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31. Nella foresta

Adam non sapeva cosa si fosse aspettato.

Era avvenuto tutto in maniera troppo rapida, un attimo prima era ad ascoltare lo sproloquio di Eva su elementi immanenti e trascendenti, l'attimo dopo aveva i lacci dello zaino che gli segavano le spalle. Il sudore scorreva copioso lungo la schiena e il suo afrore rancido lo nauseava. I Titans non sudavano come gli umani, non si ferivano così facilmente, non avevano vesciche ai piedi, non sanguinavano allo stesso modo, la loro pelle non si riempiva di liquido e pus, non si infettava, non si infiammava, non doleva.

La sacca era troppo pesante. Camminavano da ore e a ogni passo sentiva le ginocchia cedere e i tendini tirare. La vista era annebbiata dalla stanchezza. E dall'odio. L'odio l'aveva sempre tenuto in vita e l'odio lo costringeva, un passo dietro l'altro, ad avanzare.

Un odio immane e ingiustificato, un odio ancestrale, un odio in grado di abbatterli tutti come un uragano di dimensioni epocali.

Tranne Eva.

E forse anche Summer, se l'avesse supplicato in ginocchio, se gliel'avesse preso in bocca...

«A cosa pensi?»

Si riscosse con un balzo e si guardò le spalle allarmato. Ma la domanda non era rivolta a lui, Shani l'aveva chiesto a Tomas. I due stavano chiacchierando da quando erano partiti, in penultima fila.

L'Umano non sapeva con esattezza da quanto stessero insieme, li aveva frequentati poco. Era facile sorprenderli appartati dietro una capanna a baciarsi come se a uno dei due mancasse l'aria, era facile trovare lei seduta sulle ginocchia di lui in mensa. Aveva dormito con loro solo un paio di notti e l'imbarazzo provato nell'essere spettatore inerme di gemiti trattenuti a stento, sospiri e fruscii di lenzuola, sarebbe stato sufficiente per una vita intera. 

«Se un albero cade nel deserto, fa rumore?»

«Ci sono alberi nel deserto?»

«Okay, hai ragione, facciamo su un'isola deserta.»

«Dove?»

«No, Shani, è una domanda filosofica. Usa l'immaginazione. Se un albero cade su un'isola deserta, fa rumore?»

«Perché è caduto?»

«Boh, per il vento. O forse un topo ha rosicchiato tutte le radici. Il punto è che...»

«Un topo?»

«Un roditore! Un castoro! Sono animaletti semiacquatici noti per l'abilità con la quale costruiscono dighe.»

«E perché dovrebbero costruire una diga su un'isola deserta?»

«Shani, non stai afferrando il punto. Un albero è caduto, su un'isola deserta. Nessuno l'ha potuto sentire. Ha fatto rumore?»

«Il castoro l'avrà pur sentito!»

Adam ebbe un moto nervoso, velocizzò il passo e sputò un grumo di saliva a terra.

Non sopravvivo. Sono sicuro che stavolta non sopravvivo.

I due capi aprivano le fila, conducendo il ritmo. Dietro di loro, Ulrik, con il suo carico disumano, marciava tra Kuran e Bea, in religioso silenzio.

Summer era appena dopo di loro, sottile come un giunco, rigida come filo spinato. Ogni tanto si voltava e gli gettava un'occhiata sprezzante. Non gli avrebbe più fornito aiuto perché lui l'aveva trattata male, ma se l'avesse fatto, avrebbe avuto il coraggio di accettare?

Sentiva le piaghe aprirsi sulla pelle fragile delle spalle, era fradicio perfino nelle mutande, aveva sete, fame, la gola arsa e le labbra screpolate dalla disidratazione.

Non poteva solo essere il primo giorno.

Non potevano essere appena partiti.

«È un antico dilemma che dovrebbe aiutarti a riflettere sulla percezione che hai del mondo. È tutto illusorio, paradossale!»

«Ah, ecco allora perché il castoro voleva costruire una diga su un'isola deserta! È una barzelletta.»

«Ti prego, dimmi che mi stai prendendo per il culo.»

Adam superò Shani grugnendo di disperazione, Eva gli si affiancò. «A volte sono anche peggio. Dovresti sentire quando lei canta...» Gli strizzò l'occhio.

Lui non riuscì nemmeno ad ammirare la bellezza di quel gesto, a godere della sua spontaneità.

Non poteva replicare. Non aveva fiato.

Era sangue quello che sentiva sul palato? Forse sarebbe morto. Si augurò che avvenisse presto, molto presto.

«Rik, la vuoi sentire una barzelletta?» squillò Bea con una cantilena melensa.

«No.»

Adam gli fissò la nuca con un'intensità tale da perforargli la carne. Lui però non si voltò.

Quando si accamparono, a tarda sera, il ragazzo gettò il suo zaino con tutta la rabbia che aveva covato in ventre. Convogliò su di sé attenzioni inquiete ma silenti.

Ulrik sciolse le bretelle con più garbo, divise i due zaini, si massaggiò il collo. Il tessuto della giacca aveva ceduto sotto la frizione, si era strappato. La sua carnagione pallida rivelava macchie di un argento vivo là dove avrebbero dovuto esserci lividi.

«Molto bene, soldato.» Melchor si accovacciò davanti al fuoco. «Tu e Kuran ci procaccerete la cena. Sempre se la nostra vegetariana sarà clemente nei nostri confronti.»

Eva non protestò, cercò Rik con lo sguardo ma lui lo deviò altrove.

«Vengo anche io!» La ragazza mora sgambettò a fianco del mastino. I tre si immersero tra gli alberi mentre Solomon raccoglieva legna per accendere un fuoco.

Adam si diresse nella direzione opposta. Verso il buio.





Al terzo tentativo il legnetto prese fuoco. Accendere la carta e l'erba fu molto più semplice.

L'Umano sospirò sollevato e si lasciò andare.

Sdraiato nel buio della notte, con la testa appoggiata a un masso, scrutò la volta celeste filtrata dalle fronde nodose degli alberi.

Gli Antichi pensavano che i morti andassero in cielo. Lui si augurò che così non fosse. Sottoterra. Lui voleva stare chilometri e chilometri sottoterra. Da solo, in silenzio.

«Sono tornati, stanno cuocendo carne di lepre.»

«E tu gliel'hai lasciato fare?» la rimbeccò più brusco di quanto volesse.

Eva si sedette al suo fianco e gli passò qualche bacca rotonda. «No, quelle no. L'ultima volta che le ho mangiate mi è venuto un mal di pancia atroce.»

«Ti ci devi abituare. Sono ricchissime di ferro e di vitamine.»

Non si degnò di risponderle.

«I primi tre giorni sono i peggiori, poi il corpo si abitua.»

Si morse la lingua per reprimere un'imprecazione.

«Sei ferito? Forse lo zaino è troppo pesante. Potresti chiedere a...»

«A chi? A Ulrik? Credi che il tuo amante riuscirebbe a sostenere il suo stesso peso sulla schiena? Potrebbe portare direttamente me, prendermi in spalla, con lo zaino e tutto il resto.»

Evangeline non rispose. Lui inspirò un'altra boccata. La trattenne prima di gettarla fuori. Nessun colpo di tosse, vi era abituato.

La droga piallava il dolore lasciando uno strascico di stanchezza e torpore al suo passaggio.

«Li odio tutti» confessò. «Anzi, odio tutto» si corresse. E chiuse le palpebre stremato.

«Anche io.»

Riaprì gli occhi sbigottito. Lei gli sorrise di nuovo. Aveva il volto completamente in ombra ma il suo sorriso scintillò come un faro.

Le tese la canna. Lei scosse il capo.

«Sei stanca anche tu, sacerdotessa, non negarlo. Un solo tiro e ti sentirai meglio. Potrai tornare di là, guardarli mangiare la carne, vedere la bella Bea che ci prova col tuo uomo e lui che ti tiene il broncio. E Melchor, non scordarti di Melchor e del suo ghigno maligno! Dopo quello che ha provato a farti, dopo tutto quello che è successo, ha ancora il coraggio di sfidarti.»

Evangeline chiuse le labbra e scosse di nuovo il capo, con più veemenza.

Ma Adam capì che c'era quasi, stava per cedere, bisognava soltanto trovare la giusta leva.

«E poi dovrai sorbirti loro due, i piccioncini, Tomas e Shani. Le ultime missioni non stavano ancora insieme. Sai che non hanno pudore, vero? L'hanno fatto davanti a me e Xavier. Ho sentito quando lui le è...»

«Basta!» Eva si tappò le orecchie.

Le passò la canna. Lei la prese con la punta delle dita.

«Non so come si fa.» Un tono da bambina.

Le venne voglia di gettargliela via e stringerla tra le braccia, baciarle la fronte e la nuca e dirle che non ne aveva bisogno, prometterle che sarebbe andato tutto bene, che potevano rimanere lì, loro due, da soli, che solo lei era importante, tutto il resto non contava...

«Devi solo inalare un paio di boccate. Essendo la prima volta, basterà.» Distolse lo sguardo quando Eva ubbidì.

La sentì tossire e percepì una tenaglia d'acciaio scattare nelle sue viscere: il senso di colpa.

Se la passarono fino a quando non rimase solo un filtro tutto bruciacchiato. Adam si ustionò la punta delle dita. Osservò la pelle fremere e gonfiarsi.

La ragazza si chinò e ci passò il pollice sopra. Senza chiedere nulla, gliele baciò dopo essersi umettata le labbra.

«La saliva è un disinfettante naturale. Si potrebbe quasi dire che abbia un effetto curativo.»

Il cuore di Adam sfarfallò, una falena ingabbiata sotto una campana di vetro, ebbe quasi un mancamento.

Lei appoggiò la guancia sul suo petto. Languida e indifesa, i capelli erano secchi e ispidi, il suo profumo di pino, muschio e terra si confondeva con quello della foresta. L'avvolse con un braccio, tastò le costole del torace. Avrebbe potuto contarle una a una, come con Summer.

Un uomo possiede ventiquattro costole disposte in dodici paia. Ognuna di loro è posteriormente connessa a una vertebra toracica.

Le sollevò appena la giacca e con le dita febbrili cercò l'orlo della felpa, poi della maglietta.

Le costole dell'undicesimo e del dodicesimo paio sono dette anche false costole  fluttuanti, poiché in realtà manca una vera connessione con qualsiasi altra struttura della gabbia toracica.

La sua pelle nuda era fredda come la neve, ma aveva la consistenza e la morbidezza del petalo di un fiore primaverile.

Si riebbe con un sussulto, l'allontanò di scatto.

Eva, sempre più intontita, faticò a riaprire gli occhi, barcollò e ricadde sul suo petto.

Avrebbe potuto approfittarne...

«Dobbiamo tornare!» Glielo gridò nei timpani, nella speranza di svegliarla.

Le abbottonò meglio la giacca, fino al mento e la sollevò di peso. Non stava in piedi da sola.

Dopo solo due tiri, cazzo!

«Non voglio tornare, voglio stare qui con te, dormire con te...»

Adam si morse il dito ustionato, affondò i denti all'interno della ferita e gustò il sapore della sua stessa linfa vitale. Scariche di dolore vibrarono fuori e dentro di sé, riportandolo sulla retta via.

«Non essere stupida, Eva.»

La prese sotto le ascelle, la mise in piedi e poi, sostenendola con un braccio, iniziò ad avanzare nel buio, a tentoni. Le gambe erano molli, instabili, la mente in bilico tra galanteria e lussuria, giusto e sbagliato, perversione e onore.

Inciampò su una radice.

Possibile che si fossero allontanati tanto? E nessuno li era venuti a cercare? Cazzo! Cos'aveva in testa Ulrik? Polvere da sparo?

Se fosse stato nei suoi panni li avrebbe trovati dopo due secondi e lo avrebbe castrato. Anzi, si sarebbe castrato.

Inciampò di nuovo, questa volta sui suoi stessi piedi. Eva scoppiò in un irrefrenabile attacco di ridarella. Gli scivolò di lato e cadde a carponi.

Avrebbe voluto prenderla in braccio, ma non aveva forze sufficienti.

«Cazzo!»

La sollevò di nuovo, cingendole un fianco.

«Sei così buffo, Dima.»

«E tu sei fatta!»

«Fatta di cosa?» Gli scoccò un bacio dolcissimo sulla guancia. «E sei così carino.»

Brividi di terrore lo fecero vacillare. Non aveva paura di lei, aveva paura per lei.

Doveva raggiungere quel fottuto accampamento di merda il prima possibile, perché non sapeva per quanto si sarebbe riuscito a controllare.

Stavolta la trascinò con più irruenza. Lei biascicò proteste sconnesse e ridacchiò per quasi tutto il tragitto.

Appena scorse le luci del focolare, tirò un sospiro di sollievo, ringraziò l'universo.

Avevano disposto delle pietre a cerchio attorno alle fiamme, i sacchi a pelo erano già stesi in posizione radiale e al suolo rimanevano solo mucchietti di ossa bianche ripulite con cura. Le pelli dell'animale le avevano bruciate.

«Arrivi tardi, Hollander. La cena è finita» lo irrise Melchor, prima vi vedere le condizioni in cui versava l'Umana.

«Non ho più fame» mentì. Cercò di abbracciare con più forza Eva, in modo da tenerla ritta al suo fianco. Lei fraintese e gli avvolse le braccia al collo, ridendo.

Tutti si zittirono di colpo.

Ulrik si levò in piedi con l'impeto di un tuono. Aveva i pugni serrati e il viso marmoreo.

«Che. Succede?» Anche Solomon assottigliò lo sguardo.

Ora mi ammazzano.

Lanciò un ultimo addio implorante a Summer, non seppe nemmeno lui bene il perché. Lei era annichilita, poco distante. Lei era l'unica che lo potesse aiutare, difendere, in assenza di Xavier.

Ci fu un rapido gioco di sguardi, una comunicazione muta.

"Le hai fatto qualcosa?"

"No, ti giuro, no!"

"Come faccio a crederti? Guarda come l'hai ridotta!"

"Ti giuro che non le ho fatto niente!"


Evangeline si scostò da lui. Aveva un'espressione distesa, un sorriso spensierato, le pupille dilatate e gli occhi lucidi come specchi d'acqua. Non sembrava nemmeno lei.

«Niente» cinguettò. «Non succede niente.» Anche la voce non sembrava la sua. Incerta, allegra, con vocali squillanti e sstrascicate.

Fece un passo in avanti, barcollò e rischiò di cadere in mezzo al falò ancora acceso.

Adam le afferrò la mano sinistra e Ulrik l'avambraccio destro, entrambi la sostennero un attimo prima che uno stupido incidente si trasformasse in tragedia.

Il ragazzino percepì una goccia di sudore freddo colargli lungo la guancia. Assomigliava a una lacrima, ma non era altrettanto salata.

L'Umana alzò il volto sull'ex-comandante, un bagliore di lucidità l'aiutò a comprendere la situazione.

Lui scostò subito l'arto, la liberò come se bruciasse, come se avesse davvero preso fuoco.

«Hai fumato?»

Non incolpò Adam, non incrociò il suo sguardo, si soffermò per un istante sulle loro mani intrecciate, nulla di più. Non c'era gelosia, solo delusione.

Ripeté la domanda, con un tono molto più alto, molto più severo. Un tono paterno, non il tono di un uomo innamorato.

Lei arrossì. Chinò il capo. Nessuna risposta sagace. La lingua era ingarbugliata, le veniva da ridere e da piangere allo stesso tempo.

Aveva paura che fosse successo qualcosa, poco prima, quando era nel buio, sola con Adam, qualcosa che proprio non riusciva a capire o a ricordare...

«Eva!» Le urlò contro e sebbene non l'avesse sfiorata, sebbene fosse a un metro e mezzo da lei, la ragazza sussultò come se l'avesse schiaffeggiata.

«No, io ho fumato. Forse ha inalato un po' di fumo passivo... è stata colpa mia» farfugliò l'Umano. S'interpose tra i due, la nascose dietro la schiena.

Gli occhi celesti di Ulrik erano stanchi e affranti.

«Allora è vero che non sai tenere a bada i tuoi uomini.» Melchor s'inserì a gamba tesa, ammiccò, aveva un osso in bocca, lo stava succhiando mentre si godeva la scena. Gli incisivi erano neri fino alle gengive. «Non ti preoccupare, ragazzo. Torna alla tua cuccia. A questi due ci penseremo io e Solomon, domattina. Intanto hanno saltato la cena. Vedremo se all'alba faranno ancora gli sbruffoni.»

Il giovane aprì la bocca per dire qualcosa, li squadrò un'ultima volta, poi cedette. Tornò a sedersi. Il suo posto era tra Kuran e Bea, come sempre. Lei provò ad avvicinarsi, lui fece un gesto brusco e le impose di lasciarlo in pace.

Adam scoprì che in loro assenza Summer aveva sistemato i sacchi a pelo e posizionato sul guanciale due coperte di pile, per sopperire al freddo invernale.

La pilota aiutò Eva a togliersi le scarpe senza dirle una parola. Le rimboccò le coperte fin sopra la bocca, dopo averle scostato i capelli dal volto.

Quando alzò gli occhi sul compagno di squadra, lo fulminò.

"Con te faccio i conti domattina."

Lui annuì concorde. Se lo meritava.

Si accucciò ancora vestito, nascose la testa sotto le coperte, si morse di nuovo il dito come un neonato.

Lo stavo per fare.

Stavo per commettere qualcosa di ignobile...

Lo stavo per fare.

Lo stavo davvero per fare...




I postumi arrivarono come una fucilata. Adam ed Eva si svegliarono con un buco in testa, più stanchi della sera prima, entrambi così annebbiati che si guardarono l'un l'altro alcuni istanti senza nemmeno riconoscersi.

Il cammino fu però molto meno faticoso del giorno prima e quando Adam si accorse del motivo, morì di vergogna. Lo zaino di Summer era più gonfio, il suo più leggero.

Non ebbe il coraggio di dirle nulla, di cercare il confronto, sgridarla, tantomeno ringraziarla.

Shani e Tomas stavano discutendo animatamente, sempre in fondo alla fila.

Lei rimaneva al suo fianco per motivarlo, perché lui non riusciva a tenere il passo con gli altri.

Perché il giorno prima non l'aveva capito?

Nel tardo pomeriggio trovarono qualche noce. Si fermarono a spezzare i gusci contro le pietre per gustare i frutti secchi e croccanti.

Ulrik li apriva a mani nude e ne passava la metà a Bea, che ciondolava languida i fianchi con la testa appoggiata al tronco di un albero.

Kuran, nel tentativo di aprirne una allo stesso modo, tirò una gomitata a Summer. I due incrociarono gli occhi per mezzo secondo. E impallidirono invece che arrossire.

Solomon e Melchor confabulavano più avanti, discostati dal gruppo. Non aprivano mai la cartina, non si consultavano con i piloti, guidavano la squadra come se conoscessero la strada. E tutti loro, come caproni, li seguivano senza sospettare nulla.

Qualcosa non torna...

«Dima!» Eva lo distrasse dalle sue teorie complottiste. Si avvicinò al tronco, si appese al ramo più vicino con un saltello e con l'aiuto delle scarpe avanzò sulla corteccia ruvida verso la chioma.

Ulrik ridirezionò la sua attenzione. Scostò Bea di lato e le urlo: "Attenta!" proprio mentre lei scattava in avanti, spiccava un balzo.

Ricadde con grazia felina, un ginocchio sul terreno e l'altro piegato. In mano stringeva qualcosa.

Anzi, qualcuno.

«Dai, non avere paura, fifone!»

Per un attimo credette che si fosse rivolto a Ulrik. Anche lui fraintese e sgranò gli occhi.

Invece tra le mani la ragazza teneva un topolino minuscolo che se ne stava rintanato sul palmo, con una zampetta davanti agli occhietti castani e la coda che fremeva in senso orario.

«Ti stava guardando, Dima! Allunga il braccio, vieni!»

Lui la fissò sconcertato. «No.»

Eva gli rivolse un'occhiata ammonitrice. «Non capisci? Stava guardando te, non me. Dammi la mano. Fagli sentire il tuo profumo. Dimostragli che non sei cattivo, che non gli farai del male.»

L'Umano scosse il capo. Quell'essere mezzo viscido e mezzo peloso lo repelleva, si dibatteva come un ossesso e aveva denti appuntiti come spine.

«Dima!»

Lo stavano tutti guardando. L'Umano senza poteri. Il combina guai. L'inutile fardello che si portavano appresso. Il ragazzino pericoloso che ogni tanto perdeva la testa e faceva del male a se stesso.

«Vaffanculo, sacerdotessa.» Estese il braccio e distolse lo sguardo dall'altra parte, orripilato da ciò che stava per avvenire.

Le zampettine affossarono nella pelle morbida. Senza saperlo, attraversarono sopra tre spessi strati di tessuto le lunghe cicatrici che l'avevano separato dalla morte.

Il topolino arrivò fino al gomito, lo scrutò pensieroso.

Puzzavano entrambi in maniera differente. Nessun profumo per loro. Erano reietti, emarginati, deboli e disgustosi.

L'essere chinò il muso di lato, portò le zampe davanti alla bocca.

Vattene, ti prego vattene.

Quello ubbidì. Girò il corpo e percorse a ritroso la strada. Evangeline l'aiutò a issarsi sull'albero, a tornare a casa.

Gli rimase una sgradevole sensazione, una voce atona che rimbalzava da un ventricolo all'altro del suo cuore.

"Non sei poi così malvagio."

Le gioie di Adam in questo capitolo! 🤣

Si vi sembrava pieno di drammi questo... il prossimo 🤐

Comunque sì, il topolino gli ha parlato!

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