34. Crolli
C'era odore di pioggia nell'aria, il fuoco durante la notte era stato spento dall'umidità palpabile, loro compagna dall'inizio del viaggio.
Evangeline oltrepassò il resto della squadra, si avvicinò spedita alla quercia, spalle dritte, braccia tese lungo i fianchi, unghie smangiate conficcate nel palmo della mano.
Il giovane stava legando il suo zaino a quello di Melchor, procedura complessa che eseguiva con una destrezza impeccabile. Al termine dell'operazione sembrava un unico bagaglio, enorme, impossibile da sollevare per chiunque altro. Quello era l'anticipo della punizione che avrebbe subito per averlo sfidato. Ma in realtà anche Melchor cominciava a rendersi conto che così facendo umiliava solo se stesso, perché Ulrik non faceva una piega, ubbidiva come se avesse a che fare con un bambino capriccioso che non voleva camminare, non con un'autorità da rispettare.
Quando alzò gli occhi azzurri, la fissò con un barlume di sorpresa. Nulla di più.
Ne rimase così delusa che la sua espressione si accigliò oltremisura.
Bea fece per avvicinarsi. L'Umana la fulminò con lo sguardo. Quella retrocedette con la coda tra le gambe e si voltò dall'altra parte, li lasciò soli.
«Non è come pensi.» Aveva sognato quel momento tutta la notte. L'aveva creato, rielaborato, studiato, bramato, temuto. Nella sua mente le cose da dirgli erano tante, troppe. Nessun discorso iniziava però in quel modo.
Sto diventando come lui. Preparo frasi fatte e le recito male.
Rik arcuò le sopracciglia bionde. Non sembrava arrabbiato o deluso, non aveva nemmeno la solita espressione da cane bastonato che lei tanto detestava. O che diceva a se stessa di detestare.
Non riusciva a decifrarlo e questo le faceva paura.
Era un po' sorpreso, come se si fosse messo a nevicare.
«Non c'è stato nulla» precisò allora.
Incrociò le braccia, alzò la guardia. Sollevò la punta del naso anche se lui era accovacciato a terra, seduto sui talloni. Per una volta non la sovrastava in altezza. Per una volta erano pari.
«Tranquilla, non ti preoccupare.»
Eva avrebbe preferito un insulto, anche uno molto volgare.
Si ritrovò senza fiato, con un cuore ingolfato che faticava a pulsare.
Rik abbozzò un mezzo sorriso, riprese quello che stava facendo. Si caricò le proprie responsabilità sulle spalle, agganciò le cinghie in vita, regolò la lunghezza degli spallini.
Solomon si avviò e aprì le fila. Lo seguirono tutti in religioso silenzio.
Lui fece per imitarli, ma Eva lo trattenne con uno strattone alla manica della giacca.
«Basta stronzate, io e te dobbiamo parlare!» Le uscì un ringhio, sentì il sangue affluire sul volto.
Se ne fregava di aver alzato la voce, di essersi resa ridicola. Ignorò le proprie guance che andavano a fuoco e le sue iridi azzurro terso.
«Non adesso, Eva. Ne riparleremo al villaggio.» Tono mesto, calmo, senza particolari inflessioni emotive.
Era stata la sua battuta un tempo. Tirò con ancor più forza il tessuto, imbestialita. «Non osare...»
Lui sciolse la presa con un gesto pacato ma deciso.
«Vorrei farlo, davvero, ma non è il momento giusto, ho altri pensieri. Siamo già sul filo del rasoio.» Fece un passo indietro, ristabilì la giusta distanza. Lei si accorse solo allora di aver invaso il suo spazio vitale. L'imbarazzo fu acuito dalla consapevolezza che lui esercitava sempre la stessa forza magnetica su di lei. Si attiravano e respingevano come calamite impazzite che cambiavano di giorno in giorno la loro polarità.
Rik distolse il contatto oculare. Si erano avviati tutti, sarebbero stati gli ultimi della fila.
Adam aveva rivolto loro uno sguardo ricolmo d'odio che era passato inosservato. Il mondo poteva bruciare alle loro spalle e non si sarebbero voltati a guardare.
«Non gli ho rotto la mano.»
Stavolta fu lei a rimanere stupita. Non si aspettava quella confessione. Era stata presente a quell'improvviso moto di ribellione, aveva sentito il...
«Ho accavallato due nervi» l'anticipò lui, come se le avesse letto nel pensiero. «Il rumore che avete udito erano le ossa, hanno schioccato.»
Eva si maledisse. Era ovvio. Ulrik non era violento, non in modo così dissennato. Aveva detto di non aver rotto la mano e lui non mentiva mai. Non l'aveva fatto. Ometteva, taceva, girava attorno alle scomode realtà, ma non pronunciava menzogne.
«Però il dolore era reale.»
Lei annuì. Ricordava l'urlo.
Una parte di sé era contenta che il ragazzo non avesse perso il senno, che non si fosse abbassato al livello di quell'uomo. L'altra avrebbe desiderato che fosse stato più spietato, senza freni e senza remore, perché Melchor lo meritava e lui lo sapeva, doveva saperlo.
«Cosa ti preoccupa?» gli domandò in un sussurro.
Rik aveva ripreso la marcia, rallentò per aspettarla.
«Ogni cosa. Mi preoccupa ogni cosa.»
La gravidanza di Shani, Tomas che non parlava da due giorni, Summer che perdeva il controllo per un nonnulla, Kuran che affogava nel suo cupo dolore, Adam sempre più cereo in viso...
E quella destinazione di cui non avevano mai sentito parlare. Solomon e Melchor avevano organizzato il viaggio, non avevano condiviso tragitto, distanza e pianificazione. Ulrik era sicuro che durante la spedizione avrebbero guardato assieme la cartina, studiato il territorio. Ma loro conoscevano la strada. Loro conoscevano ogni bivio, ogni albero, ogni torrente da attraversare. Loro sapevano dove andare.
Loro c'erano già stati.
Un brivido scosse l'ex-comandante. I suoi occhi non vedevano sassi, tronchi, rami o radici. I suoi occhi spaziavano tra alternative opinabili e un'unica certezza: non era un caso che avessero scelto loro. I membri più sacrificabili, i nuovi arrivati che davano solo problemi, che non rispettavano le leggi, che non si integravano, che facevano sceneggiate infantili e disturbavano una quiete guadagnata con anni di lacrime amare e sudore salmastro.
«Rik?»
«Ne riparliamo al villaggio, okay? Quando torniamo, te lo prometto.»
Perché sarebbero tornati tutti, vivi, sani e salvi. Non era solo una promessa, era un obbligo morale. Fosse stata anche la sua ultima missione, Ulrik avrebbe dimostrato a se stesso di essere un comandante eccezionale.
Non avrebbe abbandonato nessun membro della sua squadra.
Solomon e Melchor, per quanto lo riguardava, potevano anche crepare.
❈
Adam aveva un fastidioso tic nervoso, la palpebra vibrava a ogni respiro e ogni tanto l'occhio destro si annebbiava, come se una lente sgranata si sovrapponesse alla sclera.
Non stava bene, ma il dolore proveniva da luoghi così diversi e così distanti che era impossibile trovare un'origine comune, un male maggiore.
«E così sei corsa subito da lui. Cos'ha detto del marchio che ti ho lasciato?»
Eva l'ignorò e marciò a passo svelto.
Ulrik aveva già raggiunto le prime file, Dima invece l'aveva attesa, era rimasto indietro per lei, per il confronto decisivo.
Strizzò l'occhio, lei lo fissò stranita.
«Che hai?»
Non si era accorta delle occhiaie profonde. O almeno... il giorno prima non le aveva così marcate. Il volto dell'Umano era sfigurato da cerchi spessi e viola, così scuri che sembrava che del trucco di scena gli si fosse sbavato sul viso.
«Cosa ti ha detto? Ah, fammi indovinare: nulla! Non ti ha detto nulla!» Rise da solo, sguaiato, disperato. «Non ti ha detto nulla perché non gliene frega nulla, dolce sacerdotessa.»
Evangeline respirò a fondo, cercò di ignorare il colpo basso. Poteva gestire le sue provocazioni, sapeva che non corrispondeva alla verità. In parte era colpa sua, al villaggio avrebbe avuto mille occasioni per chiarire con Rik, ma non l'aveva fatto. Perché adesso ne sentisse l'impellenza non se lo sapeva spiegare. A volte era consapevole della sua immaturità, dell'indecisione, dell'orgoglio che l'attanagliava, che la rendeva effettivamente ancora "una bambina". Non sapeva come liberarsene, era colpa dell'età.
Ma lui le aveva parlato, e in un certo senso l'aveva rassicurata.
«Ti piace giocare al gatto col topo, eh? A volte cacci e a volte fuggi. Dovrei provarci anch'io. Ignorarti per alcuni giorni e poi vedere come mi vieni dietro con la bava alla bocca.»
Ulrik non mentiva mai. Adam mentiva sempre. Eppure nelle sue bugie c'era un fondo di verità, l'aspetto peggiore di solito, quello più crudele e brutale, quello che il comandante tentava sempre di addolcire o evitare, che piuttosto taceva invece che pronunciare.
I confronti erano inutili e lesivi, per se stessa e per loro due.
Guardò di nuovo Adam. Stava male.
«Si può sapere che ti prende?»
Avevano rallentato troppo, riusciva a vedere davanti a loro Summer che si voltava un passo sì e uno no per controllarli.
Un rapporto bizzarro.
Chissà cos'era successo nella foresta.
«Dimmi cosa ha lui che io non ho.»
Tutto.
Si era fermato davanti a lei, vene rosse si ramificavano nei suoi occhi, braccia tese lungo i fianchi, pugni vibranti.
«Ti amo» confessò una seconda volta.
Eva scosse la testa. «Ti prego non iniziare! Cavolo, non siamo qui per questo, siamo in missione!» L'ipocrisia le lasciò un sapore acro sulle labbra, fece per oltrepassarlo, ma lui si impose col suo corpo più gracile del solito, glielo impedì.
«Dammi una possibilità, una sola. Ti prego, ti scongiuro!»
«Tu stai male...»
Uno strano senso di disagio le si annidò nel petto. Cercò oltre la schiena del ragazzo la chioma bionda di Summer. Lui vide che deviava lo sguardo e lo riportò su di sé, le intrappolò il mento tra l'indice e il pollice.
«Guardami. Ti amo, Eva. Ti amo. Posso essere tutto per te, potrei fare qualsiasi cosa...»
Invece che calore provò un brivido di gelo così intenso che la costrinse a rifiutare il contatto.
«Dima, ma che ti prende?»
Era troppo pallido, tremava, il viso era segnato dalle notti insonni, dalla stanchezza e dalla fame. Lui fece un passo avanti e lei quasi rischiò di cadere all'indietro per evitare un bacio.
«Smettila! Adesso basta, mi hai stancata! Sono stata fin troppo paziente.»
«Scusa, io...»
«No, scusa un cazzo. Stammi lontano!»
Lo schiaffo fu imprevisto e violento. Le girò la testa di lato e la costrinse a bocconi. La terra vibrò sotto i palmi delle mani, gli alberi risposero con un tonare profondo. Lei li acquietò, li costrinse a tacere.
Era così sconvolta che per alcuni secondi non osò alzare gli occhi sul ragazzo.
Sul suo amico.
«Cos'ho fatto...»
Crollò in ginocchio anche lui. La fece sobbalzare e gattonare all'indietro.
Non era necessario, fu però un riflesso istintivo. Lui non si avvicinò a lei, aveva lo sguardo vacuo, labbra esangui e un pallore insalubre che virava al verdognolo.
«Mi dispiace» mormorò prima di scoppiare a piangere. Lo ripeté mille volte, fino a quando la fase non divenne un unico lamento, unito a gemiti e singhiozzi. Non era più possibile distinguere le parole, non aveva più la possibilità di incrociare le pupille nere.
«Dima...»
La guancia bruciava, ma non quanto quella scena. Non quanto vederlo crollare su se stesso, non quanto vedere quanto profonde fossero le sue ferite, quanto profondo fosse l'abisso in cui era intrappolato. Sapeva di dover essere arrabbiata, molto arrabbiata. Sapeva che era inammissibile ciò che lui le aveva fatto.
Allungò la mano. La natura l'avvertì.
Non farlo.
Non comprese se la voce provenisse dal querceto o dagli arbusti, da qualche fungo al riparo tra le radici, o dai fili d'erba solo all'apparenza stecchiti. Jenny avrebbe saputo dirlo senza esitazione.
Non farlo.
Lei disubbidì. Sfiorò una mano con la punta delle dita.
All'iniziò non avvertì nulla.
Poi udì il vuoto.
Distolse l'arto, sgranò gli occhi.
Non avresti dovuto farlo.
Una figura corse nella loro direzione.
Era esile, lo zaino pesava più del suo corpo. Eppure fu rapida, si chinò verso Adam, l'avvolse tra le braccia magre, lo strinse al petto svuotato. Guardò Eva.
Non ci fu bisogno di spiegazioni.
Portava addosso i segni. L'impronta rossa di uno schiaffo.
«È stata tutta colpa mia!» Summer legò con più forza il corpo del ragazzino a sé. Lui si lasciò andare contro il suo petto, le mani che nascondevano il viso, il pianto sempre più irrefrenabile. «È stata tutta colpa mia, non sua, mia! Ti prego, non dire nulla a Ulrik. Lui non capirebbe, loro non capirebbero...»
L'Umano fece per scivolarle di lato. «Adam, ti prego, è tutto finito, ora. Non è successo niente, okay? Niente!»
Sembrava lo stesse cullando, invece lo stava solo contenendo.
Era già successo? Quante cose erano accadute in quei tre mesi in cui si erano rifugiati nelle grotte come topi? Quante cose non gli avevano raccontato?
«Vero, Eva? Ti prego, devi credermi. Sono stata io a dare inizio a tutto, io ho picchiato ieri, senza alcun motivo.»
Come se le azioni fossero consequenziali, come se da una dipendesse l'altra.
Evangeline scosse il capo. Non capiva nulla. Era senza parole.
Anzi no, forse una cosa la capiva.
Adam non sarebbe riuscito a rialzarsi.
Aveva sempre supposto di essere brava a gestire il dolore degli altri, aveva sempre descritto sé stessa come una persona sensibile ed empatica. Quando Jace si sbucciava un ginocchio a causa della sua imbranataggine, lei lo curava e lo consolava, quando i gemelli litigavano, lei mediava. Cullava il piccolo Olly e lui subito smetteva di piangere, ascoltava gli incubi notturni di Phil e Thorn e li rassicurava con poche frasi gentili.
Ma davanti a quel vuoto... non sapeva come reagire.
«Adam, ti prego. Non è successo niente. Dobbiamo tornare dagli altri. Alzati, dai.» Summer cercò di tirarlo in piedi, le chiese aiuto con un cenno del capo.
L'Umano si accovacciò a terra, in posizione fetale.
Era per quello che Xavier non voleva che venisse.
Era per quello che aveva osato tanto.
«Adam, dannazione, reagisci!» Lo strattonò. Mostrò di possedere una prestanza fisica che il suo stato di magrezza non dava a vedere.
Riuscì a tirarlo su afferrandolo sotto le ascelle, ma due secondi dopo Adam si chinò in avanti scosso da profondi conati.
Lo stomaco era vuoto, non aveva mangiato.
La pilota gli resse la fronte, lo sostenne, osservò turbata la bile acquosa secreta dal fegato.
«Che cos'ha?» sussurrò impietrita.
«Può essere l'effetto di un prolungato stato di stress» sciorinò Eva senza distogliere lo sguardo da Adam. Le tempie grondavano sudore freddo. Non era un buon segno.
«Non dirai niente, vero?»
Eva scosse la testa in segno di assenso.
Riuscirono a fargli fare pochi passi.
Superarono una zona scoscesa, un rapido pendio e dall'altra parte apparve il resto del gruppo, fermo, in attesa.
Eva sciolse i capelli, li portò su una spalla, lasciò che gran parte della chioma le piovesse sul viso. Avrebbe scommesso di aver scorto lo sguardo attento di Ulrik posizionarsi proprio sulla sua guancia.
Dannazione.
Adam crollò.
Il suo cuore si spezzò a metà.
«Che succede? Sta male?» Un coro indistinto, lo stesso quesito che rimbalzava di bocca in bocca.
Kuran fece per avvicinarsi, ma Summer lo respinse con un gesto secco.
«Mi pareva strano che non ci fossero problemi. In fin dei conti, sono passate solo quattro ore da quando vi siete svegliati.» Il tono becero di Melchor non scalfì nessuno.
Solomon si fece avanti. Un'implicita interrogativa.
Evangeline chinò il mento contro lo sterno, pregò la Natura e l'Universo.
«Si è sentito male. Credo che abbia preso un colpo di freddo, forse è un'influenza...» mentì la pilota in sua vece.
Kuran ignorò l'istinto iperprotettivo dell'ex-fidanzata nei confronti di quel ragazzino. S'inginocchiò e gli sfiorò la fronte.
Tremava. Era gelido.
«Non ha la febbre.»
«Sei un medico? Medicina antica? Wow, Kuran, complimenti! Ti sei laureato qui sulla Terra o avevi una vita segreta di cui non sapevo nulla?»
Il ragazzo la fissò inclemente, uno sguardo cupo e mortale. «Ti sembra il momento?»
«Sta male! Solo un cretino non riuscirebbe a capire. Ci dobbiamo fermare!» strillò lei, isterica.
Melchor scosse il capo. «Non se ne parla. Rimettiti in piedi, ragazzo, niente piagnistei. Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.»
«Quanto mi manca Hans.» Tomas sospirò. Diversi occhi convogliarono su di lui. Non parlava da due giorni. Era appoggiato a un tronco, teneva un bastoncino di liquirizia tra i denti, come fosse una sigaretta. «Era successo anche a Eva, nella scorsa missione. Il professore l'aveva curata. Lui è il migliore, saprebbe cosa fare.»
Summer serrò le labbra, non osò contraddirlo. Per lei esisteva un solo professore e lui davvero avrebbe saputo cosa fare.
Xavier era stato vago nelle consegne.
"Tienilo d'occhio."
"Fa in modo che non si metta nei guai."
"Controlla che dorma e mangi con regolarità."
"Non farlo avvicinare ai comandanti."
Ne aveva rispettato almeno uno?
Il senso di colpa l'attagliò.
E quasi a conferma della sua ansia, il pianto di Adam divenne palese, si lasciò completamente andare.
Summer diede le spalle al resto della squadra, ci chinò su di lui come una mamma, quasi potesse coprirlo, proteggerlo, con la sua sola esile presenza.
Un tempo c'era Merle. La ragazzina veniva da loro in punta di piedi, con quella grazia felina che la faceva assomigliare a una gattina. "Adam sta male" miagolava e Xavier subito accorreva. Restava con lui per tutta la notte, se necessario. Una volta li aveva spiati e aveva visto che l'uomo gli teneva la mano.
Provò a fare altrettanto, ghermì la mano del ragazzo, intrecciò le dita, la strinse forte.
La sua attenzione convogliò in maniera automatica alla fodera legata alla cintura.
Una vocina angelica le suggerì di non fare cazzate.
Un altro eco, meno percettibile e più crudele, mormorò due singole parole: se necessario...
«Questo è troppo! Di' a quell'idiota di smetterla di frignare. Ripartiamo subito. Avete inteso bene? SUBITO!» sputacchiò Melchor, con l'indice puntato contro la colonna vertebrale della giovane, che sporgeva come una cresta da sotto la giacca leggera.
«Non ce la fa...» mormorò Eva.
Chiese clemenza a Solomon. Lui rimane inamovibile.
«Ripartiamo.» ordinò. E l'Umana udì la speranza morirle nel cuore.
«Se non è febbre, potrebbe essere qualcosa di più grave» intervenne con coraggio, o imprudenza, Shani.
Melchor le si avventò contro, sfogò su di lei la sua ira. «La prossima volta che apri bocca per obiettare un mio comando, ti faccio mangiare merda fino alla fine del viaggio!»
Tomas s'interpose tra i due, con un cipiglio severo.
«Se non sta in piedi» imperversò la guerriera, per nulla turbata dalla minaccia, né bisognosa di qualcuno che la difendesse, «come diavolo facciamo a trascinarlo?»
Come Summer temeva, venne caricato un fucile.
Calò l'inverno, imponente e severo.
La pilota serrò le palpebre.
Iniziò a contare.
Uno, due, tre...
Quattordici, quindici...
Ventisette, ventotto, ventinove...
Si udì un tonfo sordo, rimbombò sotto gli scarponcini.
Poi un sospiro sommesso e qualcosa che strusciava contro un tronco ruvido.
Quando osarono guardare, trovarono Ulrik disteso contro una quercia. Si massaggiava il collo con noncuranza. Aveva abbandonato i due zaini al fianco destro e teneva le ginocchia piegate con un braccio disteso sopra.
«Cosa cazzo stai facendo?!» Melchor gli puntò il fucile.
L'ex-comandante non fece una piega.
«Sono troppo stanco. Non riesco più a camminare.»
Un nuovo silenzio.
Perfino Adam interruppe i singhiozzi, soffocò il respiro, contrasse i polmoni per non fiatare.
«Alzati o sparo.»
Rik era imponente anche da seduto rispetto a Melchor. Non era solo una questione di fisicità. Era l'apparente imperturbabilità.
«Spara, allora. Non riesco a muovere un solo muscolo. Sono a pezzi.»
Evangeline avvertì due lacrime gemelle cadere sulle guance.
La natura la chiamò. Lei rispose. Tese milioni di fili sottili, sarebbe bastato pizzicarli, come fossero corde di violino, per rilasciare un suono acuto dalle conseguenze imprevedibili.
Solomon però intervenne prima che si scatenasse una bufera.
L'uomo mise una mano sulla spalla di Melchor e con l'altra gli sottrasse l'arma
Sussurrò qualcosa all'orecchio.
Il tono metallico e forzato fu comunque ben udibile ai più: «Per. Questa. Volta.»
Il capo villaggio si avvicinò poi al giovane Umano, e tolto lo zaino, ne tirò fuori una fiaschetta di vetro sottile che conteneva un liquido bruno.
Summer l'accettò con un "grazie" dubbioso.
Non gliela fece bere, non si fidava.
❈
Un pomeriggio di congedo.
Un pomeriggio in cui non accadde nulla di particolare, in cui tutto si arrestò, tranne il tempo.
Il tempo continuò a scorrere, insolente e menefreghista come sempre.
Adam si addormentò, Summer gli rimboccò le coperte.
Kuran li osservò torvo dalla parte opposta del focolare acceso da Solomon, oltre le fiamme vive.
Tomas e Shani si avvicinarono senza spiegazioni. Lei si sedette tra le sue ginocchia, lui legò i polsi davanti al ventre di lei. Aveva sogni che non poteva confidarle, non era il momento opportuno. Il suo passato da terrorista sembrava appartenuto a una vita passata, una di quelle elucubrazioni esoteriche che affascinano ma a cui non riesci mai a credere sul serio. Il profumo speziato di lei era un afrodisiaco potente, dava a ogni cosa una sfumatura più vivace, agguerrita. Dava a lui una ragione per cui lottare.
Bea rimase vicina a Rik, ma non azzardò nessuna freddura.
Evangeline non distolse lo sguardo dall'ex-comandante, non ebbe vergogna, non lo nascose.
Solo verso sera lui non resistette e incrociò il suo.
Veicolarono tanti messaggi, alcuni criptici, altri molto chiari. Nessuno arrivò a destinazione. Ma a loro due bastò un contatto per ritrovare la fede.
L'Umana si raggomitolò di lato, nel sacco a pelo.
Un fruscio di foglie secche e rami stecchiti la distrasse.
Domani starà meglio.
Una promessa che la natura non poteva fare. La innervosì.
Il vuoto.
Quando l'aveva toccato aveva percepito il vuoto. Non sapeva come altro descriverlo, era un distacco emotivo, uno smarrimento di sé, un buco nero che gli era stato indotto, in passato. Non era una coincidenza che fosse emerso quando Adam era entrato in contatto con la parte più indegna, corrotta e vulnerabile della sua stessa essenza. Non la riusciva a tollerare. E lei non sapeva come aiutarlo a venirne fuori.
Si poneva un'unica domanda, come un disco rotto che riproduceva una sola nota stonata.
Cosa gli avevano fatto per ridurlo in quello stato?
Chiedo scusa se ci sono refusi, segnateli e insultatemi pure, me lo merito.
Cos'è successo in questo capitolo?
Avevo dato avvisaglie che Adam stesse soffrendo parecchio. Qua ha avuto un crollo. Quello che ha fatto a Eva non è comunque scusabile, lui per primo non si perdona. Il rapporto con Summer è sempre più contorto. Non è una questione di shipparli o meno, volevo fosse chiaro come le dinamiche si intreccino, divengano inestricabili e confuse. Questo perché Summer e Adam sono davvero molto più simili di come appaiano. Eppure sono agli antipodi. I tre mesi nelle grotte sono stati lunghi e logoranti. I tre sono diventati come una famiglia, un sistema che li esclude dal resto del gruppo e li unisce.
Chi non vede un cambiamento di Rik a questo punto... è cieco. No, scherzo. Ricordate però ne L'Antico Potere, quando lui non ammetteva mai di essere stanco? Ecco, qua lo confessa in modo plateale. Era l'unico modo per costringere Solomon e Melchor a fermarsi e permettere quindi ad Adam di riprendersi. Il suo proposito è riportare tutta la sua squadra al villaggio.
Ce la farà?
Secondo voi Melchor e Solomon dove li stanno conducendo?
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