22. Incomprensioni
Ulrik era fuori di sé.
Più cercava di controllarsi, più sentiva i muscoli della faccia irrigidirsi in una posa composta, un'inquietante maschera di cera pronta a sgretolarsi e mandarlo in frantumi.
Anche Solomon se ne stava muto, come suo solito, le braccia incrociate e una postura guardinga. Se fosse stato anch'egli preoccupato, non lo avrebbe dato a vedere.
Melchor invece scalpitava, una belva assetata pronta ad azzannare l'aria. Il bastone con cui reggeva il corpo sempre più emaciato si curvava sotto il suo peso mentre un sorriso sprezzante sfigurava quel volto da teschio che tanto il comandante dell'arca K-030 detestava.
Avevano provato a interrogare i bambini, soprattutto Jenny, l'unica che li avesse visti andare via.
Era stata criptica e sibillina, proprio come la sua tata.
«Eva è arrabbiata, non mi ha voluto portare con sé. Ha portato Adam al posto mio. L'ha fatto apposta, perché io l'ho offeso.»
Non c'era stato verso di tirarle fuori niente di più, a parte alcuni vaneggiamenti riguardo fiori e piante profetiche. Ulrik si era esasperato così tanto nell'ascoltare Ginny che interrogava con pazienza e mestizia la figlia, che aveva scardinato la porta di legno della loro casa, quando era uscito.
Gliel'avrebbe aggiustata il giorno seguente, gliel'aveva promesso.
Se lei fosse tornata...
"Non dirmi di andarmene. Sai che non posso." Erano state le sue ultime parole.
E se fosse stata lei ad andarsene?
I nervi del braccio sinistro bruciavano e il cuore fittizio era un agglomerato di agonia. Avrebbe voluto scavarsi nella carne a mani nude, estirparlo, gettarlo a terra e calpestarlo.
Non riusciva più a trattenersi.
Per la seconda volta raccolse lo zaino e si avviò verso la barriera. Per la seconda volta i due capi villaggio gli ostruirono il passaggio.
«Aspetta.» La voce robotica di Solomon gli risultò ancora più fastidiosa del solito.
Era un ordine e Ulrik aveva imparato che gli ordini erano una legge divina, gli ordini venivano emessi affinché si ubbidisse con zelo e fede cieca. Le cose funzionavano solo se si rispettano le regole emesse dalle autorità competenti e lui le aveva sempre rispettate.
O quasi.
«Aspetta. Ancora. Un. Po'.»
E mentre il mastino valutava se infrangere i suoi voti e scontrarsi come non aveva mai fatto prima d'allora, due figure emersero tra i tronchi fitti imperati di buio.
Erano tornati.
Kuran si appoggiò alla sua spalla. Si era dimenticato della sua presenza, si dimenticava sempre di lui. Il compagno silenzioso che gli copriva la schiena, l'unico su cui al momento potesse fare davvero affidamento.
D'istinto posizionò la mano sopra la sua, per dirgli che aveva capito, che glien'era grato. Fu solo un attimo, un contatto così estemporaneo che il pilota credette di esserselo solo immaginato. Non disse nulla, non c'era mai bisogno di dire nulla. Dopo il fatidico diverbio, non avevano più parlato di emozioni e relazioni naufragate. Solo compiti, doveri, missioni, caccia, pesca, armi leggere, arco e frecce.
«Eva.» Il primo a chiamarla fu Solomon. Sciolse le braccia e serrò i pugni.
La ragazza avanzò a testa alta. Aveva i capelli e la maglietta bagnata, il volto pallido e le labbra crepate macchiate di rosso.
«C'è stato un imprevisto...»
L'uomo alzò il dito indice verso il cielo.
La luna stava calando. Erano le quattro di notte.
Ulrik spostò lo sguardo da Eva ad Adam. Anche il ragazzino aveva i capelli umidi appiccicati alla fronte, gli occhi iniettati di sangue e l'incarnato così cereo che pareva un fantasma.
«Cos'è successo?» La mente si aggrovigliò in mille terribili congetture.
Non si rese conto dello sguardo di odio che l'Umano rivolse a Melchor, né dell'improvvisa vicinanza tra i due ragazzi.
«Abbiamo visto qualcuno.»
Evangeline raccontò rapida, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Si rivolse solo a Solomon, con un tono pacato e un eloquio chiaro. «... abbiamo fatto un giro più lungo, per sicurezza. Ma non sarà più un nostro problema, te lo posso giurare.»
Nessuno fiatò per lunghi, gelidi secondi.
Adam sembrava sul punto di vomitare.
Kuran fece qualche passo indietro, inciampò sui suoi piedi. Era sconcertato.
«Li hai attirati al villaggio, lurida puttana!» Melchor l'aggredì con una furia inaspettata.
Agitò il bastone in aria e quello frustò rumorosamente il vuoto.
«Calma!» Lo placcò Solomon, trattenendolo per l'avambraccio.
Ma l'altro capo aveva perso la pazienza, cercò di liberarsi dalla presa.
«Io l'ho sempre detto! Sempre! Non può fare quel cazzo che vuole! Ci sta mettendo tutti in pericolo, non lo vedete? È un cane sciolto! Va punita. Ci farà trovare, se non la fermiamo. È sempre stata...»
Un altro scatto, fulmineo e imprevisto.
Adam avvinghiò le mani contro il collo rugoso dell'uomo, lo gettò al suolo e iniziò a stringere inclemente, con gli occhi di cobalto schizzati fuori dalle orbite e la bocca serrata in una piega innaturale.
Il comandante dell'arca K-030 ci mise qualche secondo di troppo per elaborare cosa stesse avvenendo.
Afferrò il giovane per la collottola e lo allontanò dal sopravvissuto che giaceva supino in agonia. Non riuscì a trattenerlo oltre. Adam azzardò un sinistro contro il suo naso e Rik fu costretto a piegarsi per sottrarsi al pugno. La presa si allentò e il ragazzo riuscì a sbrigliarsi.
Si ritrovarono faccia a faccia, in posizione d'allerta: l'uno allibito, con una profonda ruga che solcava in perpendicolare la fronte e la mascella serrata; l'altro invece si dondolava sulle punte, il gomito piegato in posizione di difesa, gli arti già pronti a un nuovo attacco.
«Non voglio combattere.»
Ad Adam venne un déjà-vu. Rivide Joan, lo strabico dalla muscolatura possente, il cranio rasato male e la voce affranta di chi non ha nulla da perdere.
«Voi dell'Accademia solo questo sapete fare.» Gli sputò sulle scarpe, in preda all'esaltazione.
Eva intervenne, lo abbracciò da dietro, cercò di contenerlo. «Cosa ti prende? Lascia stare! Ma cosa stai facendo?! Cosa vuoi dimostrare?»
Mimì.
Era uno spettacolo dopotutto. Stesse parti, diversi attori.
Dovevano solo iniziare a recitare.
Sciolse la ridicola presa della ragazza e si gettò contro il bestione, puntando dritto contro l'addome. Ulrik però era grosso, sì, ma anche veloce. Si sottrasse senza alcuno sforzo, senza nemmeno colpirlo. In un attimo e gli era già alle spalle.
«Prendilo! Lo dobbiamo ingabbiare. Guarda cosa mi ha fatto! Mi ha quasi ucciso! Questa è una congiura, Solomon, non lo vedi? È una congiura...» Melchor iniziò a tossire sangue e l'amico, chinato al suo cospetto, lo strinse tra le braccia, muto, cercando di ammansirlo, di acquietarlo.
Gli altri due erano al punto di partenza, tesi l'uno di fronte all'altro.
«Basta!» L'Umana era in lacrime. Cercò di abbracciare di nuovo Adam, ma non riuscì a frenare il secondo attacco.
Adam mirò un gancio sinistro, Ulrik gli afferrò il polso, glielo torse e arretrò di un passo ruotando il busto dal lato opposto. Fu comunque preso di striscio dall'altra mano, gli sfiorò l'orecchio, non la riuscì a bloccare in tempo.
Spintonò con forza l'Umano, turbato dalla prestanza fisica che gli aveva appena dimostrato.
Adam tornò in posizione di difesa.
Gomito troppo alto, equilibrio instabile, ballava sui piedi al ritmo di una musica che solo lui poteva udire.
Avrebbe voluto dirglielo, se si fosse trattato di un normale allenamento mattutino.
Hai del potenziale, ma lo stai sprecando. Stabilizzati, mantieni la posizione, aspetta che sia io il primo, per una volta, ad agire. Scopri i miei punti deboli, prima di attaccare.
Ma Adam li conosceva già, li aveva già studiati.
Il terzo affronto andò a buon fine. Dopo una raffica spasmodica il ragazzo gli tirò una ginocchiata all'inguine. Colto di sorpresa Rik perse il contatto oculare, abbassò lo sguardo e il giovane gli passò sotto l'ascella e lo colpì di schiena con una gomitata. Tentò di afferrarlo avvolgendo l'altro braccio attorno al collo, mentre il comandante era ancora piegato dal dolore.
Stavolta Ulrik fu costretto a contrattaccare per difendersi.
Adam ruzzolò sul terreno, tra le urla disperate di Eva e i "prendilo" di Melchor sempre più strozzati.
«Non voglio combattere.» Non ci credeva più nemmeno lui. Non il suo corpo, per lo meno.
Ogni fibra reclamava giustizia e il sorriso scalfito sul volto di Adam era un affronto pruriginoso che non riusciva a governare. Vibrava nelle carni, adrenalina e frustrazione.
«Prendilo» cedette pure Solomon, mentre il corpo del compagno si afflosciava privo di sensi tra le sue braccia.
Evangeline urlò di no, di lasciarlo stare, che non aveva colpe, di smetterla.
Ulrik udì anche dell'altro, forse una preghiera. Forse lo chiamò per nome.
"Rik, per favore..."
Ma erano al quarto round, quello conclusivo.
Adam puntò tutto sulla rapidità. L'uomo lo lasciò avvicinare quel tanto che bastava.
Lascia che invada il tuo spazio personale, lasciagli credere di avere il controllo, lasciagli credere quello che vuole.
Schivò entrambi i ganci e un paio di calci mancini, lasciò che il corpo del giovane si sbilanciasse contro il suo.
E infine lo colpì senza alcun timore, senza alcuna pietà, con tutte le forze in suo possesso, al basso ventre.
Adam agonizzò ma cercò comunque di scalciare, per allontanarsi dal mastino.
Ulrik allora levò il gomito al cielo e lo direzionò contro la spina dorsale, proprio come aveva fatto il nemico poco prima. Una parte di lui godette nel sentire qualcosa spezzarsi contro quella potenza di gran lunga maggiore. L'altra invece patì il medesimo dolore dell'avversario.
Quando si rese conto che il ragazzino era svenuto, lo lasciò scivolare al suolo, non cercò di trattenerlo.
Il contatto fisico gli faceva orrore.
Il primo sguardo che incrociò fu proprio quello di Kuran, cupo e turbato semi-nascosto nel buio della notte.
Le urla di lei gli arrivarono con la latenza del trauma.
«Sei un mostro!»
L'Umana si sgolò fino a perdere la voce. Svegliò tutti, l'Anziano, i bambini, i loro genitori, i compagni di squadra. Urla così forti da lei non le avevano mai sentite.
La ragazza si inginocchiò, cercò di rianimare Dima, ma lui era troppo esausto per svegliarsi. Aveva labbra e occhi cerchiati di viola.
«Sei un mostro...» singhiozzò. «Mi fai schifo, mi fate tutti schifo! I veri demoni siete voi!»
Provò a metterlo a sedere, ma era troppo pesante per lei.
Aniruddha avanzò claudicante, le dita delle mani sfioravano il suolo. Il volto, sfregiato dall'oscurità, era ancora più nefasto.
Avvolse il giovane Umano tra le lunghe braccia. Lo sollevò dal selciato polveroso come fosse una piuma.
«Rinchiudilo.» Fu l'ordine perentorio di Solomon.
E la minaccia di Evangeline avrebbe fatto crepare dalle risate Adam, l'avrebbe trovata di un'ilarità geniale.
«Se lui muore... io non avrò alcuna pietà!»
❈
La stanza era troppo piccola per contenere sei persone, l'aria era stantia e il disordine rendeva difficile stare in piedi senza pestare qualcosa.
Tomas aveva scalfito sulla parete a caratteri cubitali: "Rimarrai sempre la più meravigliosa tra tutte le follie che ho compiuto."
Ulrik continuava a leggere quella frase senza coglierne il significato.
«Va liberato» ripeté per l'ennesima volta Xavier. Lui e Summer erano spalla contro spalla, neri di collera. «Subito» precisò.
«Aniruddha l'ha curato, credo che sia solo per una notte, giusto per acquietare Melchor...» provò a mediare Hans, ma fu gelato dallo sguardo bieco che gli rivolse l'ex-professore.
«No, scusate, a nessuno gliene frega un cazzo dell'Antico che si aggira per la foresta? Quanto era distante? Io pensavo che non si avventurassero nella natura. Ci ha trovati? Era davvero solo?»
«Eva sostiene che non fosse un Antico, ma un Titans. Forse uno di quelli al loro servizio» rispose Kuran.
«No, fatemi capire, che cosa vuol dire un Titans al loro servizio? Quanti ce ne sono? Perché collaborano con quei demoni?» Tomas evitò lo sguardo di Kuran, lui se ne accorse e capì che Shani gli aveva detto tutto. Le guance gli si imporporarono di vergogna.
«Non ha importanza ora! Adam va liberato, è un ragazzino, è gravemente ferito ed è rinchiuso in una gabbia per animali!» disse Xavier, schiumando dalla rabbia.
«Ringrazia l'Universo che non ci siano animali dentro...» borbottò Tomas.
Xavier tirò un calcio contro uno zaino afflosciato sul pavimento. «Non è questo il momento di scherzare!» sbraitò paonazzo.
«Rik... ma lo dovevi proprio colpire in quel modo?»
Il comandante se ne stava seduto su una sedia, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani. Shani si era avvicinata come un'ombra, aveva parlato a bassa voce, nella vana speranza che la conversazione rimanesse privata. Ma in una stanza così piccola era impossibile non essere uditi. Tutti spostarono la loro attenzione sul comandante, sentì i loro occhi addosso, inflessibili, indiscreti, affamati di spiegazioni.
Ma lui riusciva a pensare a una sola cosa.
Sono un mostro.
«Rik?» insistette Shani.
«Non era facile, sembrava impazzito! Ha quasi strangolato Melchor. L'ha aggredito senza alcun motivo. Sedarlo è stato l'unico modo» lo difese il pilota.
Summer gli rivolse un'occhiata di puro gelo, ma non fiatò.
Ulrik avrebbe voluto dire che non l'aveva fatto apposta, sapeva che tutti si aspettavano quel genere di confessione da parte sua. Ma non voleva mentire. L'aveva steso come fosse un suo pari, una parte di lui si era inalberata per l'affronto subito, ne aveva avuto paura. Avrebbe potuto accusare i colpi, sfiancarlo e tramortirlo in modo meno aggressivo. Invece aveva perso il controllo, tutti i fondamentali che si era tanto impegnato a studiare si erano dissolti come cenere al vento.
Lei non l'avrebbe mai perdonato.
Sapeva il motivo di quelle urla. Le aveva fatto rivivere il trauma del loro arrivo al villaggio.
«E adesso che si fa?» Tomas Murphy non riusciva mai a starsene zitto.
«Rik?!» E nemmeno la sua ragazza.
«Lo terranno ventiquattro ore in cella, non una di più. Domani all'alba sarà libero. Vogliono essere sicuri che impari la lezione, che non osi più affrontarli o alzare le mani in quel modo. Io non ci posso fare nulla, sono ordini. Bisogna ubbidire.» Il comandante si alzò e si diresse verso la porta socchiusa.
Xavier l'agguantò per la maglia.
«Scherzi, vero? Ordini? Ma cosa sei? Un automa? È un ragazzino! Ha solo diciott'anni! È ferito!»
Gli occhi gelidi di Ulrik lo riportarono alla realtà. L'ex-professore lasciò la presa, sconfitto.
«Mi dispiace.» Era sincero, anche se le scuse parvero poco sentite.
Non si impegnò affatto a metterci un briciolo di emozione.
Si diresse verso l'abitazione di Ginny, intenzionato a riparare la porta che aveva divelto.
Rimasero in cinque in una capanna di legno con vestiti stropicciati accatastati negli angoli, un letto disfatto, disegni scurrili sul muro e avanzi di candela sparsi un po' ovunque.
«Quindi dell'amichetto degli Antichi non ve ne frega proprio nulla, eh? Io non vorrei dire ragazzi, ma ho un pessimo presentimento...»
Shani gli tirò una gomitata e lui invece che arrabbiarsi scoppiò a ridere.
Abbandonarono tutti la stanza, lasciandoli da soli, come fossero due pazzi.
❈
Adam non la sentì arrivare, ma non si spaventò quando un'ombra oblunga creata dalle fiaccole appese all'esterno della prigione gli oscurò la visuale.
«Sacerdotessa! Siete venuta a darmi la grazia o l'estrema unzione?»
Lei gli allungò un tocco di pane e una mela turgida, rossa.
Il ragazzo si voltò spaesato, per guardarla negli occhi.
«Perché?» le chiese.
Aveva un groppo in gola. Afferrò il dono con le mani che tremavano di emozioni sconosciute.
«Lui ti ha messo le mani addosso, vero?» Cambiò domanda.
Stavolta fu Eva a vacillare.
«Melchor, ti ha messo le mani addosso?» Adam impugnò una sbarra.
Non sapeva cosa rispondergli, se confessare per la prima volta, anche a se stessa, cosa fosse avvenuto diversi mesi prima, o se rimanere zitta.
Il suo silenzio valse come un assenso e l'Umano se lo fece bastare.
«C-come l'hai capito?» gli chiese dopo alcuni minuti, mentre lui sbocconcellava il frutto maturo fuori stagione.
«Non sono stupido come il tuo ex-fidanzato.»
Evangeline ebbe quasi un tremito, le venne spontaneo difendere Ulrik, spalancò la bocca e poi se ne pentì.
Adam sorrise. «Da come ti guarda. Non ci voleva un genio. Ho messo semplicemente insieme i pezzi, non era un puzzle difficile da ricostruire.»
Lei si sedette al suo fianco. Separati dal gelido metallo, schiena contro schiena, non erano mai stati così uniti. Se ne resero conto entrambi nello stesso momento. E ne rimasero entrambi turbati.
«Non dirlo a nessuno» lo supplicò.
Adam in un moto di stizza gettò il torsolo dalla parte opposta della cella. «Non dovresti essere tu a vergognarti! Dovrebbe essere lui. E i tuoi amici, per non aver capito nulla!» Si voltò a guardarla anche se lei gli volgeva ancora le spalle. «Non ti hanno supportata, è questo che volevi dirmi ieri, vero? Tu avevi bisogno di aiuto e loro non ci sono stati. Non ti hanno capita ed è per questo che hai preferito isolarti.»
Evangeline scosse il capo, aveva le guance umide, non voleva che lui la vedesse in quel modo.
«Io ci posso essere, se tu mi vorrai. Io posso provare a capirti!» Allungò un mignolo fuori dalla gabbia. «Amici?»
L'Umana si voltò a fissarlo stupita. Non fece nemmeno a tempo ad asciugarsi il volto. Affiorò un sorriso ingenuo, da bambina. Nessuno le aveva mai chiesto di essere suo amico. Aveva avuto o le sue sorelle o i suoi compagni di squadra e in entrambi i casi si era trattato di una famiglia. E la famiglia non si sceglie, viene imposta da forze sconosciute, un po' per destino, un po' per fato.
Gli amici invece no, quelli si cercano e ti trovano, quelli non hanno vincoli o obblighi morali, nessuna forzatura.
Strinse il mignolo con dolcezza.
«Amici.»
Adam si lasciò ricadere steso supino, la testa improvvisamente leggera anche se il cuore sembrava sul punto di implodere.
«Non farlo più, però. Non scontrarti mai più contro di lui.»
La fissò dal basso verso l'altro.
Lei gli diede un pizzicotto leggero sul braccio. «I Titans non sanno quanto doloroso sia guarire. Non hanno cognizione.»
«Non devi temere per me. Nemmeno io ho cognizione.»
«Lo so, Dima. E proprio per questo mi preoccupo.» Si rialzò in piedi sospirando.
«Ti preoccupi per me?»
Non riusciva a scorgere le sue iridi, il fuoco non poteva mostrare i colori dipinti sul suo volto.
«È quello che fanno gli amici, no?»
Gli fece l'occhiolino, prima di allontanarsi.
Un sorriso maligno piegò gli angoli della bocca dell'Umano.
Lui non credeva nell'amicizia, non ci aveva mai creduto.
❈
Ulrik venne ad aprire le sbarre di mattina presto.
Era stato il primo a svegliarsi. Vestito di tutto punto, con lo sguardo assorto e i muscoli tesi, aveva tutta l'intenzione di svolgere i compiti per automatismo, senza pensare. Prendere la chiave, girarla nella toppa, sciogliere il catenaccio, far scorrere le sbarre, aspettare che l'Umano si levasse dai piedi per poi richiuderle nella speranza di non doverle più riaprire.
Adam si godette la scena sogghignando, felice di rovinare i suoi piani.
«Perché l'hai lasciata?»
Il comandante ci mise qualche secondo di troppo a comprendere la domanda, cosa che confermò l'opinione che si era fatto il ragazzino di lui.
Ulrik era il prototipo del buon soldato dell'Accademia: tanti muscoli e zero cervello.
«Te l'ha detto lei?»
Non riusciva invece a comprendere il tono monocorde, l'inespressività facciale, quel modo freddo che aveva di fissare lo sguardo su chi gli parlava. Ma non riusciva a comprendere nemmeno cosa ci avesse trovato Eva in lui, perché se ne fosse innamorata. La prestanza fisica... e poi? Il comandante dell'arca K-030 non sembrava possedere altre qualità speciali.
Scivolò fuori dalla cella con noncuranza. Il naso rivolto al soffitto, le mani in tasca.
Il suo busto era stato ingessato, ma tutto sommato non aveva ricevuto gravi danni, qualche livido, un occhio nero, una costola incrinata e uno strappo muscolare al deltoide.
«No, lei non mi ha mai parlato di te» mentì.
Si godette il lieve tic nervoso che fece sbattere una volta di troppo le ciglia bionde del giovane uomo.
"Allora ce l'ha qualche cazzo di reazione emotiva, il bestione."
Ma prima che potesse aggiungere altro, si ritrovò compresso da una morsa d'acciaio. Annaspò sorpreso e rispose agguantandogli con le unghie il polso fino a graffiarlo.
Ulrik non fece una piega. Continuò a trapassarlo con le sue iridi antartiche, tenendolo sospeso a dieci centimetri dal suolo.
«Fatti gli affari tuoi.» Le labbra sottili si schiusero appena. Gli zigomi sporgenti nemmeno si mossero.
«Se no?» lo provocò Adam.
Il comandante strinse ancora la morsa, gli bloccò la circolazione.
«Se no, niente. Fallo e basta.»
Con una lieve spinta lo mandò a carponi. Chiuse la cella con un gesto troppo violento e la struttura tremò a causa della sua ira.
L'Umano se ne andò ridendo sguaiato. Non riusciva a camminare in linea retta. Barcollava come fosse ubriaco, ebbro di una gioia che Ulrik non poteva comprendere.
La gioia di smascherare una persona, di trovare il suo punto debole, di vederla finalmente crollare.
Capitolo lunghissimo!
Diciamo che questa "spedizione" ha scatenato un effetto domino non indifferente.
Ulrik e il suo #maiunagioia li conosciamo. Invece Adam rimane un po' criptico. Lui è un gran manipolatore, io vi ho avvertiti.
Ci saranno capitoli in cui il pov di Eva tornerà a essere quello centrale. Qualcuno di voi ha notato che per adesso noi la osserviamo sempre attraverso gli occhi di compagni. È assolutamente voluto.
Voi non sottovalutatela, mai 💚
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