38. Una missione suicida
Melchor aveva un uragano negli occhi, bagliori di tuoni, un turbinio di pensieri pericoloso e letale.
Si era svegliato all'alba. Li aveva destati colpendo con calci irrisori i sacchi a pelo.
Ulrik era rimasto muto e l'aveva lasciato fare, ma dentro di lui la quiete del mare era una pia illusione della tempesta che da un momento all'altro avrebbe potuto scatenare.
«Oggi è il gran giorno!» L'uomo era ebbro d'eccitazione. I ragazzi invece erano annichiliti, privi di entusiasmo.
L'ipotesi di disertare e tornare al villaggio premeva contro le loro schiene, era una promessa costante che un'alternativa c'era, c'era sempre stata... perché non se ne andavano? Perché non scappavano a gambe levate? Perché non tornavano indietro?
«Oggi scoprirete il nostro piano.» Melchor sorrise, il suo volto si sfigurò in un'espressione mostruosa.
Evangeline avvertì un conato d'ansia risalirle in gola. Si guardò intorno spaesata, le parevano tutti così immobili, così impeccabili nei loro ruoli. Solo lei era in preda al panico.
"La foresta non verrà in nostro aiuto."
Chiuse gli occhi per un istante, trasse un respiro profondo. Una mano calda le sfiorò la spalla. Sobbalzò. Era Adam. Lui si ritrasse subito, deluso dalla sua reazione.
Ma cosa si aspettava?
Eva però aveva bisogno di un contatto umano, aveva bisogno di un appiglio, aveva bisogno di un amico, di qualcuno a cui affidare la propria angoscia, di qualcuno che la comprendesse e la sostenesse prima che le emozioni avessero la meglio. E quindi gli prese la mano, la strinse decisa.
"Ti perdono" gli comunicò con lo sguardo.
Lui si commosse e fece un lieve cenno d'assenso.
Solomon aveva disegnato sul terreno una mappa con un bastoncino di legno. Kuran e Summer erano sbigottiti. Come si aspettavano che comprendessero da approssimati disegni tracciati nel fango una struttura complessa e vetusta come un ex-accampamento militare?
«Questo è l'ospedale.» Melchor indicò il padiglione più isolato, un lungo rettangolo a ridosso delle montagne. «Vi abbiamo già divisi in piccoli gruppi. Ulrik, Shani e Kuran si occuperanno di entrare nell'edificio, raggiungere il magazzino sotterraneo e trovare le scorte di titanio sigillate. Con un sistema a catena trasporterete gli zaini fino al punto di ritrovo, più o meno qui, a un chilometro di distanza.» Indicò il nulla, un buco polveroso vicino a un sasso. «Vi avviseremo quando ci arriveremo. Non faremo nessun segnale, non siamo così stupidi. Per la stessa ragione non possediamo né una carta geografica né una mappa. Nessuna X, nessun pezzo di stoffa, niente di niente. Dovrete memorizzare il luogo, i suoi percorsi e i suoi riferimenti topografici. D'altra parte... siete tutti addestrati a farlo, dico bene?» umiliò i giovani che pendevano dalle sue labbra. Nessuno rispose alle sue provocazioni, nessuno fiatò.
Riprese: «Tomas entrerà nella struttura, farà da guardia nel corridoio principale. Bea resterà all'ingresso lato ovest e Summer invece sorveglierà la struttura dall'esterno. Una catena. Tutto chiaro?»
L'ex-comandante emise un grugnito di disapprovazione.
«Adam ed Eva resteranno al punto di ritrovo. Se Madre Natura vorrà, ci daranno una mano in caso le cose possano mettersi male. Devono solo presenziare.» Fece un ghigno beffardo, ma si rifiutò di guardarli mentre parlava.
Evangeline digrignò i denti, indecisa se intervenire o meno.
Ulrik l'anticipò. «E voi?»
Melchor gli sorrise. Solomon chinò il capo e rispose. «Abbiamo. Un. Altra. Missione. Da. Compiere.»
Silenzio.
Rik si levò in piedi. Appariva più alto e più vecchio in quei giorni, come se il viaggio l'avesse cambiato. «Mi sembra un piano di merda.»
Shani emise un sibilo nervoso. Si aggrappò al braccio di Tomas, ma non per cercare conforto, voleva inconsciamente una conferma che lui fosse ancora lì, con lei, vivo. Perché se Ulrik arrivava a utilizzare un linguaggio scurrile e a offendere un suo superiore... non v'erano più certezze su cui fare affidamento.
«Non abbiamo chiesto la tua opinione, soldato» lo rimise al suo posto Melchor, avanzando incurante della differenza di stazza e muscolatura.
«Io ve la do lo stesso. È un piano di merda. Non manderò i miei uomini a morire senza sapere cosa ci aspetta.»
Melchor ammiccò. «I tuoi uomini, eh? O forse vuoi dire le tue donne? Tu cosa ti aspetti di trovare, soldato? Cosa hai capito? A quale conclusione sei arrivato?»
Non potevano tornare indietro.
Non potevano fallire.
Il villaggio aveva bisogno di titanio.
I superstiti avevano salvato la vita a Shani, Ulrik, Tomas e Kuran. Non potevano tirarsi indietro, tornare con la coda tra le gambe. Prima o poi ci sarebbe stato bisogno di cure e le scorte erano quasi terminate.
«Voi siete già stati in questa base.» Non era una domanda, ma Solomon rispose con un cenno d'assenso.
Evangeline stritolò la mano di Adam fino a fargli male. Lui resistette al dolore, anzi, gliene fu grato. Era l'unico modo che conosceva per frenare il vuoto.
«Tanto tempo fa. L'ospedale è abbandonato, è sicuro. Avrete mezz'ora di tempo, non un secondo di più. Agirete nel cuore della notte, mentre dormono.»
«Chi dorme.» Rik sembrava incapace di donare una sfumatura interrogativa alle frasi.
«Arcadiani, Antichi... demoni.»
Era l'ora della verità e nessuno era pronto. L'avevano sempre saputo eppure... avevano sperato.
Come dei bambini.
«Perché ci state mandando in questo posto.»
Un lampò baluginò negli occhi neri dell'uomo teschioso. «Perché è la nostra ultima possibilità. Io so che là sotto ci sono scorte che potrebbero durare per cinque anni. Cinque anni! So che è disabitato, non vi accedono mai. Loro hanno abbastanza rifornimenti nella zona centrale, non hanno bisogno di avvicinarsi alla foresta, avvertono il pericolo della natura, per loro è meglio non rischiare.»
«Parli come se li conoscessi.»
Melchor si avvicinò a un palmo di distanza dal petto di Ulrik. Era lì dove gli arrivava. «Li conosco, soldato. Li conosco molto bene. Studio questo piano da anni! Ma nessuno riusciva ad arrivare vivo a destinazione. Io e Solomon creeremo un diversivo, li terremo occupati mentre voialtri farete razzia di titanio. Gli Umani placheranno la foresta, ci permetteranno di agire senza preoccuparci di un intervento esterno, di una pugnalata alla schiena. È facile ed efficace. Ed è anche la nostra unica possibilità. Le città sono inaccessibili, ci abbiamo già provato. Sia quelle piccole sia quelle grandi sono abitate. Oh, Rik, non guardarmi con quegli occhioni d'agnellino: loro sono molti di più di quanto tu immagini. Loro sono i veri padroni di questo nuovo mondo. Non l'avevi ancora capito?»
Una lacrima colò sulla guancia di Evangeline. La verità bruciava come carbone ardente sotto le piante dei piedi.
Ulrik non aveva uno sguardo docile. Era puro ghiaccio, gelido e inespressivo.
Rifletté con cura sulle parole da pronunciare, su che termini utilizzare. Voleva essere chiaro e conciso.
«Riporterò la mia squadra al villaggio» si pronunciò infine.
Melchor sorrise, perché sapeva che si riferiva al dopo, sapeva che stava implicitamente sottintendendo che lui e Solomon non facevano parte della sua squadra, sapeva che aveva acconsentito, che avrebbero ubbidito, che avrebbero eseguito il suo piano.
«Ma certo, soldato! Fa il tuo lavoro e torneremo tutti senza un graffio.»
Non ci credeva nessuno.
Qualcuno emise una risatina nervosa.
Rik rilassò le spalle, si rivolse a Solomon, lo guardò dritto negli occhi. «Spero che tu sappia quello che stai facendo.»
Lui non rispose.
❈
Hans era seduto sull'erba a gambe incrociate. Si sentiva ridicolo. Ricordava di aver letto su un vecchio manuale di yoga reperito sull'arca che quella posizione veniva spesso praticata dagli Antichi. Possedeva anche un nome, "sukhasana", un termine sanscrito composto da sukha, che significava "facile", e asana, che significava appunto "posizione". In effetti Jenny aveva un aspetto rilassato, il volto disteso baciato dai radi raggi di un sole invernale, i piedini nudi sporchi di terriccio, le manine adagiate sulle ginocchia, con i minuscoli palmi rivolti verso l'alto.
Sembrava a casa.
Il professore trattenne l'inquietudine, resistette, si fece forza.
Il cuore batteva ancora per l'incoraggiamento che gli aveva dato Xavier, qualche giorno prima. Un abbraccio, era stato solo un misero abbraccio, un attimo di debolezza, un contatto effimero attraverso diversi strati di tessuto. Eppure bastò il ricordo a farlo arrossire.
Si riposizionò gli occhiali, sorrise.
«I narcisi dicono che il tuo amore è ricambiato.»
Sobbalzò e avvampò, spalancò la bocca ma rimase afono.
«Ma sono le margherite le vere esperte in materia. Se aspetterai questa primavera, glielo chiederò per te.»
Doveva essere un regalo che gli offriva senza alcuna condizione.
Eppure gli mise i brividi.
«G-grazie» tentennò imbarazzato. Stava ricevendo consigli di cuore da una bambina di sette anni. Quanto era messo male?
«Professore... credi che a volte i fiori sbaglino?» Jenny gli rivolse i suoi occhioni incantanti.
Lui era senza parole, non seppe risponderle. Era lì per quello, per parlare, per studiarla. Ma c'era un magnetismo inspiegabile in lei, un potere tangibile che Eva non possedeva, che la rendeva strana, diversa, anormale. «Eva dice di sì, ma io sono sicura che lo faccia perché ha paura. Ho visto il suo futuro, sai? Lei però non l'ha voluto conoscere.»
Hans si mantenne muto. Aspettò.
«Lo so che anche io faccio paura, i miei compagni me lo dicono sempre. Tutti tranne Jace, ovvio. Jace sarà mio marito un giorno. Avremo due bambini, entrambi Umani.»
Il professore deglutì a fatica.
«Non ho ancora scelto i nomi. C'è tempo» precisò, come se fosse stato quello ad angosciarlo.
Si fece coraggio. «Stanno bene... adesso?»
Jenny annuì. «La foresta li tiene al riparo, ma non interverrà. Evangeline lo sa. Ha scelto di andare avanti, di non abbandonare la missione.»
«Cosa significa che non interverrà?»
«Che non accorrerà in suo aiuto.» Lo fissò come se temesse che fosse uno sciocco.
«Perché avranno bisogno di aiuto?» Era una domanda retorica. Jenny non rispose, lo squadrò male. Hans si ravvide. «Ti ricordi quello che mi hai detto l'altro giorno, riguardo il fatto che io sarò il vostro salvatore?»
La bimba fece cenno di sì con entusiasmo.
«Sei sicura che si riferisse alla loro missione? E se invece parlassero del villaggio? »
Jenny si sorprese, sgranò gli occhioni. «Tu mi credi?» domandò infine.
Ad Hans gli si strinse il cuore. «Certo che ti credo!» esclamò con forza. E mentre si pronunciava comprendeva che sì, era vero, le credeva sul serio. Non aveva creduto a Eva, ma ora credeva a Jenny. Era un controsenso o un indice di maturazione spirituale? Hans aveva da tempo accantonato le mille ipotesi razionalizzanti per affidarsi a ciò che non possedeva un nome, a ciò che era scevro di logicità. Jenny era l'incarnazione di quei nuovi presupposti eppure... lui vi si affidava con anima e corpo. Perché quell'epiteto gli aveva donato qualcosa, uno scopo, una motivazione, un valore. Non poteva rinunciarvi, non poteva deludere la natura.
Jenny distolse lo sguardo, fissò oltre la barriera. «Glielo posso chiedere, se vuoi.»
Lui l'incoraggiò. «Sarebbe di grande aiuto! Dobbiamo essere pronti, stare in allerta.»
La bambina acconsentì. L'aveva un po' spaventata. Finché le sue rimanevano farneticazioni a cui nessuno prestava attenzione, anche lei si perdeva nelle sue stesse profezie. Ora che aveva trovato qualcuno che le credeva... titubava.
«Mi manca Eva» rivelò.
Hans annuì. «Manca tantissimo anche a me.»
«Lei tornerà, vero?»
Un nodo gli serrò la gola, non riuscì a rassicurarla.
«Perché la foresta mi ha detto che non faranno tutti ritorno.»
❈
L'ex-accampamento militare era stato fagocitato dalla vegetazione. Tutto, tranne l'area centrale, lo spiazzo ottagonale in cemento armato e i prefabbricati che ergevano intorno. Dall'alto sembrava una piccola fortezza: mura lisce, squadrate, prive di qualsivoglia tentativo di renderle estetiche. Un eco-mostro abitato da demoni informi. Un luogo in cui la natura non poteva penetrare.
In cima alla collina, nascosti tra gli alberi, Melchor indicò ai ragazzi i vari punti nevralgici, le zone da non attraversare, quelle da cui tenersi a debita distanza.
L'ospedale era isolato, poco distante dal punto in cui si trovavano. Mura spesse, grigie, filo spinato tutto attorno. Piccoli edifici diroccati lo spalleggiavano da dietro. Melchor disse loro di ignorarlo. Come se avessero mai avuto desiderio di andare in perlustrazione, di esplorare.
«Quanti» chiese Ulrik, con quel tono che non prevedeva alcuna interrogativa, ma una richiesta a cui ottemperare.
«Troppi.» Melchor scosse il capo. Aveva assunto un atteggiamento insolito nelle ultime ore, più mansueto.
Levò lo sguardo sul comandante dell'arca K-030, lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, senza arroganza o disprezzo, senza rabbia, senza odio.
«Se vi dovessero vedere...» biascicò. Si interruppe. «... scappate.»
Camminarono altri dieci minuti, poi ad Adam e ad Evangeline fu ordinato di fermarsi: quello sarebbe stato il punto di ritrovo. A est si scorgevano picchi innevati, giganti solitari e disinteressati; a ovest si scorgeva la colata di cemento grigia tra le fitte fronde dei pini. Il terreno era cosparso di aghi secchi e pigne guaste. Nessun segno riconoscitivo.
Eva avvertì dapprima un senso di straniamento, poi una scossa che le provocò un conato. Deglutì il reflusso con le lacrime agli occhi, il panico le perforò il cuore.
Era stata al fianco destro di Dima fino a quel momento, ma in un lapsus di follia si sporse in avanti, raggiunse Ulrik.
L'orgoglio bruciava, fremeva, urlava, ma la paura era irragionevole e disperata, lo ignorava.
Le bastava solo un contatto, uno sguardo, una rassicurazione, almeno una parola.
E invece quando gli afferrò la mano, lui sobbalzò colto di sorpresa, si ritrasse subito a quel contatto.
La scrutò perplesso.
«Togli la sicura.»
Non afferrò il senso, rimase inerme a supplicare un chiarimento. Rik le indicò la pistola che era legata alla cintura. «Togli la sicura» ripeté. Nessun sorriso triste, nessuna espressione da cane bastonato, non c'era più nulla in quegli occhi di ghiaccio, nulla che le potesse dare speranza.
"Ti prego, abbracciami e dimmi che andrà tutto bene."
L'ex-comandante sbuffò. Le sfilò l'arma dalla fondina, rimosse il caricatore, controllò le munizioni e aprì il carrello nella parte superiore per inserire un colpo in canna.
«Tieni il dito fuori dalla guardia del grilletto: ora è carica.»
Adam imitò i suoi gesti, si preparò anche lui. Lo sguardo chino: non voleva incrociare quello di Summer lì vicino.
Evangeline avrebbe voluto protestare. Invece accolse l'arma in silenzio.
«È. Ora.» decretò Solomon.
Lui e Melchor avevano preso su i loro zaini. Erano ancora pieni, tutti gli altri invece erano stati svuotati per far spazio alle scorte di titanio da rubare.
Ulrik tralasciò quel dettaglio insieme a molti altri. Non era importante.
Appena i due capi si furono allontanati, fece un rapido cenno ai suoi.
«A dopo» li salutò Tomas. Un debole sorriso sghembo, un cenno con la mano.
Gli altri lo imitarono contro voglia. Lo stomaco aggrovigliato non permetteva loro di aprir bocca.
Evangeline tremò così forte che Adam le dovette afferrare una spalla. Lei si appoggiò al suo fianco sicura che le gambe da un momento all'altro avrebbero ceduto e sarebbe caduta a terra.
Appena scomparvero dalla loro visuale, rimosse il caricatore, il colpo in canna e rimise in sicurezza la pistola tra le lacrime.
«Eva...» mormorò Dima.
Lei singhiozzò e si abbandonò a un lungo abbraccio.
«Ho paura.» L'Umano la strinse a sé più forte. «Ho tanta paura, Dima.»
❈
Non ci fu bisogno di tagliare la rete contornata di filo spinato, erano già stati aperti diversi varchi da forze naturali o innaturali.
La pilota li avrebbe aspettati fuori, facendo da sentinella all'esterno della struttura.
"Come se potesse servire a qualcosa" rifletté Ulrik, ma non osò confidarlo ai compagni. Le avrebbe voluto dare un segno, una pacca sulla spalla, un sorriso, una frase d'incoraggiamento. Ma non gli venne in mente nulla.
Era la più calma. Negli occhi di Shani si scorgevano le fiamme dell'inferno, l'aggressività indomita pronta a esplodere se qualcuno avesse provato a fare a lei o a Tomas del male; il ladro di parabole era stanco e rassegnato; Bea era così pallida che la pelle aveva assunto un colorito innaturale; Kuran era quello messo peggio di tutti, come al solito.
E infatti non riuscì a trattenersi, un attimo prima di varcare l'uscio, tornò indietro, tornò da lei.
Le afferrò il gomito e la costrinse a voltarsi.
Pupille ed iridi si erano fuse insieme. C'erano due buchi neri sul suo viso, due buchi che risucchiavano a Summer ogni forza vitale.
«Ho commesso tanti errori imperdonabili nella vita. Ma uno di questi, il peggiore di tutti, ti ha portata da me, non è così? Summer, non è forse così?» pronunciò tutto d'un fiato.
Lei non riuscì a rispondergli. Sgranò gli occhi.
«Non sei qui grazie a me? Sei viva perché io ti avevo abbandonata, sei viva perché a me non hai mai rinunciato, sei viva perché hai sacrificato tutto pur di venire a cercarmi.» Kuran era sull'orlo del pianto, la voce rotta come qualcosa al suo interno, una frattura che non si poteva più rimarginare.
Lei sbiancò.
«Ti prego, voglio sentirmelo dire, Summer. Dimmelo, ti scongiuro.» Appoggiò la fronte contro la sua. Era freddo, era sempre così dannatamente freddo...
«S-sì...» confessò lei a fatica.
«Allora rimani viva. Fallo per me.» Le diede un bacio sulla nuca. «Fammi quest'ultimo favore.»
Qualcuno alle loro spalle si spazientì, si schiarì la gola.
Summer si affrettò a pronunciare un "anche tu" poco convinto, stentato.
Il gruppo si divise. Lei rimase fuori, di guardia.
Osservò le loro schiene varcare l'ingresso. Strinse tra le mani il fucile.
Quando si voltò, la foresta verde le sferzò un alito di vento contro il viso.
Lei non si spostò di un millimetro.
Angoscia ne abbiamo?
Tanta?
Bene così, l'obiettivo era questo.
Da qua in poi sarà una tragedia 👍
Vi ho voluto bene ❤️
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