46. Perdita di controllo
Adam aveva un luccichio sinistro negli occhi.
Erano appostati dietro un ingresso laterale che Ulrik doveva aver individuato durante la sua oretta e mezzo di vagabondaggio top secret.
Il ragazzino stringeva la pistola con ambo le mani e aspettava il segnale.
Ulrik era più teso del solito, più rigido e impettito.
Si scambiarono un lungo sguardo eloquente, che forse veicolò qualcos'altro, oltre la smania e il terrore: una richiesta di fede, una speranza, un'ancora a cui aggrapparsi.
Adam senza volere fece un cenno d'assenso e l'altro serrò la mascella, comunicandogli che l'aveva colto.
Insieme diedero inizio all'inferno.
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Il comandante sfondò la porta con un calcio e si affacciò sparando, non sapendo ancora né a chi né dove.
La sala centrale al piano terra era sporca e degradante, come il resto dell'edificio. C'erano degli uomini seduti a un tavolo, stavano giocando a poker con carte antiche e logore con una lieve pellicola di plastica che le aveva mantenute perlomeno riconoscibili, due uomini appoggiati al davanzale di una finestra e una donna seduta su una cassapanca che si allacciava degli anfibi.
Non c'erano elementi decorativi, se non un muro sgretolato, muffa verde e bianca negli angoli e un odore stantio di fiati pesanti e sudore freddo.
Non se l'aspettavano.
Non li aspettavano.
Ma comunque si lanciarono all'attacco.
Adam si concentrò e prese di mira gli aggressori del compagno, mentre con un occhio si guardava le proprie spalle scoperte.
Ulrik invece faceva strada, senza tentennamenti, senza rallentare.
Quando il primo piano fu sconfitto, salirono le scale.
Lì fu più difficile affrontare l'ascesa. Gli Arcadiani sfruttavano a loro vantaggio la posizione predominante. Una serie di proiettili s'incastonò nel muro appena sopra alla testa piegata del comandante.
«Sta giù» gli sibilò. Come se ce ne fosse bisogno.
Era impossibile. Da ogni punto di vista. Comunque guardasse la situazione in cui si erano incagliati, non vedeva scampo.
Eppure Ulrik ricaricò la pistola e avanzò un gradino alla volta, facendosi scudo con il cadavere di uno degli uomini che aveva colpito e che era ruzzolato giù dalle scale.
«Ora arriva il difficile» lo avvertì. Come se non l'avesse capito.
Il secondo piano era ammobiliato, c'era una cucina e un salotto. Mobili ristrutturati in un ambiente insalubre e indecoroso.
I proiettili terminarono da ambo i fronti e qualcuno attentò un approccio più fisico, più brutale.
E da lì il comandante iniziò a dimostrare ciò che poteva fare.
Era veloce e scattoso. Sembrava non avvertire i colpi, il corpo massiccio appariva invulnerabile.
Negli allenamenti era più lento, spiegava e rispiegava le stesse mosse, ammoniva Shani quando non rispettava le regole, li sgridava se mostravano disattenzione o avventatezza.
Ma lì, in quel campo di battaglia improvvisato, mostrò di poter essere molto più di quanto avesse voluto ostentare.
Pericoloso, spietato, crudele.
Accolse in un abbraccio il primo aggressore e gli spezzò il collo. Tramortì il secondo con un calcio laterale e sferzò l'impugnatura della pistola contro la nuca del terzo.
Adam non aveva mantenuto il ritmo, aveva sprecato due colpi ed era stato atterrato.
Avvertì il brivido dell'adrenalina, quella smania che lo prendeva quando sentiva i sulfurei della morte nelle narici. Tirò una testata che gli fece perdere per qualche istante la vista, rotolò di fianco e sfondò il teschio dell'uomo con il primo oggetto che gli capitò sotto tiro: una sedia di metallo.
Qualcuno lo abbrancò da dietro e lui emise un verso animale, quello che producevano le bestie in cattività quando venivano rinchiuse per la prima volta in gabbia.
Di nuovo fu sbattuto a tappeto e di nuovo riuscì a rialzarsi.
La sagoma del comandante era un monito a non mollare. Anche lui stava combattendo con tre uomini, gli ultimi superstiti.
Adam era ricoperto di sangue, aveva una costola incrinata e non riusciva più ad aprire l'occhio sinistro.
Apparve un Antico nella sala. Zoppicava, aveva gambe storte e un ventre rientrante. Era senza la parte inferiore della mascella. Annusò l'aria con i due buchi che possedeva al posto del naso e all'Umano parve di scorgere un sorriso in quel volto sfigurato dai secoli.
Si avvicinò a lui senza fretta, mentre un altro uomo lo teneva a terra col proprio peso.
Il ragazzino si dimenò, provò e riprovò a sciogliere la presa. Ma l'Arcadiano era possente e continuava a colpirlo all'addome. Immaginò le sue interiora maciullarsi sotto quei pugni e rivide il macabro spettacolo che aveva procurato allo sconosciuto che l'aveva assalito nel "luogo sicuro".
La mano trovò da sola il coltello.
Il resto lo eseguì in uno stato di totale incoscienza.
Un attimo prima era una vittima inerme degli eventi. L'attimo dopo stava squartando l'uomo.
L'Antico intervenne troppo tardi, lo disarmò torcendogli il polso e lo afferrò per il collo. Lo sollevò dal pavimento e strinse la lunga mano nera e artigliata su quel collo esile, pallido, umano.
Il demone aveva un volto tronfio e fiero. Non voleva regalargli una morte rapida, si sentiva in vantaggio, nonostante le copiose perdite, si credeva invincibile, una divinità.
Avrebbero vinto loro perché non potevano morire. Avrebbero vinto loro perché quei due idioti avevano fatto irruzione armati solo della sconsideratezza tipica della gioventù. Avrebbero vinto loro perché due sciocchi ragazzini non potevano abbattere un essere che aveva già vissuto dieci vite e non aveva ancora trovato la pace.
Però l'Umano sorrise, con una dentatura perfetta macchiata di sangue vermiglio.
E questo sconvolse l'Antico.
Perché sorrideva mentre veniva soffocato? Perché non aveva ancora perso i sensi? Perché non provava orrore o paura?
«Lunga vita agli Antichi Dei.»
L'essere strinse più forte, con entrambe le mani, ma il ragazzino ebbe un moto convulso, piegò il capo di lato e coi suoi piccoli e ridicoli incisivi gli morse il polso. E morse così a fondo e con tale sdegno della propria condizione e di quello che stava patendo, che l'Antico d'istinto scostò l'arto. Lo liberò.
Un istinto umano, il suo.
Quel morso non gli avrebbe arrecato una ferita grave. Aveva perso nel corso delle decadi parti del corpo ben più importanti ed era comunque sopravvissuto.
Ma l'istinto è anche questo: una tendenza innata e ineluttabile.
Adam sfilò un secondo coltello e glielo conficcò al centro della fronte. Fece leva col gomito trattenendo la nuca con l'altra mano. Gli segò il volto a metà.
Si voltò e vide Ulrik ancora intento a combattere contro due uomini. Iniziava a essere stanco, i suoi movimenti erano appesantiti, era stato ferito e resisteva come meglio poteva.
Dima non ci pensò due volte.
Piegò il coltello nella mano e con uno schiocco lesto del polso lo lanciò in aria.
"Mi guarderai le spalle o sarai il primo a spararmi mentre sono di schiena?"
Vide la lama vorticare al rallentatore. Tirò un sospiro di sollievo.
Il pugnale girò su se stesso, dipinse un arco lungo la stanza, sfiorò l'orecchio di Ulrik e s'incastrò proprio al centro degli occhi dell'Arcadiano che gli stava per sferrare un colpo fatale.
Il comandante non si fermò a soppesare quanto accaduto. Approfittando della distrazione del secondo uomo, lo mise a tappeto.
Ci fu un lunghissimo minuto di silenzio. Si guardarono, mentre riprendevano fiato.
Ulrik si chiese se Adam fosse stato allenato in gran segreto come tiratore scelto o se lui fosse stato solo molto, molto fortunato.
Il sorriso dell'altro, macchiato di sangue e titanio, lo fece desistere dal pronunciare inutili questioni.
«Ultimo piano» disse prima di voltarsi.
Gli altri due erano troppo fatiscenti e quindi disabitati. Troppe travi che pendevano dal soffitto, una perdita fognaria che aveva reso due stanze inagibili.
Il giovane aveva scorto questi dettagli osservando l'edificio da ambo i lati. Tutte le finestre erano buie e serrate. Nessuno vi si affacciava.
Eppure il quinto piano appariva pieno di vita, c'era una luce accesa e da una finestrella che dava su un cortile esterno aveva intravisto una donna sporgersi sul davanzale a fumare.
Arrivarono trafelati, in uno stato alterato di razionalità, macchiati, corrosi e spaventati.
Adam urlò il suo nome quando la vide, ma ne uscì un suono indecifrabile, offuscato dal dolore.
Ulrik, nel frattempo, aveva ripreso a lottare.
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Per un attimo la vista di Eva la confuse.
Davanti a sé non aveva più un mostro dalla pelle scura e dal corpo sfigurato, ma un uomo sui trent'anni, di bell'aspetto, in giacca e cravatta, con una chioma folta e corvina e due occhi nocciola.
Il peso del dito sul grilletto aumentò, la scelta che stentava a compiere non prevedeva indecisioni.
C'era così vicina, sarebbe tutto finito molto presto...
Non aveva scampo. Aveva appena ucciso a sangue freddo una donna. Nel corpo e nell'anima sarebbe stata dannata.
Per questo la sagoma di Ulrik che buttava a terra l'Antico le apparve irreale e... crudele.
Una perfida allucinazione visiva. Un tradimento della sua mente perversa.
Perché non poteva essere, era troppo assurdo e improbabile!
Perché sarebbe bastato un secondo, un decimo di secondo e lei...
Cosa le stava suggerendo il cervello? Perché l'ingannava?
Nella stanza si scatenò il putiferio.
Spari, ossa rotte, gemiti strozzati.
Ma lei rimase ferma con la pistola in mano, sempre più tesa, sempre più cieca nella sua illusione.
«Eva.»
Le arrivò alle spalle una voce nota, maschile, rauca.
«Eva, posa la pistola. Che stai facendo?»
Aveva un tono allarmato.
Facile giudicare, venendo dall'esterno. La sua immaginazione la stava tradendo e lei non poteva mollare. Non ora. Non poteva essere vile, non poteva lasciarsi ingannare!
"Mai più".
Se l'era promesso.
«Eva, ti prego...»
Delle mani fredde le sfiorarono le spalle, lei rabbrividì e calcò il dito sul grilletto.
Uno sparo, uno solo. Doveva essere forte e decisa, doveva farlo.
Ciò che l'aspettava sarebbe stato molto peggio della morte.
Serrò le palpebre.
Niente allucinazioni a occhi chiusi.
Deglutì a fatica.
«Eva...»
Adam non osava sfilarle la pistola, perché il grilletto era piegato e bastava un movimento brusco a far partire il proiettile.
Mai si sarebbe aspettato una situazione simile.
Evangeline non appariva in pericolo. Non era legata o ammanettata. L'avevano anzi vestita secondo i dettami di una moda antica e le avevano lavato i capelli, che ora apparivano più luminosi che mai. Aveva un braccio era stato ingessato con garze sterili e immacolate.
«Che stai facendo, Eva?» Non riusciva a comprendere, non riusciva a interagire con lei.
Nella stanza risuonò un ultimo sparo. Ulrik aveva giustiziato l'Antico.
Il comandante era fradicio di sudore e deambulava male. Era piegato sul fianco in cui era stato ferito.
Si voltò verso di loro e le pupille s'allargarono fino a coprire l'iride.
Ebbe un lieve tentennamento, prima di avvicinarsi senza fare rumore.
Eva avvertì il suo profumo anche sotto tutti quegli strati di sporcizia.
L'avrebbe riconosciuto ovunque, anche nell'aldilà.
Le allucinazioni hanno un odore?
Una presa solida si avvolse attorno alla sua manina gelida.
Con delicatezza le spostò l'indice e le sfilò l'arma.
Il braccio ricadde inerme, come se avesse sostenuto un peso immenso per un tempo infinito.
Non voleva ancora riaprire gli occhi, perché il terrore della delusione era più cocente di quello di una morte imminente.
«Eva...» Adam aveva la voce spezzata.
«Non c'è tempo» li interruppe il comandante.
Afferrò il mento della ragazzina, lo costrinse a sollevarsi. Le palpebre si socchiusero quel tanto che bastava a intravedere il colore dei suoi occhi, quella tonalità di azzurro di cui si era tanto innamorata.
«Riesci a camminare?»
La domanda fu brusca, lapidaria. Lei non riuscì a rispondere.
Non si ricordava nemmeno il significato di quel verbo.
Non capiva ancora cosa fosse successo, aveva la sensazione di essersi ridestata da un dormiveglia turbolento.
«Dobbiamo andarcene.»
Senza troppe premure le afferrò il braccio sano e la trascinò verso le scale. Adam li seguì con il cuore in gola.
"Non possiamo sapere in che condizioni la troveremo. Non ci possiamo fermare, okay? Non ci dobbiamo distrarre."
Arrivarono al piano terra. Ulrik sfilò gli anfibi ancora slacciati dal cadavere della donna, mise seduta Evangeline sulla cassapanca contro il muro e, come se fosse una bambolina, glieli fece indossare senza calze e li allacciò ben stretti, all'altezza del polpaccio. Poi cercò la giacca migliore che ci fosse - ne intravide una militare appesa a una gruccia sul muro - e gliela infilò senza troppe cerimonie.
Il tutto sempre senza guardarla negli occhi.
Lei invece lo continuava a fissare, inebetita.
Lo lasciava fare perché ancora non riusciva a realizzare. Avvertiva una debolezza strana, uno stato di torpore da cui non poteva a ridestarsi.
Era davvero venuto a salvarla?
Le tornò in mente la prima volta che lui le aveva parlato. "Andrà tutto bene" le aveva detto mentre le allacciava la cintura del sedile sulla navicella spaziale.
Perché non glielo prometteva anche ora? Perché non la poteva rassicurare?
Uscirono in un cortile esterno, una distesa di cemento con due muri ai lati e una recinzione di fil di ferro che divideva la struttura dalla foresta incombente. Qualcuno aveva rotto uno dei nodi. Ulrik si avviò proprio in quel punto, allargò l'apertura in modo che riuscissero a passare.
Poi si fermò, si guardò indietro.
Adam ed Eva attendevano come due bambini, così vicini che il dorso delle loro mani si sfioravano. Lo sguardo perso, il colorito cereo, il sangue ghiacciato.
«Io torno dentro.»
Tutto si sarebbero aspettati, fuorché quello.
L'Umano ebbe un moto di rabbia, scattò in avanti, gli arpionò la giacca. «Dove cazzo vai? Avevi detto che dovevamo fare in fretta? Tra poco potrebbero accorrerne altri! Non è finita qua! Avranno sentito gli spari, verranno a...»
Ulrik lo scansò con uno spintone. «Ci metto un minuto. Recupero uno zaino e del titanio.»
«Titanio? Stai davvero pensando alla missione adesso?»
Dima avvertiva il dolore del tradimento: erano sopravvissuti per miracolo e quel gesto insensato gli pareva la pugnalata alla schiena di cui era stato accusato poco prima.
«Un minuto» ribadì Ulrik.
Evangeline mormorò un "ti prego" a bassissima voce, ma lui forse non la udì o non le prestò attenzione.
Lei si appoggiò al muro con le lacrime agli occhi, il cuore indolenzito e le vertigini, come se la terra sotto i piedi non la riuscisse a sostenere.
«Possiamo andarcene, io e te.» Dima era davanti a lei. Lo vide pulirsi la bocca con una manica ancora più lercia, sputare e pettinare i capelli mori lontano dalla fronte.
Provò ad aprire bocca, ma non uscì alcun suono.
Lui le si avvicinò, un po' troppo.
Appoggiò un braccio di lato e la ingabbiò contro il suo petto. Emise un sospiro, le fronti si toccarono. Aveva un aspetto orribile, il collo viola, un occhio gonfio, socchiuso. Eppure tutta quella violenza non era riuscita a strappargli quella bellezza sprezzante, fuori dal normale.
«Pensavo di averti persa» sussurrò, dopo quelle che le parvero ore.
Cercò le parole per ribattere, per ringraziarlo, per comunicargli che quella vicinanza la stava soffocando. Ma le uscì solo un gemito di stanchezza, chinò il viso di lato.
Lui le posizionò una mano sulla guancia. Puzzava di sangue e polvere da sparo.
Provò disagio, si scostò di nuovo, ma Adam la bloccò lì dov'era afferrandole il braccio ingessato.
Fu una fitta fulminea, così acuta e abbacinante che serrò gli occhi.
«Sei tutta la mia vita, Eva. Non l'hai ancora capito? Avrei fatto esplodere l'intero pianeta se avessi scoperto di averti perduta. Mi sarei fatto esplodere anche io, perché nulla avrebbe più avuto un senso, senza di te.»
Gli credeva. Sapeva che diceva la verità. Ma non era pronta. Non riusciva ad allontanarsi, a frenarlo, non aveva la forza per difendersi.
Riprovò a divincolarsi e lui la strinse ancora. Uscì dalle sue labbra il suo nome, "Dima", ma parve più una supplica che un ammonimento.
«Non puoi sfuggirmi. Io e te saremmo perfetti insieme. Lo sai che ho ragione, lo sai che ti amo, lo sai che per te farei qualunque cosa. Ho combattuto, ho ucciso, ho sfidato la morte. Per te, perché sei l'unica persona al mondo per cui valga la pena di lottare.»
«N-no...»
«Evangeline, guardami. Mi vedi? Sono venuto a salvarti. Ti ho trovata e non ti lascerò scappare. Ti appartengo... e non mi importa se tu non appartieni a me. Sono stanco di fingere, di trattenermi, di simulare indifferenza o un'amicizia che non c'è e non c'è mai stata. Io ti voglio. Io ti amo.»
Eva cercò di sfilarsi da sotto l'ascella, ma lui strinse la morsa attorno al suo braccio, possessivo e incurante del dolore che le arrecava.
La vista le si riempì di lampi di luce di un giallo acceso su uno sfondo nero. Prima che potesse trovare la forza per ribaltare la situazione, due labbra morbide si adagiarono sulle sue.
Adam sapeva di sangue e metallo. Il suo fisico slanciato e minuto era in realtà teso e forte come una lama affilata.
Digrignò i denti, con più forza provò ad allontanarlo e con più forza lui si oppose e senza volere le fece male. Un bacio struggente, un bacio d'amore, un bacio di una passione in grado di far sanguinare, piangere e morire.
La lingua di Adam premeva, insistente, ed Evangeline ebbe l'impressione di soffocare.
Avrebbe ceduto all'apnea, sarebbe svenuta piuttosto che piegarsi.
Ma non fu necessario.
Mentre un urlo le divampava in gola, nell'aria venne sferzato un colpo brutale.
Dima ruzzolò su un fianco e prima di comprendere cosa fosse accaduto, una raffica lo abbatté con una forza sovrumana costringendolo in una posizione supina.
Gli Arcadiani non l'avevano picchiato così forte.
Ulrik sì.
Gli si sedette sopra e cominciò a tempestare di pugni le zone che erano già state lese.
Adam non riuscì in nessun modo a difendersi o rallentare le percosse.
I capelli di Rik erano spettinati, ricadevano disordinatamente sugli occhi infuocati. Si era sempre chiesto che espressione avesse quando era arrabbiato. Alla luce di un cielo stellato, rimpianse la sua stupida curiosità.
Ricordò il combattimento che gli aveva indotto il coma. L'ultimo e indimenticabile.
Questo era peggio, molto peggio.
Perché la bestia non lo stava costringendo alla resa, sapeva come stordirlo pur mantenendolo cosciente, sapeva dove calcare senza perdere la sua attenzione.
«Basta!»
Evangeline ritrovò la voce, si buttò sopra il ragazzino, fece da scudo umano a quello che temeva fosse già un cadavere, col suo vestitino celeste, le cosce nude e lacrime amare che brillavano sulle guance scavate.
Tremava come una foglia ed era pallida come lo spicchio di luna sopra le loro nuche.
«Basta...»
Un pugno rimase qualche istante sospeso a mezz'aria.
Il comandante si riebbe dallo stato di trance con latenza. «Ho perso il controllo» ammise, più a se stesso che a loro due.
Rimasero per un attimo tutti e tre in silenzio, in quella ridicola posizione, succubi di un triangolo che li stava distruggendo.
Poi Adam iniziò a tossire sangue ed Evangeline a piangere tutte le lacrime che aveva trattenuto da quando era stata rapita.
"Homo homini lupus", l'aforisma trascritto da Luis nel suo bigliettino d'addio.
L'uomo è un lupo per l'uomo.
Quante verità in tre semplici parole.
«Dobbiamo andarcene.» Rik si rialzò stordito e tirò su con sé il ragazzino. Ma Adam non si reggeva in piedi, aveva tre vertebre rotte, il naso spezzato, un labbro spaccato e gli occhi viola.
Allora il comandante spostò sul davanti lo zaino, in cui aveva raccolto provviste per sé e per i compagni. Era stato ferito e avrebbe avuto bisogno di medicinali. Sapeva che anche gli altri avrebbero potuto essere nelle stesse condizioni. Il ritorno non sarebbe stato una passeggiata.
«Mi dispiace.» Caricò l'Umano sulle spalle come un peso morto. Un altro fardello, un'altra missione. La testa di lui si appoggiò sulla sua spalla, esausta. Continuava a tossire.
«Ce ne dobbiamo andare.»
Eva annuì tra i singhiozzi.
A fatica attraversò la fessura aperta tra i fili d'acciaio e poi si voltò per aiutare Ulrik a passare con le sue responsabilità.
Non l'aveva mai visto così sconvolto.
La maschera d'impassibilità si era crepata. C'era terrore nei lineamenti austeri, c'era rimpianto nello sguardo, pena nei movimenti che eseguiva per non recare dolore al giovane che giaceva quasi senza vita sulla sua schiena.
S'insinuarono nella foresta a passo svelto, senza prendere in considerazione alcuna direzione precisa.
Non avevano fatto nemmeno un centinaio di metri quando avvenne la prima esplosione.
Poi una seconda, una terza, una quarta.
Il vecchio appezzamento militare prese fuoco.
Si levarono alte grida, che si spensero, in una notte scura come il titanio quando scorre nelle vene.
Dima emise un verso rauco, una risata spezzata sul nascere dal dolore.
Esistono altri modi per far esplodere un edificio.
Evangeline incrociò gli occhi di Ulrik e ci vide solo tormento.
«Sono stato io.»
Il ragazzino sulle sue spalle ricominciò a tossire.
«Distruggere è il mio unico vero talento.»
La vera domanda è: cosa non succede in questo capitolo?!
Risponderò a tutti commenti, lo giuro. Nel frattempo vi leggo con piacere 🖤
È un periodo abbastanza dark, un po' come questo arco narrativo, ma senza l'azione (per fortuna, io sono più una tipa da yoga 🧘♀️)
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