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36. Kuran

«Tre settimane!» L'infermiera esplose in un tumulto di gioia immotivata. Le mostrò i risultati del beta hCG con un sorriso a trentadue denti. Gli occhi lucidi brillavano di speranze che Summer non riusciva a comprendere. Le consegnò una ricetta prestampata per una confezione di acido folico e una di titanio e iniziò a completare la sua cartellina a computer, tamburellando impaziente sulla tastiera.

Summer rimase seduta sul lettino almeno cinque minuti, lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sullo spazio infinito. La Terra era invisibile dalle arche, eppure non era così lontana. Sembrava che dopo che la loro razza era fuggita, avessero perso per sempre il diritto di rimirarla.

«Non so se lo voglio» mormorò.

L'infermiera trasalì. Le mani rimasero sospese a mezz'aria mentre un'espressione di orrore le gelava i lineamenti del viso. Durò giusto qualche istante, ma fu sufficiente a Summer per leggervi il giudizio.

«Puoi pensarci su fino al terzo mese. Il primo ministro ha emanato un decreto secondo il quale l'aborto è offerto dal servizio sanitario intra-arcadiale: non dovrai pagare nulla. La scelta è tua. Una volta presa, non si torna più indietro.» Le rivolse un'occhiata eloquente, poi tornò a girarsi verso lo schermo. Cancellò qualche riga, aggiunse altre parole, termini tecnici scevri di emotività.

Summer aveva freddo. Era ancora nuda dalla cintola in giù, semi-sdraiata su un lettino ricoperto da due spessi e asettici teli di cotone.

«Ne parlerò con il mio ragazzo» aggiunse. Sembrò quasi una giustificazione, le si formò un nodo nello stomaco, soffocò la vergogna trattenendo il fiato.

«Ah, ma allora c'è un padre!»

Iniziava a odiarla. Odiava i suoi capelli raccolti in una crocchia sotto la cuffietta, la mascherina bianca, il camice e la divisa.

Irene Spellman lesse sul cartellino.

Invece lei era solo Summer. Summer senza un cognome, Summer che aveva rinnegato l'istruzione ricevuta dall'Accademia, Summer che lavorava sottopagata in una scuola materna, Summer che non leggeva più un articolo di giornale da quando il suo miglior amico era stato ingiustamente incarcerato assumendosi tutta le responsabilità al posto loro.

«Sì, è un pilota.» Perché stava ancora parlando? Perché non si rivestiva e usciva?

Se lo chiese anche l'infermiera. Nel suo viso rotondo era possibile avvistare ogni pensiero, ogni emozione, ogni critica o dubbio come se scorressero dei sottotitoli in sovrimpressione.

«Ah» rispose. Una vocale strascicata solo per colmare l'imbarazzo.

«Ne parlerò con lui» ripeté Summer, più a se stessa che a chiunque altro.

Si rivestì veloce, raccolse giacca e borsetta dall'attaccapanni.

Poco prima che aprisse la porta che l'avrebbe condotta fuori dallo studio medico Irene la richiamò.

«Dovrete andare all'anagrafe.» Il sangue prese fuoco nelle vene, il viso avvampò. Ebbe un tremito nervoso, la mano scivolò lungo il manico della maniglia.

Si voltò piano verso l'infermiera.

Lo sguardo fiero, il petto ben aperto.

La squadrò senza più remore o vergogna.

«Loro mi hanno tolto il cognome, non è stata una mia decisione. Vivrò senza, come ho sempre vissuto, non ne ho bisogno per affermare chi sono. Io so cos'ho passato, so cosa mi hanno fatto. Tu invece? Hai idea di cosa significhi perdere tutto?»

Irene Spellman rimase sbigottita, sgranò gli occhioni azzurri, socchiuse le labbra.

«Quando non ti rimane niente per cui lottare, lotti per te stessa.»

No, non gliel'avrebbe detto.

Non l'avrebbe detto a nessuno.

Da lì a poco avrebbe scoperto che lui era stato arruolato, che l'aveva lasciata senza nessun discorso di commiato.

Non gliel'avrebbe mai detto. Non ne avrebbero mai parlato.





L'adolescenza fu un turbinio di bullismo selvaggio e spietato, compagne che le spingevano la testa nel gabinetto, che riempivano di assorbenti usati il suo zaino e il suo armadietto, che le macchiavano di inchiostro indelebile le lenzuola e i vestiti, che urinavano dentro il suo flacone di shampoo e la costringevano a lavarvisi i capelli.

Fu un crescendo di aggressività e perversione, non c'era più un limite, era uno sfogo.

Finì tutto nelle docce.

Quella fu l'ultima volta in cui fu brutalizzata.

La trovò un professore, nuda, sporca di sangue in mezzo alle gambe. Chiamò i medici, la fece ricoverare. Raccolse i nomi di inservienti e rappresentanti degli studenti per chieder loro se avessero visto qualcosa. Fu convocata in presidenza. Rimase in quello studio due ore, ma non fece mai alcun nome.

Si guadagnò il rispetto. Gli sgarbi che avvennero dopo quell'incidente furono scherzetti infantili a confronto, ragazzate, un sospiro di sollievo.

Ogni mattina, quando si alzava e si guardava allo specchio, forzava un bel sorriso. Aveva letto da qualche parte che sorridere faceva bene alla salute, aiutava a ridurre lo stress, tonificava la pelle, rendeva il sistema immunitario più forte, migliorava la qualità del sonno.

Sorridi, Summer. Sei ancora viva.

I suoi genitori erano morti quando aveva otto anni. Era stata adottata da lontani e odiosi parenti e poi reindirizzata per colpa delle insegnanti all'Accademia.

Sorridi, Summer. Sei ancora viva.

Quel fatidico mattino era stata sorpresa da un'insegnante a pranzare in bagno con una barretta proteica e una bevanda energizzante. L'aveva spedita in mensa con la minaccia di farle rapporto.

Sorridi, Summer. Sei ancora viva.

L'aula era enorme, stracolma di studenti chiassosi, tutti in divisa, con pranzi liofilizzati e borracce al seguito.

Si era guardata attorno, le viscere contorte dal timore, nemmeno un briciolo di fame.

E aveva visto lui, Kuran, che pranzava da solo con un libro aperto sulle ginocchia.

Sorridi, Summer.

Sorridigli.

Kuran era il ragazzo più popolare dell'Accademia. Non perché avesse qualche merito particolare, era solo di una bellezza anomala, con la sua pelle diafana, gli occhi neri e i capelli corvini faceva strage di cuori.

Non le aveva mai rivolto parola, nemmeno un saluto, forse non l'aveva mai nemmeno vista.

Kuran era così: gran parte del suo fascino derivava dall'alone di mistero da cui si lasciava avvolgere.

Era il più bravo della classe, voti eccellenti in tutte le materie. Sognava di diventare pilota, guidare una missione su un satellite, un pianeta, forse perfino sulla vecchia Terra. A Kuran non piacevano i pettegolezzi, chi chiacchierava durante le lezioni, le ragazzine sfacciate che lo invitavano a uscire, i ragazzi troppo esuberanti che gli domandavano se fosse omosessuale.

Kuran se ne stava per conto suo e non soffriva mai la solitudine, anzi: ogni volta che una persona gli si avvicinava, storceva il naso, palesava un misto tra disgusto e irrequietezza. Li disprezzava tutti, li guardava di sbieco. Era alto, fisico dinoccolato, ma forte e nerboruto. Nessuno osava prenderlo in giro, non era vittima di bullismo come lo era lei. Kuran con il suo sguardo di gelida indifferenza stemperava ogni goliardata, minacciava senza proferire verbo.

Summer avrebbe tanto voluto essere come lui... e invece sognava di possedere almeno un'amica, avere qualcuno con cui parlare, qualcuno da abbracciare, qualcuno che la toccasse senza farle del male.

Era chiedere troppo dall'Accademia?

Davvero da quando le avevano tolto il cognome non meritava più nemmeno quello?

Sorridi, Summer.

Come faceva Kuran a non aver bisogno di nessuno? Come faceva a bastare solo a se stesso?

Con tutte le ragazze che gli venivano dietro... come riusciva a non approfittarsene? Era scevro di pulsioni ormonali come gli altri compagni?

Lo vide poggiare il libro sul tavolo, bere un goccio d'acqua, sfogliare una pagina, evidenziare una riga.

La minestra davanti a lui era intonsa, il cucchiaino mezzo immerso.

Summer prese un profondo respiro, si fece avanti.

Lui non l'avrebbe cacciata.

Era sicura che si nascondesse il sole dietro tutte quelle tenebre. Era sicura che Kuran fosse come tutti gli altri, solo più introverso e riservato. Magari era timidezza la sua, non disinteresse. Sicuramente era anche lui un animale sociale, come diceva l'antico Aristotele, aveva bisogno di compagnia tanto quanto lei.

Sorridi, Summer.

Si sedette al suo tavolo armata solo di quello, del suo sorriso.

A volte le sembrava che non le fosse rimasto nient'altro.





Gli anni con Tomas furono diapositive sgranate su uno sfondo scuro.

Non che lui non le piacesse, ma non era abbastanza. Non era colpa della differenza di età, sebbene Tom fosse più giovane, era molto in gamba, sveglio e per certi versi anche maturo rispetto ai ragazzi della sua annata. C'era sintonia, affetto, stima reciproca, erano in intimità, la faceva ridere, il sesso era stupendo però... non era lui.

In quegli anni visse col terrore che Kuran si fidanzasse, che trovasse una compagna, di vederlo mano nella mano con un'altra. Il solo pensiero di un bacio le faceva venire la nausea.

Si diffusero varie dicerie. Lei le verificò di persona: erano tutte false. Non aveva nessuna.

Tomas sapeva, intuiva, non era uno stupido, ma aveva un briciolo di orgoglio maschile e non le recriminava nulla. Non stavano insieme ufficialmente, anche se era noto a tutta l'Accademia che si frequentassero. Era stato un comune accordo: erano solo amici, non sarebbero mai andati oltre.

Lui era troppo occupato con la sua missione personale, lei amava già un altro.

Amore, poi. Non lo conosceva nemmeno!

Lei era ossessionata da un altro, ne era malata.

Kuran non poteva più essere il suo primo uomo, ma sarebbe stato l'ultimo. O almeno questo sognava ogni sera prima di chiudere le palpebre e concedersi al sonno.

Non ne faceva parola a nessuno. Anche una volta inserita nel gruppo di Tomas aveva mantenuto una distanza di sicurezza. Parlava, scherzava, esprimeva le sue opinioni ad alta voce, era amica di tutti e nemica di nessuno, ma portava dentro cicatrici indelebili, un passato che nemmeno la dolce espressione di Tom era riuscita a far riemergere.

«Sun, ci devi almeno provare. Cosa ti hanno fatto? Cosa ti è successo?»

A Kuran l'avrebbe raccontato, o almeno così credeva. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche rivivere tutto daccapo.

Più i mesi passavano, più diveniva palese l'aspetto più insalubre di quella passione. Quando incrociava il suo sguardo, afferrava d'istinto la mano di Tomas, si fingeva ilare e solare, ignorava il pilota e tirava dritto, scostandosi i capelli biondi dietro un orecchio o attorcigliando un boccolo attorno a un dito.

Lui sì, ogni tanto la guardava, ma nient'altro. Nessun avvicinamento, nessun tentativo, nessun cenno di saluto.

Nulla.

Un giorno si stava recando in aula con due compagne, Meredith e Grace, entrambe studentesse d'ingegneria spaziale, quando una di loro fece una battuta maligna su Shani. Summer la conosceva solo di fama, non aveva mai parlato con lei. "La Mina Vagante", l'aveva sentita nominare. Non era del suo corso, si stava addestrando per divenire soldato, si allenava molto e non aveva amiche. Tanto bella quanto pericolosa, dicevano i ragazzi: pelle d'ebano, capelli riccissimi e labbra carnose che sembravano essere state create solo per essere baciate.

«Non sta con Ulrik! Lui si vede con un'altra, una certa Maisie, la conosci? È una squilibrata. No, Shani ha una cotta per Kuran! Non lo sapevi? Ormai lo sanno tutti! L'hanno scritto pure nei bagni!»

Grace sghignazzava mentre l'amica le chiedeva dettagli. Il bagno era quello degli studenti del primo anno, in fondo al corridoio di quella parte dell'Accademia dedicata ai militari.

Summer ebbe un blackout. Il momento era arrivato, avrebbe visto Kuran e Shani camminare insieme, belli, fieri e temibili nel loro essere completi, nel loro modo unico e speciale di non aver bisogno di nessuno.

«Tu l'hai mai vista?» le chiese Meredith.

Summer scosse il capo. Poi ci ripensò e annuì. «È una troia.»

Non fece in tempo ad analizzare cosa avesse detto, perché l'avesse fatto, da dove fosse uscita quella offesa terribile e ingiustificata, che una mano le afferrò una spalla e la costrinse a voltarsi.

Erano in mezzo ai corridoi affollati, l'ora di punta per chi frequentava le lezioni e non voleva tardare. Eppure tutto si fermò come in quegli incubi in cui la dimensione spazio-temporale si azzera e l'assurdità diviene sovrana.

Shani aveva la guerra negli occhi, l'espressione corrucciata di una bambina arrabbiata, il seno formoso di una donna, braccia muscolose e gambe toniche e snelle.

Si vide riflessa nelle sue iridi scure.

Squallida, ipocrita, infame.

Era sopravvissuta a loro per divenire come loro. Si era adeguata al branco: per farne parte aveva chinato il capo e accettato. Si confondeva bene, adesso, la vecchia se stessa l'aveva abbandonata in quel bagno umido, stesa sulle mattonelle gelide, rannicchiata in posizione fetale.

«Ripetimelo in faccia se hai coraggio.»

Meredith e Grace cercarono di intervenire, una delle due chiese aiuto, ma nessuno le raggiunse per soccorrerle, non c'era Tomas Murphy a difenderla, Summer era sola. Sola in tutto quel nero, sola davanti al riflesso della propria meschinità.

Non ubbidì a Shani, aspettò l'esplosione.

Fu uno schiaffo troppo violento, barcollò di lato, sbatté contro il muro.

Le urla fischiarono alle sue orecchie, ma lei non udì nulla, parlavano voci antiche che non sapeva interpretare.

Prima di svenire ricordò ogni cosa.

Quando riaprì le palpebre in infermeria, aveva già rimosso tutto.





Credeva nella causa di Tomas, ma non quanto lui.

Vedeva l'esagerazione, l'assenza di un piano specifico per il dopo. Soprattutto sapeva che erano solo ragazzini affamati che colmavano il senso di vuoto con uno scopo ancestrale: quello di sovvertire l'ordine precostituito e ricominciare daccapo.

Per questo Sun e Tom si allontanarono, proprio quando lei cominciava a domandarsi se non fosse quello l'amore vero. Le piaceva Murphy, gli voleva bene, lo stimava, non era l'ossessione morbosa che provava per Kuran, ma che ne sapeva lei di cosa volesse davvero dire amare?

Pianse quando scoprì il suo piano.

Pianse quando non riuscì a dissuaderlo dal fermarsi.

Pianse quando colta dalla disperazione si rivolse a Kuran, l'ultima persona sull'arca a cui avrebbe dovuto rivolgersi.

Tomas Murphy hackerò prima i documenti dell'Accademia e in seguito, qualche settimana più tardi, i sistemi informatici dell'arca. Divenne il ricercato numero uno ed elaborò un folle piano per compromettere le parabole satellitari.

Summer si rivolse allora a Ulrik, proprio l'uomo che aveva temuto avrebbe potuto far loro del male. Non sapeva più cosa fare, era disarmata e terrorizzata. Contrariamente a Kuran, Ulrik le chiuse subito la porta in faccia, giusto il tempo per rivestirsi e seguirla fuori dall'Accademia. Cercarono insieme il ragazzo in un orario inconsueto: era tutto chiuso, c'era il coprifuoco, solo i lavoratori notturni avevano il diritto di uscire.

Non trovarono nessuno.

«Torna nelle tue stanze» le ordinò Ulrik dopo aver ispezionato l'ultimo nascondiglio in cui aveva sperato di trovare il suo miglior amico, il ribelle che forse aveva amato.

Furono le uniche parole che gli sentì pronunciare.

Si poneva ancora una domanda: "se l'avessimo trovato, l'avrebbe consegnato alle autorità o sarebbe riuscito a farlo ragionare?"

Scoprì che Ulrik era divenuto il suo alibi per il giorno dell'attentato.

Non sapeva se il merito fosse stato del fatto che il giovane avesse testimoniato o se fossero stati sorpresi dalle telecamere di sicurezza.

I membri del gruppo l'accusarono di esserci andata a letto apposta. «Sapevi che così non ti avrebbero nemmeno chiamata in centrale, avevi le spalle coperte. Sei sempre stata una vile puttana.»

Mollò la squadra, non rivide più nessuno.

Presenziò in fondo all'aula al processo contro il Ladro di Parabole. Era solo un pro-forma e Tomas era così carino, sembrava un bambino. Quando la scorse da lontano le rivolse un sorrisino ironico, le mostrò le manette e le fece l'occhiolino.

Vent'anni in una cella d'isolamento.

Decise di abbandonare l'Accademia per ripicca. Una vendetta sciocca, l'unica che potesse eseguire. Lei era un investimento, capitale umano, sarebbe sempre stata agli occhi di tutti una senza cognome.

Non gliene fregava.

Per una volta sentiva di essere arrivata a una conclusione sensata, un punto di svolta in cui poteva riprendere in mano la sua vita.

Aveva solo vent'anni.


Invece fu Kuran a trovarla.

La vita è una giostra che fa giri contorti ma torna sempre sui propri passi. Sempre.

Dopo quel primo bacio, affannato e affamato, si erano frequentati per due settimane.

Il tempo che serviva a Summer per liberare la stanza all'Academia, trovare un lavoro e un monolocale in cui andare ad abitare.

Kuran l'aveva seguita come fosse normale, come se non dovesse chiederle nulla, fare dei progetti, parlarne insieme, valutare.

Lui studiava ma era maggiorenne, poteva prendere dimora fuori dalla scuola, nessuno gli avrebbe detto nulla. Era importante solo la performance, i voti, la puntualità, l'impegno e l'onore.

Kuran era un tipo strano, molto più strano di quanto si sarebbe aspettata.

Si lavava i denti per tre minuti esatti, non uno di più, non uno di meno. L'aveva cronometrato di nascosto: non sbagliava mai. Forse contava a mente lo scandire dei secondi.

Non aveva avuto il coraggio di chiederglielo.

Parlavano pochissimo, perché avevano pochissimo tempo da trascorrere insieme. Lui studiava e lei svolgeva due lavori per mantenere entrambi in quell'abitacolo esterno all'Accademia.

Summer insegnava in una scuola dalle otto e mezza alle sedici e mezza e la sera aiutava in cucina in un ristorante fino a mezzanotte.

Kuran frequentava le lezioni dalle nove alle diciotto, studiava fino alle tre e si svegliava verso le sette e mezza del mattino.

Facevano l'amore, lei gli preparava la colazione, lo ascoltava ripassare a bassa voce, gli dava un bacio sulla guancia e poi usciva per recarsi dai suoi bambini.

Una routine assodata che non le pesava.

Il weekend lo trascorreva vicino a lui. Non doveva disturbarlo, così fingeva di leggere un libro al suo fianco e lo sbirciava di nascosto. Era sempre pronta a rimboccare la tazza di caffè, preparargli uno spuntino. Pregava che lui le chiedesse d'uscire, anche solo per fare due passi in giro.

E lui ogni tanto lo faceva, non sempre, ma ogni tanto la portava anche fuori.

Kuran era un rebus senza soluzione. A letto era passionale, ma fuori dalle lenzuola era freddo come l'azoto liquido: bruciava.

Non rideva quasi mai. Lei ci provava in ogni modo, raccontava i pettegolezzi piccanti delle colleghe, aneddoti sui suoi alunni, faceva facce buffe e battute volgari. In rare occasioni l'aveva sentito ridere. Lo faceva scuotendo il capo, come se fosse qualcosa che non si dovesse fare, una perdita di tempo utile.

E Summer iniziò a sospettare che stesse con lei solo per il sesso e il caffè amaro che gli preparava con infinita dolcezza.

Litigarono. Kuran odiava litigare, odiava le scenate, odiava quando lei perdeva il controllo perché lui invece non lo perdeva mai. Ma più di tutto odiava vederla piangere.

Ogni volta che accadeva, usciva sbattendo la porta, la lasciava sola, tornava in Accademia.

E poi si ripresentava il giorno seguente come se nulla fosse, con la camicia sporca e stropicciata e i capelli unti appiccicati sulla fronte cerea.

Summer lo accoglieva a braccia aperte.

Viveva col terrore di non rivederlo mai più.

Sorridi, Summer. È tornato. Sei ancora viva.

«Come fai a essere così?» gli aveva chiesto il pomeriggio di un fine settimana qualunque. Erano nudi sul letto, aggrappati l'una all'altro a fissare il soffitto. Lei aveva dipinto le costellazioni così come si sarebbero dovute vedere dalla Terra, con inchiostro fosforescente e brillantini. Lui aveva osservato quell'opera d'arte con un mezzo sorriso: c'erano parecchi errori, era un lavoro impreciso.

«Così come?»

La ragazza aveva cercato un termine non offensivo, qualcosa che rendesse l'idea senza ferirlo.

«Invulnerabile.»

Kuran l'aveva perforata con i suoi occhi neri, occhi bui, occhi privi di speranza o disperazione.

«Chi ti dice che sia invulnerabile, Summer?» Le aveva asciugato una lacrima sulla guancia. Non si era accorta che stava piangendo. Lui sì, l'aveva notato.

Kuran non aveva un passato. Era orfano e da che avesse memoria aveva sempre vissuto all'Accademia.

Sognava di guidare una missione sul pianeta azzurro, ma quello non era un possibile argomento di conversazione. Ogni volta che Summer provava a obiettare che tutte le passate missioni erano state fallimentari, che era un suicidio, un viaggio di sola andata, lui si innervosiva, s'incupiva, smetteva di risponderle, apriva uno dei suoi libri e tornava a studiare.

Kuran studiava quando era arrabbiato, studiava quando era felice, studiava quando non sapeva cosa fare, studiava quando aveva troppe cose a cui pensare.

La conseguenza era che si credeva sempre un gradino sopra di lei, che non era laureata, che aveva mollato tutto, che non poteva capire. C'era un biasimo velato impossibile da ignorare. Il confronto era assente: Summer non poteva comprendere le ambizioni di Kuran perché non era al suo livello e per la stessa ragione era per lui uno sforzo vano provare a spiegarle, argomentare.

«Pilotare una navicella sulla Terra vuol dire non fare ritorno! È un massacro! »

«È un onore, un privilegio. Le arche non sopravvivranno in eterno. Noi faremo ritorno, è ancora il nostro pianeta, c'è ancora vita! I nostri figli nasceranno là.»

Summer era sobbalzata udendo quell'ultima parola. «Ma quale vita, Kuran? Non c'è più nulla! Nulla! È un inferno. Non è mai sopravvissuto nessuno. E anche se ci dovessimo riuscire, non sarà la nostra generazione a pagarne i profitti.»

«Sei ancora intrisa di propaganda insurrezionalista» aveva commentato quella volta sprezzante. Ed era stato il peggior insulto che le avesse mai rivolto.

Altro grande argomento tabù era Tomas Murphy. Lei non doveva osare nemmeno nominarlo, non poteva rivangare un ricordo gioioso, una vecchia battuta, uno di quei libri sottoposto a censura che lui le aveva fatto leggere o uno di quei film scabrosi che lui le aveva fatto vedere.

Quando Kuran si arrabbiava, se ne andava. Tornava il mattino seguente, sgualcito e sfatto come una nera rosa appassita.

E allora riprendevano il teatrino daccapo, come se nulla fosse. Lei col suo sorriso, lui col suo sguardo tenebroso.

Kuran odiava i cibi dolci, usava solo saponi e deodoranti dal profumo neutro, prima di mangiare separava i carboidrati dalle proteine con la forchetta, teneva un quadernino in cui collezionava citazioni. Summer amava leggerlo in sua assenza, era buffo. Kuran non leggeva raccolte di poesie o romanzi, né contemporanei né antichi. Quindi nel suo quadernino Summer trovava solo cenni di zoologia, riflessioni sulla teoria della relatività, proprietà fisiche dei buchi neri, principi della termodinamica, regole d'insiemistica e spiegazioni di epistemologia, in ordine sparso, con appunti ai bordi scritti a matita.

Kuran dormiva rannicchiato di lato e spesso la cercava nel sonno. Le stringeva la mano e borbottava parole confuse che assomigliavano a vaghe promesse che la ragazza non riusciva a decifrare.

Una sera era tornato a casa con un solitario, un anello vero, in oro bianco con un diamante rotondo, puro, appartenuto a un vecchio mondo. A Summer era venuto un infarto. Sapeva che lui dava qualche ripetizione all'Accademia. Fece due calcoli. Aveva speso tutto ciò che aveva guadagnato per comprarle quel regalo? Si era indebitato? Da tempo racimolava denaro? Non aveva mai pensato ad aiutarla con l'affitto? Non poteva iniziare a contribuire anche lui alle spese?.

«Cosa significa?» Non aveva osato indossarlo. Si era sentita più tradita che grata, il cuore infranto e la ragione ottusa.

Lui per fortuna non l'aveva guardata in volto, aveva tenuto lo sguardo chino, era rimasto ignaro delle sue emozioni. «Te l'avrei dovuto comprare tempo fa, ma non ne ho avuto modo.»

Era divenuta una reliquia, una specie di portafortuna. Lo teneva in uno scrigno sotto il letto. Lo apriva, lo sfiorava e poi lo riponeva nella sua scatolina.

Un giorno le sarebbe stato tutto chiaro. Un giorno si sarebbero capiti.

Ma fino a quel momento le sembrava di vivere con uno spettro, nutriva l'illusione di appropriarsi di qualcosa che non possedeva consistenza, che non apparteneva e non sarebbe mai appartenuto a quella dimensione.

«Kuran, tu mi ami davvero? Ne sei sicuro?» gli aveva chiesto un mattino prima di recarsi a lavoro. Non era una bizzarria, ma una domanda ricorrente, ossessiva, velata di un romanticismo tossico che avvelenava entrambi.

Per una volta lui non l'aveva rassicurata con disattenzione, aveva appoggiato i libri sul tavolo con la copertina chiusa. Le aveva fatto cenno di avvicinarsi e lei si era seduta sulle sue ginocchia.

Sarebbe arrivata in ritardo. Non le importava.

Stretti l'un all'altra, erano un groviglio di rovi secchi che non davano frutti, difese erette che erano solo di facciata.

«Ti ho amata dal giorno in cui sei venuta a sederti al mio tavolo. Sei stata la prima. Sei l'unica. Per questo sì, ne sono assolutamente sicuro.»





Dopo la partenza della quinta missione, Summer aveva sentito una vocina nella sua testa.

Aveva supposto fosse l'inizio della fine. Incinta di sei settimane, emotivamente a pezzi, tanto che era stata sospesa da lavoro e costretta a prendersi un periodo di congedo forzato, assumeva tanto di quel titanio che nessuna malattia mortale o immortale avrebbe mai potuto aggredirla.

Eppure sì, voleva sparire. Voleva cessare di esistere. Voleva che tutto finisse, nel modo più veloce e indolore possibile.

Non ricordava la voce di sua madre, non aveva mai avuto un'amica, anche se era benvoluta da tutte le colleghe di lavoro, la zia che l'aveva adottato era una sadica arpia, le insegnanti che aveva avuto erano sensibili come coltelli arroventati.

Eppure quella era una vocina femminile.

Lei era costretta a letto e la vocina sussurrava, la calmava, l'accarezzava con delicatezza, timida e soave.

Forse è un segno del destino.

Forse è la tua occasione di ricominciare.

Puoi cercare te stessa, liberarti dal bagaglio di traumi che ti porti appresso, realizzarti.

Puoi divenire madre o puoi abortire, puoi cercare un nuovo lavoro, un nuovo compagno, o puoi vivere sola, libera, indipendente.

Puoi essere tutto ciò che vuoi, Summer, tutto ciò che avresti voluto essere.

Puoi splendere come una vera estate.

Forse è un segnale.

È il tuo momento, ora.

Non le aveva dato retta.

Aveva mollato tutto e si era arruolata.





«Perché mi ami, Kuran? Perché hai scelto proprio me tra tutte le ragazze che avresti potuto avere?»

«Perché eri quella col sorriso migliore.»

«Non prendermi in giro, dimmi la verità.»

«Non ti sto prendendo in giro, sono sincero. Io ti sognavo. Tu non hai mai sognato me?»

Troppe volte, troppo spesso.

Avevano vissuto più nella dimensione onirica che in quella reale.

Come l'avrebbe mai potuto lasciar andare?

Kuran le aveva rubato il cuore, l'anima e il corpo.

E lei si sarebbe ripresa tutto quanto, lui compreso.

«Qualche volta...»

«Solo qualche volta?»

«Sempre, Kuran. Ogni notte.»

«Lo vedi allora? Perché avrei dovuto scegliere qualcun'altra?»


Sorridi, Summer.

Sei ancora viva.

Lo ritroverai.


Questo capitolo è speculare al capitolo "16. Summer" del primo volume. Essendo nata fin da subito come una trilogia, i temi del terzo riprendono molti del primo e del secondo, ma da nuovi punti di vista. Stavolta sono più maturi, anche più brutali. Infatti "Una Nuova Era" è l'unico che ha il bollino rosso (e ahimè non è per le scene di sesso...)

Kuran è ignaro del passato della sua fidanzata. Qua li vediamo insieme senza filtri o censure. Non era un rapporto idilliaco, avevano parecchi problemi.

Spesso mi dite che avreste voluto capire meglio Kuran, che rimane sempre nell'ombra, ha sbalzi passionali ma per lo più rimane freddo, distaccato, in silenzio. Questo è Kuran, lui è fatto così. Summer ha sacrificato la sua vita per capirlo... ma non si è sforzata di accettarlo così com'era.

In lei è rimasto l'incubo di non essere davvero amata, l'incubo di essere abbandonata.

Da qua la ferita insanabile quando ha scoperto del tradimento con Shani.

Non era più l'unica, lui aveva scelto un'altra.

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