47. Distruzione
Si fermarono quando il sole iniziò ad albeggiare tra le fitte trame nodose e spoglie.
Evangeline aveva trovato una sorgente, riempito le borracce e umettato la fronte febbricitante dell'Umano con delle spugnature.
Adam era ancora semi-incosciente, la faccia deformata, gonfia e livida, era irriconoscibile. Ogni tanto emetteva un gemito, un colpo di tosse, un grugnito.
La ragazza gli sbottonò la giacca e sollevò la maglietta sudicia. Il torace era cosparso da larghi ematomi viola. Tastò con premura le vertebre, ne trovò due danneggiate.
«Sopravvivrà?»
La voce del comandante arrivò fredda come suo solito. Anche lui si era tolto la giacca e la maglia. A torso nudo, pallido e glabro, controllava una lunga e profonda ferita sul fianco sinistro con assoluto distacco. I lembi smerigliati avevano bisogno di una cucitura. Colavano gocce nere di titanio.
«Ha la febbre. Credo che abbia un'emorragia interna» rispose Eva, e distolse subito lo sguardo.
L'ansia e l'imbarazzo le fecero tremare le mani.
Rik prese un kit da pronto soccorso che aveva riposto in una tasca interna dello zaino, sterilizzò un ago con la fiamma viva del focolare, strappò un filo che pendeva da una manica e lo infilò nella cruna. Non replicò. Congiunse le due estremità della pelle con pollice e indice e le ricucì, seduto per terra, tra radici e aghi di pino, senza fiatare.
«N-no-non f-farlo... con me» Adam bofonchiò. Il suo sorriso insolente aveva un dente scheggiato. Le stava chiedendo di non replicare quella tortura su di lui.
«Non hai ferite visibili, purtroppo. È quello il tuo problema. Se no, certo che lo farei.»
Gli mise un rametto in bocca. Lui provò a divincolarsi e lei lo tenne fermo col suo peso. «Ti rimetto a posto il setto nasale, così respirerai meglio. Fa male solo all'inizio, poi passa.»
Adam iniziò a scalciare e sputare. Strizzava gli occhi e si divincolava come una furia.
Rik sopraggiunse con l'ago che ancora pendeva dal fianco. Aiutò la compagna.
Evangeline fu rapida e professionale, uno schiocco sinistro e il naso tornò al suo posto.
L'urlo però valicò la barriera di legno. Per qualche secondo Dima sperò di perdere i sensi. Ma il suo corpo continuò a farsi beffe di lui. Rimase sveglio, a bocconi.
«Dobbiamo sperare che non siano stati lesi gli organi principali. Se il problema fossero solo le vertebre rotte, basterebbero antidolorifici e riposo.» Eva parlò senza osare guardare nessuno.
Era un'assurdità. Avevano più di due settimane di viaggio da compiere. Per l'Umano non era previsto alcun "riposo".
«È la febbre... è la febbre che mi preoccupa. E il fatto che abbia sputato sangue.»
«Mi sono morso la lingua» biascicò a fatica Dima. Odiava che si parlasse di lui come se non fosse presente.
«No... io credo che sia...» Eva non riuscì a terminare la frase. Cercò con la coda dell'occhio l'attenzione di Ulrik.
Ma lui era assente, si stava rivestendo con una calma glaciale.
Le venne da piangere. Una voglia irrefrenabile di lasciare andare tutto il dolore, il terrore e la disperazione in un'inutile valle di lacrime.
Si fece forza, tirò su col naso e tamponò le ciglia inferiori.
Adam provò a mettersi seduto, lei lo rispinse a terra. «Fai il bravo» lo pregò.
Tra gli alberi un essere iniziò a cinguettare.
Lei quasi non se ne accorse, quasi non lo riconobbe. Ma le bastò alzare il capo, muovere l'indice verso il cielo, e il piccolo pennuto si palesò, posizionandosi sulla punta del suo dito.
Piumaggio gonfio, grigio e marrone, occhi neri come il carbone.
«Li hai trovati?»
I due ragazzi attesero una risposta col fiato sospeso.
L'uccellino piegò la testa a destra e a sinistra, scosse le ali, tentennò qualche istante e poi volò sulla cima di un altro albero, a nord-ovest.
Eva gli sorrise grata.
«T-ti ha p-parlato?» Adam fece un estremo tentativo di tirarsi su. Riuscì ad appoggiarsi sugli avambracci.
«Non sono distanti. Sono sulla montagna, lui può accompagnarci.»
Rik soppesò in silenzio la notizia. Eva cercò nella sua espressione tracce d'incredulità o fiducia.
Se c'era stato un momento in cui aveva intravisto qualcosa in lui, qualcosa che non fosse pura indifferenza, qualcosa che assomigliasse alla rabbia, all'odio, all'amore e alla passione, ora quel fuoco si era spento.
Il comandante fece un lieve cenno ad Adam e dopo aver ricevuto la sua approvazione, lo sollevò in piedi.
«Non ce la faccio a portarlo di nuovo in braccio» ammise.
Evangeline strabuzzò gli occhi. «Lascia lo zaino! Non lo possiamo abbandonare!» Si sentiva responsabile per tutto ciò che era avvenuto. Era stata lei, dopotutto, la causa di quel massacro insensato, di quella situazione ignominiosa e surreale.
«Non posso. Gli altri potrebbero essere feriti, ci servirà del titanio. Non intaccheremo le scorte, non stavolta.»
«Chi cazzo se ne frega delle scorte!» Non riuscì a contenersi. Strinse nei pugni il tessuto azzurro del vestito che l'avevano costretta a indossare.
Lui non si mostrò né sorpreso né angustiato per lo scatto di nervi. La trapassò con lo sguardo. «Perché non hai chiesto aiuto?»
Anche Adam, aggrappato al braccio del comandante, alzò il viso.
«Cosa?»
«Perché non hai chiesto aiuto alla natura o agli animali? Perché non hai usato il potere?»
Ulrik era serio, le stava davvero ponendo quelle questioni con la presunzione di uno che sapeva o che avrebbe potuto capire.
I Titans e la loro sconfinata arroganza. Tutto era loro e per loro. Ogni cosa viveva ed esisteva in loro funzione. Supponevano che la stessa realtà fosse asservita ai loro porci comodi, un'estensione delle loro capacità volitive.
«Perché la mia vita, per questo pianeta, non ha alcuna importanza. Non più di quella degli altri miliardi di esseri che la popolano. Perché non avrei mai chiesto un sacrificio in mio nome.»
Ulrik inarcò un sopracciglio. «Tu mi hai salvato la vita.»
Fu una pugnalata, un colpo basso che non si aspettava.
Serrò la mascella. «Salvarti la vita non ha rotto nessun equilibrio, non ha richiesto nessuna morte.»
«Eva.» Il tono divenne insolitamente severo. «Io ricordo cosa hai pronunciato alle porte del villaggio.»
"Il mio potere è grande, immenso e pericoloso. Voi non avete la più pallida idea di quello che io potrei fare."
Aveva minacciato l'intero villaggio, aveva promesso che sarebbero morti tutti, se Ulrik non fosse sopravvissuto.
Adam seguì quel dialogo silenzioso, da cui era escluso. Non capiva di cosa stessero parlando, quale fosse l'oggetto della discussione. Ma si era posto le stesse identiche domande di Ulrik e voleva anche lui una spiegazione.
Ci fu qualche instante di tensione.
Poi il viso di Evangeline si sfigurò, indossò la maschera della sacerdotessa folle e temibile, dimentica di tutto ciò che aveva subito, di chi gli stava di fronte, s'incupì con fare teatrale.
«Tu non puoi capire» pronunciò greve e gli rivolse una smorfia sprezzante.
Chiuse il discorso, definitivamente.
❈
Kuran si era mangiato le unghie fino all'osso. Nonostante Summer gli sedesse a fianco, non riusciva a placare l'irrequietezza. Ogni qual volta però lei tentava di alzarsi, anche solo per sgranchirsi le gambe e guardarsi intorno, lui la tratteneva a sé con forza. Era un riflesso automatico, un bisogno di sentirla vicina, al sicuro.
Ma era anche una forma di prigionia, come se un destino crudele li avesse ammanettati insieme.
Summer si promise di curare le sue ferite, una volta tornati a casa, di prendersi cura di lui come aveva fatto sull'arca. Per la decima volta allontanò le dita di lui dalla bocca e le strinse in grembo, proteggendole dal loro stesso padrone. Per la decima volta il pilota le rivolse uno sguardo perso e buio. Un ginocchio gli tremò e un rivolo di sudore scivolò lungo una tempia. Il terrore di perderla gli annebbiava la mente. Starle vicino non era abbastanza, avrebbe voluto stringerla, abbracciarla, invaderla, farla sua. Avrebbe voluto che i loro corpi si fondessero insieme, avere la certezza che le loro esistenze coincidessero. Non contemplava una vita senza Summer. Non sarebbe sopravvissuto a un secondo lutto. Ritrovarla per poi perderla di nuovo l'avrebbe annientato.
Avevano trovato Melchor, durante la notte.
Brancolava nel buio, a tentoni.
In realtà l'aveva trovato Shani, e non ne era stata molto felice. L'aveva condotto da loro con una smorfia d'insoddisfazione.
Ancora più atroce era stato scoprire che era solo, che Solomon era morto e che non aveva fatto in tempo nemmeno a seppellirlo.
La notizia aveva tolto a ciascuno di loro la facoltà di parola. Non avevano protestato, questionato, non si erano né lamentati né profusi in discorsi di cordoglio. Si erano zittiti.
Il capo villaggio era rimasto chino su se stesso, cereo e ossuto, contratto e muto.
Bea invece aveva pianto, cercando di non farsi notare. Le erano tornati alla mente i vecchi traumi, una mattina in cui splendeva un sole sgargiante, le urla acute al villaggio, la notizia che si diffondeva di casa in casa. Luis si era tolto la vita.
Tomas sorvegliava Shani di sottecchi.
La guerriera teneva ancora imbracciata la mitragliatrice e aveva preso il controllo della situazione. Sembrava essere l'unica a non avvertire stanchezza o turbamento. Nonostante il suo stato, vigilava risoluta, era già andata tre volte in avanscoperta, non aveva sonno e non tremava.
Tomas poteva fare poco, se non guardarle le spalle e pregare. Proprio lui, che aveva sempre detestato l'oppio dei popoli, adesso se ne stava seduto con le mani intrecciate e la schiena gobba.
Salvaci anche stavolta, ti prego, salvaci quest'ultima volta...
«Avete sentito anche voi?» Shani imbracciò l'arma.
Tutti si levarono in piedi e l'imitarono, sebbene non avessero sentito nulla oltre il fastidioso turbinio dei loro cattivi presagi.
«Sta arrivando qualcuno.» La ragazza allineò la pupilla col mirino, abbassò le spalle e assunse una posizione stabile con le gambe.
I fruscii divennero sempre più udibili, insieme a un suono leggero, un battito d'ali tra le fonde spoglie del querceto.
I passi cadenzati non erano celati, ma plateali. Chi sopravveniva non voleva prenderli di sprovvista, si stava annunciando.
Shani abbassò l'arma e tutti la fissarono spauriti.
Ma lei aveva il cuore in gola. Non pronunciò alcuna preghiera, non ne conosceva nessuna. Non aveva studiato, non leggeva molto, non credeva ai vecchi dei o all'antica superstizione. Però avvertiva la speranza riaccendersi, una fiammella nel cuore delle tenebre.
Dagli alberi comparvero tre figure.
Ulrik sosteneva a fatica il peso di Adam, lo trascinava con l'aiuto di Eva, che essendo più bassa sbilanciava la struttura già compromessa del ragazzo offrendogli la sua spalla ossuta.
Avevano tutti e tre un aspetto di un orrore incomprensibile. Il mastino era fradicio di liquidi corporei e cereo in viso. Eva indossava un antico abito da sera che le lasciava scoperte le gambe magre immerse in due scarponcini di una taglia troppo grande.
Ma quello messo peggio era Adam, l'Umano.
Quando Summer lo vide, scattò verso di lui. Kuran provò a trattenerla, ma lei si divincolò con violenza, sciolse la morsa, corse dal ragazzino e lo accolse tra le sue braccia.
Era fragile ed emaciata, ma riuscì comunque a sostenere entrambi con il solo impeto della commozione. Lo strinse forte, gli spostò i capelli corvini dal viso sfregiato, gli bagnò le guance con le sue stesse lacrime.
«Che ti hanno fatto, che ti è successo?»
Adam non si aspettava quell'accoglienza e non poté resisterle. Senza più energie, si vide costretto ad accasciarsi contro il suo petto, come un bambino. Si ritrovarono così entrambi seduti accovacciati. Adam poggiò la testa contro l'incavo del collo di lei e chiuse le palpebre, Summer lo cullò con dolcezza, imprecando a bassa voce contro chiunque gli avesse fatto del male.
«Dove siete stati?» irruppe Melchor. Era l'unico che non aveva ancora abbassato la pistola. «Vi hanno presi? Come siete riusciti a scappare? Chi l'ha conciato in questo modo?»
Lo sguardo di Tomas ricadde sul braccio fasciato di Eva. Le pupille si dilatarono, trattenne il fiato e capì al volo. Aveva avuto per settimane una mano fasciata allo stesso identico modo.
«Sono stato io» confessò il comandante, senza alcun timore.
Calò il gelo.
Eva abbassò il mento e si morse un labbro.
Non doveva andare in quel modo...
«Intende dire che ci ha salvati lui, ovviamente» borbottò Adam con un mezzo sospiro.
Ulrik ed Eva si impietrirono. Non osarono obiettare.
L'Umano sollevò il viso a fatica, si rivolse al resto della squadra e cercò di scandire le parole meglio che poteva, viste le sue precarie condizioni. «Siamo stati catturati e Ulrik ci ha liberati.»
«Chi è stato catturato? Quando? Come siete riusciti a liberarvi?!» Melchor abbassò il braccio e strinse il calcio della pistola in pugno.
«Ulrik era con noi, voi eravate da tutt'altra parte... Com'è successo? Come avete fatto a trovarvi?» domandò Shani. Ma quando alzò il viso sul comandante, trovò inutile ogni quesito.
Un'emotività incontrollabile prese il sopravvento, si liberò dell'arma tanto agognata, la lasciò cadere a terra come se non valesse nulla, si gettò al suo collo.
Rik la accolse con un po' di impaccio, non voleva abbracciarla in quel modo davanti a Tomas. Quell'irruenza pubblica non solo gli dava fastidio, lo metteva a disagio. Provò ad allontanarla, a ristabilire una corretta distanza, ma lei si avvinghiò con prepotenza.
«Vaffanculo» mormorò al suo orecchio. Rik rimase con le mani posizionate sui suoi fianchi, in attesa. «Ci hai abbandonati, mi hai abbandonata. Non ti libererai così facilmente di me. Non puoi lasciarmi andare. Non puoi sfuggirmi. Non lo farai più, non te lo permetterò!» La voce le si ruppe in un singhiozzo convulso.
Qualcosa in lui cedette, si sciolse. Chiuse le palpebre esauste e accolse l'abbraccio come non aveva mai fatto prima di allora.
Shani aveva il profumo di casa, di qualcosa di familiare che era sicuro di poter riconoscere ovunque e di poter sempre ricordare, in ogni dove. E anche quell'avventatezza, la sua immaturità, la pericolosità di ciò che aveva intuito, tutti i segreti che gli avrebbe celato, gli erano cari. Avrebbe voluto confessarle i sensi di colpa, il rimorso, l'odio che aveva provato per se stesso quando aveva voltato loro le spalle. Avrebbe voluto dirle che non si era scordato di lei, che non l'avrebbe mai lasciata sola, che le era mancata.
Ma le parole non risalirono nemmeno in gola, rimasero incastrate da qualche parte nel petto vuoto, insignificanti e vanesie.
E così si limitò a ricambiare l'abbraccio. Solo quello sapeva fare.
«Che bel quadretto. Stomachevole. Ti torchierei a dovere, se ne avessi tempo e modo. Ma a quanto pare siamo in leggera difficoltà. Solomon è morto. Ed è solo colpa vostra.»
Shani interruppe l'abbraccio e si voltò a fissare in cagnesco Melchor.
Evangeline trasalì. «Cosa vuol dire che è morto?»
«Mentre voi eravate chissà dove a fare chissà ché, ci hanno attaccati.» Il capo villaggio aveva bisogno di un capro espiatorio. Non poteva tollerare che loro fossero sopravvissuti e il suo amico no.
«Bè, che dire Mel, l'idea di far esplodere l'accampamento non è stata poi così geniale. Condividerla ci avrebbe fatto piacere, comunque» sbottò Tomas, mentre accendeva una sigaretta di marijuana.
L'uomo lo incenerì. «Non discutere le decisioni degli adulti, ragazzino.»
L'anarchico gli rise in faccia. «Ma davvero? Se no che succede, testa di cazzo? Il vostro stupido piano ci ha quasi uccisi! Che colpa ne abbiamo noi se Solomon non ha fatto ritorno? Che colpa ne hanno loro se sono sopravvissuti alla cattura e lui no?!»
Melchor gli puntò la pistola alla fronte, Ulrik intervenne e si intromise tra i due. «Ora basta.»
«Tieni a bada i tuoi sottoposti, comandante, o quando faremo ritorno ne pagherai le conseguenze.»
Tomas fece per rispondere, ma Rik alzò la mano, gli ingiunse di tacere.
«Non so cosa sia successo, non so come abbiate fatto a sopravvivere, ma una cosa è certa e mi è ben chiara: al villaggio sistemeremo i conti» disse l'uomo, prima di prendere le distanze.
Tomas si inginocchiò sbuffando e passò la canna ad Adam: voleva aiutarlo a stemperare il dolore. Quello la accolse con un ghigno sprezzante. «Quando faremo ritorno» ripeté con quella cantilena inquietante che gli avevano sentito usare più e più volte.
Nessuno ci fece caso, anche Summer lo ignorò. Incrociò lo sguardo del pilota, gli chiese scusa. Lui forse capì, forse pronunciò un mesto assenso, forse si fece solo da parte.
"Quando torneremo al villaggio, mi prenderò cura di entrambi" si promise la ragazza. Pensò a Xavier e alla promessa che gli aveva fatto e infranto. Accarezzò con un dito la guancia gonfia dell'Umano. Provò un moto di tenerezza simile all'affetto. Si chiese se fosse poi così impossibile innamorarsi di lui. Era solo un bambino ferito, nutrito col dolore.
Come avevano potuto fargli del male?
Scoccò un bacio sulla sua fronte.
Adam sussultò.
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Il comandante costruì una barella con quattro aste in legno rinforzate da canotti di ferro. Ricavò la lettiera scucendo uno dei sacchi a pelo e per le tracolle che sarebbero servite a trasportarla usò le bretelle di uno zaino.
Melchor protestò, ma nessuno gli diede retta. Adam dormì tutto il giorno grazie ad alcune fiale di oppio che Evangeline aveva portato con sé nello zaino perso e poi recuperato dai ragazzi.
Summer non si allontanò nemmeno per un istante dal giaciglio del ragazzino. Gli tenne la mano tutto il tempo, si assicurò che la febbre non si alzasse e che la coperta fosse sempre ben rimboccata sotto il mento.
Kuran non si mostrò geloso, ma quando calò di nuovo la notte, la costrinse ad alzarsi per sgranchirsi le gambe, espletare i bisogni, darsi una rinfrescata e mangiare qualcosa. Lei ubbidì ma tornò in troppo poco tempo, pregando che in sua assenza lui non si fosse risvegliato.
«Adam, sono qui» sussurrò al suo ritorno.
Le rispose stringendole la mano due volte.
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«Siamo troppo vicini» continuava a ripetere il nuovo capo villaggio.
Così il giorno seguente si spostarono, testarono la barella, la trascinarono per alcuni chilometri immergendosi nella fitta e inospitale vegetazione di sempreverdi e decidue.
Avevano deciso di cambiare tragitto per il ritorno, di valicare le montagne. Erano più impervie, una scelta più rischiosa. Avevano la vana speranza che i superstiti dell'accampamento non avrebbero valutato questa loro decisione. Cercavano di cancellare le tracce del loro passaggio, di camuffare le orme meglio che potevano, di essere imprevedibili e veloci.
Evangeline si serviva del suo potere, gettava forti vibrazioni nell'aria, metteva in allerta la natura, la tormentava. Ma quella l'ignorava. Non era sua, quella battaglia. Gli animali non facevano la guerra, non si vendicavano, non conoscevano alcuna giustizia oltre quella iscritta nelle leggi della natura.
Questo però lei non poteva spiegarlo in modo semplice al resto della squadra.
Si era pentita del modo in cui aveva risposto a Ulrik. Da allora lui non le aveva più rivolto parola.
Erano tornati agli inizi, sempre allo stesso punto. E lei era stanca di girare intorno, stanca di quella recita infinita, stanca del suo orgoglio e della sua ostinazione.
Calò anche la seconda notte. Si addormentarono tutti molto presto, rannicchiati vicini alle braci spente. La luna non era ancora sorta, il cielo era blu, non nero.
Kuran teneva la guardia mentre la pilota dormiva mano nella mano col suo giovane compagno di spedizione. Lui li guardava senza vederli. Impossibile intuire cosa stesse pensando.
Ulrik si alzò dal suo giaciglio, gli rivolse un rapido cenno col capo e si inoltrò nel buio.
Eva decise su due piedi di seguirlo.
Quando si alzò, però, Kuran fece per imitarla preoccupato.
Lei portò un indice alle labbra e poi le mani in preghiera davanti al petto. Lo supplicò.
Il ragazzo spostò un paio di volte lo sguardo dal punto in cui il comandante era scomparso a lei. Cedette con un sospiro e le fece segno di andare.
Il cuore vibrò e quel suono riecheggiò sulle querce nodose. I suoi sentimenti erano alla mercé di chiunque li potesse ascoltare. Le mani ghiacciate erano scosse da tremiti nervosi.
Non era sopravvissuta a tutto ciò senza un senso.
Era questo che si era ripetuta fino allo sfinimento.
Essere uscita viva da quell'incubo aveva un valore.
Sperò di non trovarlo in situazioni imbarazzanti. Per una volta erano soli, senza nessuno che origliasse o li guardasse male. Non avrebbe ceduto nemmeno di fronte all'imbarazzo, non temeva nemmeno il rischio di fare una pessima figura.
La visione che le si palesò davanti, però, era peggio di quanto si aspettasse.
La radura si diradava e lasciava spazio a quello che doveva essere stato un vecchio pozzo in pietra dalla forma circolare, infestato da muschio e licheni.
Ulrik se ne stava seduto su un bordo, i gomiti appoggiati sulle ginocchia divaricate, la testa tra le mani.
Evangeline deglutì a fatica. Tentennò.
La loro relazione era sempre stata tutta sbagliata, caratterizzata da incomunicabilità e repentini allontanamenti, non-detti e paure.
Quel passo avanti avrebbe significato qualcosa, un cambiamento. Una maturazione, almeno da parte sua.
Si costrinse a farlo, si costrinse a far rumore.
Rik levò subito lo sguardo. Espresse prima stupore e poi inquietudine.
Non disse nulla, aspettò che fosse lei a parlare.
Eva indossava ancora quel ridicolo vestito. Non aveva avuto il tempo per lavarsi e cambiarsi. Manteneva quegli indumenti affinché le ricordassero chi fosse, cosa avesse affrontato, il punto di non ritorno a cui era arrivata. Ma lesse nello sguardo dell'uomo che le stava di fronte l'odio che provava nel vederla ancora conciata in quel modo, nel sapere cosa si nascondesse dietro, cosa lei non gli avrebbe mai rivelato.
«Dobbiamo parlare.»
Lui annuì subito, concorde. Drizzò la schiena. Era pronto.
Evangeline cercò dentro di sé le parole giuste. Non ne trovò nessuna.
Così fu Ulrik a iniziare. «Sì, hai ragione. Dobbiamo parlare. Avremmo dovuto farlo prima, mi dispiace. E so che le mie scuse non valgono nulla, non basteranno a superare ciò che ho fatto, devi credermi, ne sono assolutamente consapevole. Non mi era mai successo, non mi sono mai odiato tanto in vita mia.»
Non reggeva il suo sguardo, parlava rivolto alla punta consunta degli scarponcini, ancora piegato sulle ginocchia.
«Rik... tu mi hai...»
«Non dirlo! Né io né te abbiamo bisogno di raccontarci bugie.» Finalmente alzò gli occhi. «Lo sai perché l'ho fatto. Vuoi sentirtelo dire ad alta voce? Vuoi che te lo ripeta ancora una volta?»
Invece che arrossire, Eva impallidì.
«Lo farò, se fa parte della mia punizione. L'avrei fatto anche davanti agli altri, non meritavo di essere difeso, avrei dovuto pagare. L'ho fatto per te, perché ti avevo affidata a lui, mi ero fidato di lui, e quando sono tornato, ti stava mettendo le mani addosso, ti stava facendo del male! E tu non ti difendevi! Lo lasciavi fare. Avrebbe dovuto insegnarti Adam come respingere un'aggressione. Durante l'allenamento tu l'hai fatto, mi hai respinto. Ho pensato e ripensato a ciò che è accaduto, mi sono arrovellato e tormentato ora dopo ora e non ho trovato alcuna risposta plausibile. Alla fine sono arrivato all'unica conclusione possibile. Che tu lo volevi, non è così?»
Evangeline scosse la testa con veemenza.
Alcune ciocche bionde ancora imbrigliate nella treccia si ribellarono.
«Lo potrei accettare, sai? Ti lascerei andare. Tu non mi appartieni e non ho alcun diritto nei tuoi confronti. Mi basterebbe saperti al sicuro.»
Lei fece un passo avanti, col cuore infranto.
«Eva» continuò il comandante. «Così non può continuare. Devi scegliere. Dimmi cosa vuoi che faccia e io ubbidirò senza fiatare. So rispettare gli ordini. Proprio come un automa.»
Non ce la fece più a resistere, cadde in ginocchio tra le sue gambe, gli afferrò una mano e la trattenne anche quando lui provò a liberarla.
«Non c'è mai stata nessuna scelta da fare, non ho mai avuto alcuna indecisione. Lo sa Dima, lo so io e lo sai anche tu.»
Rik negò con la testa e lei allora si sporse in avanti, e quell'intimità improvvisa, dopo tutti quei mesi, lo destabilizzò.
«Ci sei sempre stato solo tu. Questo l'ha fatto incazzare! Adam non mi ama, mi vuole. Ma io non sono qualcosa che si può possedere, non mi può avere. Sono sempre stata chiara sul fatto che il mio cuore appartenesse a qualcun altro, gliel'ho ripetuto più volte.»
Non aveva mai osato tanto, non si era mai esposta in quel modo. Quel sentimentalismo le bruciò la lingua e le narici, la costrinse a lacrimare. Non avrebbe sopportato un rifiuto, giunta a quel punto. Ma non avrebbe nemmeno sopportato altri silenzi, altra distanza, altre incomprensioni.
Gli prese il viso tra le mani. Era bollente contro i suoi palmi freddi e sudati.
Eppure il comandante era rigido e imperturbabile come un muro di cemento.
Appoggiò la fronte alla sua e chiuse gli occhi per trovare dentro di sé il coraggio di continuare.
«Non giustifico ciò che è successo, anche io ho avuto paura. Ma so che l'hai fatto per me, so che dev'essere stato spaventoso tornare e assistere a quella scena. E non mi puoi fare una colpa per non essermi difesa. Tu non sai cosa ho patito, non sai cosa mi hanno fatto, non sai cosa mi hanno costretta a fare, cosa avrei potuto fare. Ero in frantumi, non riuscivo a pensare. Tu eri tornato indietro e io... mi sono sentita morire.»
«Eva...» Una mano ruvida le carezzò la guancia. Lei approfittò di quella lieve apertura per avvicinarsi ancora. Si alzò e si sedette sul suo ginocchio, senza allontanare le mani dal suo viso, senza perdere quel contatto fisico che lui concedeva così di rado, che sembrava accettare solo con lei e che lei aveva dato troppo a lungo per scontato.
«Ti ho pensato, sai? Dima mi aveva insegnato una tecnica di meditazione, diceva che quando avvertivo troppo dolore, potevo rifugiarmi in un posto sicuro per non crollare. Eri tu. Sono rimasta con te tutto il tempo.»
Rik si lasciò sfuggire un gemito, avvolse un braccio attorno alla sua vita, come se la potesse proteggere, scaldare.
Evangeline lasciò scorrere i pollici sulla mascella ispida a causa della barba. Socchiuse le palpebre.
«Ho pensato a quando dormivamo insieme e ci svegliavamo a causa dei nostri incubi notturni. I tuoi erano più turbolenti, i miei invece svanivano in fretta. Mi bastava sentirti vicino e non provavo più paura, dimenticavo ogni cosa, non sapevo nemmeno dirti cosa avessi sognato.»
«Eva, mi stai facendo male» mormorò lui. Aveva la voce roca. Solo lei sapeva farlo piangere. L'ultima persona che c'era riuscita era morta.
«Anche tu mi hai fatto male, ce ne siamo fatti a vicenda. Lo sai che sono orgogliosa e testarda. Lo sai che mi hai umiliata, mi hai fatto credere che non fosse significato nulla, che fosse stata tutta una mia illusione.»
Rik non aveva più la forza di rispondere o implorare.
«C'eravamo tu e io. Noi due eravamo un posto sicuro, non doveva entrare nessun altro. Tu l'hai abbandonato, non io. Quindi ora non puoi avere dubbi, non puoi chiedermi di scegliere, perché non ho mai avuto facoltà di scelta! Se l'avessi avuta, non ti avrei lasciato andare e noi non saremmo qui, ora, a nasconderci e rinfacciarci assurdità.»
Si dimenticava troppo di sovente della sua maturità. Quando voleva, Evangeline dimostrava di essere già una donna. Per questo si sentì costretto a inghiottire le lacrime e parlare da uomo, nonostante il suo istinto fosse quello di crollare ai suoi piedi.
«Ho sbagliato, hai ragione. Sono stato un codardo, avrei potuto agire in mille altri modi, avrei potuto parlarne con te, ma ho avuto timore. Credevo davvero fosse la scelta migliore per entrambi, ma questo non mi giustifica in alcun modo.» Le afferrò i polsi con una mano, li allontanò dal suo viso, mentre con l'altra le carezzava la schiena. Aveva le ciglia bionde umide e scure. «Ho sbagliato a chiederti di scegliere. Lo vedi? Continuo imperterrito a sbagliare. Con te è tutto un continuo errore. Vorrei che qualcuno mi ordinasse cosa fare, vorrei che fossi tu a dirmelo, ma so che anche in quel caso sbaglierei qualcosa, qualcosa di grave, qualcosa che manderebbe tutto in malora. Io non posso essere il tuo posto sicuro. Vorrei, tu non sai quanto, ma non ci riesco...»
Evangeline avvertì una stilettata simile a quella che aveva ricevuto quando le avevano amputato il mignolo. Solo che adesso non aveva alcun ricordo in cui rifugiarsi.
«Non sei sicuro... di noi? Di me?»
«No, non ho detto questo. Sono sicuro di ciò che provo per te, ma sono anche sicuro che questo non ti faccia bene. Non sono l'uomo giusto. Non è solo una questione di età, Eva, non guardarmi in quel modo. Tu mi fai perdere il controllo. Ti ho spaventata, l'hai ammesso tu stessa. Hai idea di cosa voglia dire? Mi sento un mostro! A questo punto era meglio essere un automa. Tenerti al sicuro vuol dire tenerti lontana da me, dalla nostra relazione malsana, dalle nostre continue discussioni...»
«Non puoi essere serio...» Stava andando tutto molto peggio di quanto si aspettasse. Si rese conto che non era davvero pronta a un rifiuto. Si era gettata, sì, ma era sicura di venir afferrata prima di toccare il suolo.
«Ti prego, non piangere. Ascoltami. Ti ho chiesto di scegliere perché in alcuni momenti sono stato geloso. Quel mattino, dopo l'allenamento, avevo seguito Adam e lui mi aveva portato da te. Dimentica un momento ciò che è successo, io vi ho visti con i miei occhi: voi parlavate! E tanto! Noi non parlavamo mai. Lui si confidava con te e tu ti confidavi con lui. Gli hai parlato dei sentimenti per me, quando a me non hai mai detto nulla. Noi non affrontavamo certi argomenti. Pensavo fosse la nostra indole, ma con ogni probabilità era solo la mia. Ti adeguavi a me, ai miei silenzi e alla mia ritrosia.»
«Non capisco proprio dove tu voglia arrivare.»
«Ci sono già arrivato. Non possiamo stare insieme. Ci facciamo solo del male. Posso sopportare mille delle tue offese, non è questo a preoccuparmi. Io non posso sopportare di ferirti di nuovo, non posso sopportare di sbagliare e doverti chiedere scusa, vederti piangere e implorare il tuo perdono.»
«E allora non farlo.» Eva liberò le mani. Il suo tono tornò fermo e deciso. «Adesso mi stai facendo soffrire.»
«Lo faccio per te, perché...»
«Stronzate, Ulrik! Stronzate! Sei sempre tu che scegli per entrambi! È questo il tuo unico errore.»
«Perché tu giustifichi sempre i miei difetti. Ti ricordi cosa mi avevi detto? Che di me ti piacevano quegli aspetti che io provavo a nascondere, a camuffare, quelli di cui mi vergognavo. È una coincidenza che tu sia qui, ora, dopo che ho perso il controllo e rischiato di ammazzare un ragazzino di diciotto anni?»
Evangeline scosse la testa e sorrise per la stanchezza. «Che tu l'abbia fatto per difendermi non conta nulla, vero?»
«No, quello che ho fatto è imperdonabile. Non è stato salvarti, non solo. Mi sono lasciato prendere la mano...»
«Perché sei umano.»
Quell'affermazione lo gelò. La guardò confuso. Per i Titans quell'aggettivo aveva una sola accezione, e non era l'uso che ne stava facendo la ragazza.
«Era questo che intendevo quando ti ho confessato cosa mi piacesse di te.»
«Non esiste un essere nell'Universo meno Umano del sottoscritto.»
«Perché hai una valvola cardiaca al posto di un organo fatto di tessuti e sangue? O perché fatichi ad esprimere e comprendere le emozioni?»
Rik involontariamente si contrasse. Quella schiettezza fu brutale. Inarcò le sopracciglia e serrò le labbra. Nessuno gli aveva mai parlato dei suoi problemi, anche se erano palesi. Perché in Accademia tali non erano, anzi, lo rendevano uno studente migliore.
Eva non si lasciò scoraggiare da quell'immobilità, con una mano gli carezzò il collo, là dove la carotide pulsava, seppur in maniera lieve.
«Non voglio litigare, non ora. Sono stanca di giocare a questo gioco: inseguire e scappare, scappare e inseguire... non ha stancato anche te?» Non ottenne risposta. «Rik, ti prego... non ce la faccio. Se mi abbandoni anche stavolta io...»
«Non ti ho mai abbandonata, ci sono sempre stato, anche quando non mi vedevi, anche quando non mi parlavi, io c'ero. E l'unica volta che ho davvero creduto di averti persa, ho abbandonato la squadra per venirti a cercare, ho abbandonato tutti senza doverci pensare due volte.»
«Non è più una questione di esserci o non esserci. Io voglio te, voglio noi!»
«Il nostro noi non funziona.»
Le tornarono le lacrime agli occhi. «Per te forse. Per me era qualcosa per cui valeva la pena lottare!» Tentò invano di trattenersi, ma la diga si ruppe e crollò in un pianto incontrollabile.
Il comandante l'abbracciò, provò a scusarsi, a rassicurarla, mormorò frasi senza senso mentre la cullava, sempre più sconfitto, sempre più stremato.
Il cielo si riempì di galassie sfocate.
«Va bene, ascolta. Ne riparliamo al villaggio, okay? Kuran inizierà a preoccuparsi se non torniamo.» Le sollevò il mento con le dita «Guardami, Eva. Non è finita. Sono qua, non vado da nessuna parte. Non è un addio.»
Lei avrebbe voluto ribattere che non le bastava. Si trattenne a fatica.
Non si aspettava che la frattura tra di loro avesse raggiunto un tale livello di profondità, ma credeva ancora che valesse comunque la pena lottare.
«Dormi con me.»
«Cosa?» Ulrik si augurò di aver compreso male, forse a causa di tutte quelle pressioni che gli stavano frantumando il cervello.
«Dormi con me, ti prego. Solo questo ti chiedo.»
Lui abbassò lo sguardo sulla sua mano fasciata. Odiava quelle bende ancora troppo bianche, ciò che nascondevano al di sotto. Non osava immaginare.
«Ti hanno fatto del male?»
Non lo voleva davvero sapere e lei non voleva davvero dirglielo.
Perché parlarne non avrebbe risolto nulla, sarebbe stato solo rivangare altro dolore. Per questo loro due si erano aperti di rado a confessioni intime e personali, per questo quando erano stati insieme avevano parlato troppo poco. Perché il fatto stesso di stare insieme bastava, quel contatto era sufficiente ad entrambi. Erano un lenitivo che non aveva bisogno di spiegazioni, una medicina che agiva senza raccomandazioni.
Questo Eva lo sapeva, ma era troppo difficile farlo comprendere a Ulrik. Forse col tempo ci sarebbe arrivato anche lui. Per adesso tutte quelle insicurezze lo annebbiavano. Il suo era un desiderio egoista, ma almeno in parte sperava che senza parole avrebbe almeno potuto farglielo esperire. Funzionavano. In un modo diverso, tutto loro, incomprensibile e bizzarro, ma funzionavano. Insieme.
«Solo per stanotte, perché dormono già tutti» acconsentì infine.
Lei cercò di camuffare un sorriso vittorioso, lui lo vide e le diede un buffetto sulla guancia.
Quando tornarono, Kuran fece un gesto stizzoso spalancando entrambe le braccia: "alla buon'ora!"
Era incavolato nero, aveva passato mezz'ora a chiedersi cosa fare, mezz'ora in bilico tra l'andare a cercarli o restare.
Ulrik replicò con una scrollata di spalle indefessa. Evangeline invece gli sorrise. Un sorriso timido e puro, un sorriso felice, un sorriso che sfidava la notte nera. I denti bianchi brillarono nel buio.
Questo bastò a placare il pilota e la sua agitazione.
Rik avvicinò i due sacchi a pelo, li posizionò un po' distanti dagli altri. Aveva intenzione di dormire al suo fianco, senza sfiorarla. Ma quando si furono sdraiati, lei si appoggiò sul suo petto e vent'anni di addestramento non gli diedero le forze necessarie per respingerla. Passò un braccio dietro la sua testa e le cinse una spalla.
Anche a lui stava venendo sonno, e questo già di per sé era un miracolo. La stanchezza era un'amica sgradita avviluppata alla sua schiena. Il sonno era uno sconosciuto che veniva a trovarlo di rado.
«Cosa ti dicevo?» sussurrò così piano che Eva dubitò di averlo sentito per davvero. «In quel ricordo, quanto ti svegliavi dall'incubo, cosa ti dicevo?»
«È finito, adesso. È tutto finito. Sei al sicuro» rispose con lo stesso tono quasi impercettibile.
Era certa che lui ricordasse. Ed era certa che volesse sentirselo dire a sua volta.
Capitolo LUNGHISSIMO! Giuro, non ne ho mai pubblicato uno così lungo prima d'ora.
L'avrei potuto dividere in due, ma alla fine mi piaceva di più tenerlo unito.
Spero di essermi fatta perdonare per la mia assenza.
Non vedo l'ora di leggere i vostri commenti 😘
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