegno, non lo do mai per scontato ed è il più grande incoraggiamento che io possa ricevere ❤️❤️❤️
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