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20. Dima

Con l'indice tratteggiò le curve generose di quel corpo nudo che giaceva raggomitolato sul suo petto. Le fece il solletico e godette del suono della risata che riverberava sulla sua pelle.

La cute era tesa e liscia, priva di rughe o imperfezioni, morbida al tatto come nemmeno un lenzuolo di seta avrebbe mai potuto essere. Le pettinò i capelli lontano dal volto. Una chioma corposa di un bel giallo paglierino, boccoli ricreati con ferro e lacca. L'aveva vista appena dopo che si era fatta la doccia, da bagnati i suoi capelli erano ritti come spighe di grano.

Le sfiorò un seno e lei si coprì imbarazzata con la coperta, sfuggendo il contatto. Dopo tutto quello che avevano appena fatto, era dolcemente ipocrita da parte sua.

«Sorellona, che c'è? Sei già stanca?»

Provocare, il suo superpotere.

Lei sbuffò spazientita. «Non chiamarmi così, non sono tua sorella. E poi è tardi, Adam. Dovremmo alzarci. A che ora hai la visita medica?»

Tutto il buon umore sfumò nell'aria pesante della stanza, dove avevano scopato per ore.

Scopato, sì, perché Candy non faceva mai l'amore. Non con lui.

«Che c'è? Non hai voglia di un bis?» Iniziò a farle il solletico sul ventre morbido, irrispettoso e insolente.

Candy dapprima cercò di divincolarsi, poi soccombette, perché gli occhi di Adam erano uno spettacolo che la faceva bagnare ogni volta. E perché lui, nonostante fosse più giovane e all'apparenza gracile, era molto più forte di lei.

Suo fratello le serrò entrambi i polsi sul cuscino, appena sopra la testa, glieli strinse un po' troppo, quasi volesse recarle dolore. Si posizionò a cavalcioni su di lei con un'espressione maliziosa e sfrontata.

«Mamma e papà si stanno svegliando! Ci sentiranno!» strillò Candice.

«E allora? Che sentano.» Le lasciò una scia umida di baci sul collo. Lei gemette e non riuscì a ritrarsi.

«Adam, smettila!» Si stava innervosendo. Il nomignolo le dava davvero fastidio.

«Molla il tuo fidanzato e io ti lascerò andare.»

«No!» lo supplicò. I suoi tentativi per dimenarsi si fecero più convinti.

Il ragazzo interruppe la presa e la liberò.

Gli era venuta la nausea. Non aveva nemmeno più voglia di fare sesso.

Non aveva più voglia di nulla.

Fissò spaesato le proprie mani. Aveva la capacità di macchiare in maniera indelebile qualsiasi cosa toccasse. Un altro superpotere.

Sua sorella ne approfittò per raccogliere veloce la biancheria sul tappeto. Si rivestì svelta, prima che lui le facesse cambiare idea. Mentre si allacciava la camicetta rosa con le maniche a sbuffo, si voltò a fissarlo.

Lui le dava le spalle, era seduto sul letto. Un corpo giovane e magro, mille lividi di diverse forme e dimensioni su una pelle candida come la luna. Era completamente ricoperto di cicatrici. La fecero rabbrividire.

«Ci vediamo a colazione? Biscotti o pancake?» squittì distogliendo turbata lo sguardo.

Non le rispose.

Lei recuperò la cintura dal pavimento e la fece passare veloce tra i passanti dei pantaloni verde rancido. «Vuoi che ti accompagni all'appuntamento? Potrei liberarmi nel primo pomeriggio. A che ora è?» insistette.

Adam scosse le spalle. «Non importa, ho lezione» mentì. Non frequentava da mesi l'università. Gli esami medici e gli effetti collaterali dei farmaci gli impedivano di studiare.

«Allora io vado di là, prima che mamma si accorga che non ho dormito nel mio letto.» Fece il giro della stanza per scoccargli un casto bacio sulla guancia.

Era freddo. Adam aveva una temperatura corporea inferiore alla norma, anche per un Umano.

«Sei arrabbiato?»

Lui piegò gli angoli della bocca in un sorriso amaro. «No, Candy Candy, non sono arrabbiato.»





Aveva conosciuto sua sorella quando aveva dieci anni. Lei ne aveva appena compiuti sedici. Candice Galatea Hollander era il bocciolo in fiore di una ricca famiglia dei piani alti dell'arca. Sciocca, viziata, egocentrica e svampita. Bella da far impazzire qualunque mortale. La bellezza esclusiva dei Titans, quell'immacolata perfezione che solo l'Hc34Fc987 può fornire. Connor Joan Hollander stringeva la spalla della primogenita come fosse un trofeo vinto in una competizione, mentre la moglie, Annabelle Odette, con le mani in preghiera sotto il mento, si esibiva in una recita strappalacrime di pura gioia e commozione.

"Ecco il vostro figlio adottivo. È un Umano."

Dima.

Il nome gliel'avevano tolto quasi subito. Che nome è "Dima"? Era un diminutivo e non era all'altezza degli standard degli Hollander. Se si fosse chiamato "Dimitri" forse sarebbe riuscito a convincerli a mantenerlo.

Ma ai tempi ad Adam non gliene fregava un cazzo.

Lui non aveva avuto occhi che per lei, la sua preda, quel dolce bocconcino che sorrideva svenevole, tutta panna, zucchero, stelle filanti e velati bagliori negli occhi celesti.

Candy Candy, l'aveva rinominata, come la protagonista di quell'antico cartone animato che era diventato un cult sbiadito. Ci assomigliava a Candy Candy, lui avrebbe potuto recitare il ruolo di uno dei fratelli. Non l'avrebbe mai chiamata Candice, come loro non avrebbero mai chiamato lui Dima.

Il copione era stato scritto, ma nessuno gli aveva mai chiesto se volesse prendere parte a quella squallida pellicola.

Per questo voleva lei. La voleva mordere, la voleva divorare, la voleva corrodere. Lo desiderò in maniera viscerale.

Ma a dieci anni non sapeva ancora come. A dieci anni conosceva solo l'odio, non la vendetta.

L'aveva odiata fin da subito, la sua nuova famiglia. L'aveva odiata al primo sguardo, appena si era spalancata la porta di quel lussuoso appartamento dei piani alti.

Aveva rimpianto l'orfanotrofio vicino alle caldaie, le tate che raccontavano le solite quattro fiabe della buonanotte, i bambini che barattavano pennarelli con caramelle, la fila per lavarsi i denti, fatta di gomitate e barzellette senza senso, che non facevano ridere nessuno.

L'orfanotrofio gli aveva insegnato che l'odio andava bene, l'odio era naturale. Tutti i bimbi abbandonati odiavano il loro triste destino. Era normale.

Ma la vendetta no, la vendetta era immorale, un peccato imperdonabile, era un'azione sacrilega per l'Universo e per l'intera razza umana. E lui era un dannatissimo Umano, troppo fragile e inerme contro il corpo salubre e invulnerabile di un Titans, anche se suo coetaneo.

Candy Candy gli aveva pure stretto la mano, quel giorno.

«D'ora in poi sarai il mio fratellino.» Aveva cinguettato davanti agli assistenti sociali.

Ne era seguita una riunione intensa, che era durata per più di due ore, tra operatori sanitari e genitori adottivi, in un salottino con i muri di porpora, mobili in legno massello e una libreria coloniale ad angolo stipata di vecchi volumi d'epoca, tutti accuratamente spolverati e mai sfogliati.

Vivere ai piani alti era tutt'altra cosa rispetto a sopravvivere ai piani inferiori. Sembrava di essere tornati nell'età d'oro. Sembrava di essere tornati sulla Terra.

«Fratellino, ti va di visitare la tua nuova cameretta?» Aveva una voce acuta come una stilettata al petto.

Ucciderla sarebbe stato troppo facile e troppo indolore, così come farle del male. Con un po' di titanio sarebbe guarita. Anzi, supponeva che quel visino simmetrico e quel nasino all'insù avessero già usufruito di un paio di ritocchini.

Doveva essere più furbo, più scaltro.

Una sofferenza lenta e dolorosa. La vendetta è un piatto che va servito ghiacciato.

«Fratellino?» Lei lo prese di nuovo per mano. Profumava di rose e zucchero a velo, era calda e morbida, gentile e buona.

Come con lui non era mai stato nessuno prima d'allora.

"Perché alcuni nascono come Candice Hollander e alcuni nascono come me? Cos'ha fatto lei per meritarsi tutto questo? Cos'ho fatto io per non meritarmi nulla?"
La camera era blu e bianca, con un bel letto matrimoniale, una scrivania a doppio ripiano, due scaffali sulla parete su cui erano già stati allineati i nuovi libri di scuola, una cesta piena di macchinine e pupazzi, e un'altra, a fianco, con mille coloratissimi mattoncini per giocare a fare le costruzioni. Appesa a una gruccia, sulla sua porta, c'era la nuova divisa scolastica. Giacchetta azzurra con pantaloncini in tinta con la piega al centro, una camicia bianca e un ridicolo cravattino color zaffiro con un logo bellissimo ma indecifrabile.

«Se hai bisogno di qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.» Sollevò indice e medio in segno di vittoria, strizzò gli occhi e chinò la testa di lato. Sembrava proprio uscita da un cartone animato.

Le mani di Adam fremettero e gli occhi gli si inumidirono di rabbia.

Promise a se stesso che l'avrebbe fatta soffrire, almeno la metà di quanto aveva già sofferto lui.

Promise a se stesso che non le avrebbe lasciato scampo, che l'avrebbe fatta dannare, che l'avrebbe rovinata, le avrebbe rubato quella bellezza immeritata, quell'allure da fata.

Ma l'odio è una forza che si esaurisce, affoga nel suo rimuginio, è solo un verme che si morde la coda. Quelle promesse gli si ritorsero contro. Una dopo l'altra.

Adam entrò in cucina e li trovò già tutti ben allineati, come se il regista, dopo averli fatti sedere, avesse già iniziato le riprese.

"Splendido" sbuffò. "Che la farsa abbia inizio. Ciak, si gira!"

Sua madre aveva un due pezzi rosa cipria e una vistosa collana di perle mentre suo padre leggeva il giornale dal tablet in giacca e cravatta. La sorella, vestita come la sera prima, beveva uno yogurt vegetale arricchito di probiotici e messaggiava con la mano libera al cellulare.

«Buongiorno, campione!»

Il signor Connor non alzò nemmeno il capo dall'articolo in cui era incappato, qualcosa riguardo banche e risorse, crisi finanziaria e prognostici infausti.

Un altro aspetto che odiava, i nomignoli. Lui era "campione", Candy Candy "principessa", la moglie "tesoro" o "dolcezza", a seconda delle occasioni.

«Biscotti o pancake?» gli chiese distratta la madre. Gli versò una generosa tazza di caffè iper-zuccherato.

Adam non rispose e nessuno si curò di preoccuparsene.

Una doppia porzione di dolce con abbondante sciroppo d'agave e una spolveratina di cannella gli venne servita su un piattino di porcellana col bordo merlettato.

«A che ora hai la visita? Vuoi che qualcuno di noi ti accompagni?» domandò il padre sfogliando veloce le ultime pagine.

«No, vado da solo, dopo lezione» borbottò. Non aveva fame.

«E tu, principessa, impegni per la giornata?» interrogò la figlia.

«Dritta in ufficio e poi esco con le amiche! Andiamo a far compere!»

La madre approvò con un cenno di assenso. Non si era ancora seduta, ronzava frenetica per la cucina alla ricerca di qualcosa da fare o da sistemare. «Anzi, sono già in ritardo! Buona giornata, famiglia! Buona giornata, fratellino! Chiamami se hai bisogno.» Un secondo casto bacio sulla fronte, questa volta con lo sgradevole alito provocato dal beverone indigesto.

«Io non ci sono per pranzo, tesoro, ci vediamo stasera a cena.» Il signor Connor la imitò, si alzò, ripose il tablet nella valigetta e andò ad abbracciare la moglie, che per un qualche secondo interruppe il suo inutile affaccendarsi.

«A stasera, amore mio.»

«Adam, non prendere gli ascensori comuni, sono pericolosi.» Lo avvertì l'uomo prima di varcare l'uscio.

Il giovane ghignò tra sé e sé. «Prenderò i corridoi, allora.»

Entrambi i genitori trasalirono. Entrambi si guardarono di sottecchi, prima di scegliere la strategia da attuare.

Ribellione adolescenziale, una battuta di pessimo gusto. "Prendere i corridoi" significava viaggiare all'interno dell'arca con comuni mezzi di trasporto, come navicelle o pedane mobili. Poteva significare addirittura andare a piedi.

I corridoi erano utilizzati dai piani bassi e inferiori, nessuno dei piani alti avrebbe mai voluto scendere, nessuno aveva bisogno di allontanarsi troppo dalle proprie abitazioni. Quindi gli ascensori privati andavano più che bene. Di solito erano pure sorvegliati da telecamere a circuito chiuso e da vigilanti addestrati in Accademia, addetti per lo più a schiacciare pulsanti e ad avvisare la manutenzione in caso di guasti o malfunzionamenti.

«Non farmi preoccupare, campione. Fai il bravo. A stasera!»

La porta si chiuse in automatico a doppia mandata.

Erano rimasti in due in cucina. L'aria si fece pesante.

Annabelle gli dava la schiena, stava riallineando le posate per la terza volta.

«Vado anch'io.» La colazione era intonsa, così come il caffè. Lui lo preferiva amaro.

«Certo, certo! Buona lezione!» C'era sollievo nel suo tono di voce, non sopportava di rimanere troppo a lungo da sola con lui. Non sapeva mai come gestirlo.

Adam pensò di dirglielo, in quel momento, dire una frase che non aveva mai detto a nessuno, nemmeno alla dolce e stucchevole Candy Candy.

Ti voglio bene, mamma.

Quattro parole, così facili che le avrebbe potute pronunciare anche un bambino di due anni.

Ma era vero? Le voleva davvero bene? Cosa voleva da lei?

Si alzò in silenzio dalla sedia, la riposizionò contro il tavolo, con lo schienale ben aderente alla tovaglia di cotone a fiori.

«Adam!»

La madre lo richiamò quando aveva già la mano sulla maniglia.

Si voltò con un sopracciglio inarcato, stupito, con il cuore in gola.

«Lo zaino.» Gli indicò una borsa che era stata preparata con cura. Sua madre aveva studiato di nascosto il calendario didattico, dentro c'erano i libri che gli sarebbero serviti quel giorno, un quaderno nuovo a righe sottili, un astuccio azzurro e i soldi per il pranzo.

«Grazie, mamma.» Lo raccolse con la mascella serrata.

Appena si fu avviato lungo i corridoi, in una zona isolata, lontano da occhi indiscreti e videocamere, lo gettò nel pattume.

Non aveva alcuna intenzione di tornare a casa.





Il monolocale di Mimì si trovava ben oltre le lavanderie, era posizionato tra i motori e il sistema di refrigeramento. Di solito quegli appartamenti erano occupati dagli operai e dalle loro famiglie. Mimì non lavorava in nessuno dei due impianti. Ma lavorava comunque per loro.

Entrare in camera sua era come viaggiare in un'altra dimensione. Non possedeva un letto, ma un futon che poggiava su un pavimento rivestito di tappeti porpora e oro. I muri di cemento erano ricoperti da tende, arazzi e flebili lucine appese a fili elettrici. C'erano almeno mille cuscini spumosi sparsi ovunque, alcuni avevano colori sgargianti e motivi orientaleggianti, altri fantasie etniche di culture dimenticate. Memorie di un passato perduto per sempre.

La ragazza dai capelli turchini giaceva su un fianco. Con la guancia sostenuta dal gomito reclinato, controllava le notifiche sul cellulare. Nuovi clienti, appuntamenti che si sovrapponevano, buchi liberi per farsi una doccia o almeno uscire a sgranchirsi le gambe.

Ad Adam rimanevano solo una manciata di minuti. Tra poco lei l'avrebbe cacciato.

«Oggi farò una follia» irruppe dal nulla.

Le siringhe che avevano utilizzato gocciolavano tra le coperte. Droghe, psicofarmaci potenti che gli prescrivevano i dottori e che lui condivideva, in dosi molto più massicce, con lei.

Quella di Mimì si distingueva perché era quasi pulita, quella dell'Umano invece gocciolava sangue scarlatto sulle lenzuola dello stesso colore. Non sarebbe mai più venuto via.

Anche lui era steso al suo fianco, nudo dalla cintola in su, con la schiena appoggiata al freddo muro retrostante. Avevano usato delle protezioni. Con sua sorella non le utilizzava mai. Per Candy Candy lui era l'unico amante, per Mimì era solo uno dei tanti.

«E dove sarebbe la novità?» Non si era scomodata a voltarsi, continuava a tamburellare sul palmare.

«Oh, questa follia ti piacerà!» La baciò sulla spalla, per richiamarne l'attenzione.

Lei rise e si girò per accoccolarsi sul suo petto.

«Racconta, folle Umano del mio cuore! Cosa tramano i tuoi demoni interiori stavolta?» lo irrise.

«Una battaglia!»

«Addirittura? Mio prode cavaliere, senza macchia e senza paura, chi volete combattere? La vostra dolce sorellina? O quei tutori di plastica che vi hanno affibbiato?»

«Oh, non combatterei mai per loro, mia spietata regina. Per te. Oggi io combatterò per te

Il sorriso si spense come si spegne la fiamma di una candelina di compleanno, quando un bambino ci soffia sopra esprimendo un desiderio ingenuo quanto irrealizzabile.

«Ma che dici?»

Aveva gli occhi castani, Mimì, e una leggera spruzzata di lentiggini brune sul naso e sulle gote.

«Mi sono iscritto a un combattimento clandestino. Ventimila gettoni d'oro, questo è il tuo prezzo, mia somma regina.» Rise di gusto, proprio come un giullare.

La ragazza si sedette impietrita, col fiato spezzato e la pelle d'oca. Non gradiva per nulla quell'intrattenimento. Si augurò che fosse solo un gioco.

«Ma di che cazzo stai parlando?»

Adam l'afferrò per la vita, facendola trasalire. «Ormai è fatta Micol. Se vinco, sarai mia. Ti condurrò via da qui, solo io e te, per il resto dei nostri giorni. Non sarei più costretta a prostituirti, ingerire a forza lo sperma di mille sconosciuti, farti la doccia dieci volte al giorno e sottoporti a tutti quei controlli medici ogni settimana. Staremo insieme. Noi due. E vissero per sempre felici e contenti, proprio come nelle fiabe!» cantilenò. Le folli pupille erano così dilatate che le fecero paura.

Lei si divincolò, aveva le lacrime agli occhi. «Tu sei fuori di testa! Questo è il mio lavoro, nessuno mi costringe! Ma che ti è saltato in mente? Devi annullare l'incontro... tu... tu potresti...»

«Non mentirmi, Mimì, non fingere di non volerlo...»

«No, non lo voglio! Non lo voglio, Adam, non te l'ho mai chiesto! Ma chi ti credi di essere? Un prode principe azzurro che viene a salvarmi sul suo bel cavallo bianco? Io sono una puttana, Adam, non una principessina come tua sorella. Ti è sempre andato bene, no? Cos'è cambiato? Perché questo stupido piano all'improvviso?» Isterica e scarmigliata, lo schiaffeggiò con forza, come se potesse rianimarlo, farlo tornare in sé. Ma lui continuava a ridere d'insolenza e avventatezza.

«Sei preoccupata, amore mio?»

«Ti ammazzeranno, Adam! Tu sei Umano! Loro sono Titans! La maggior parte degli iscritti a queste sfide sono ex-studenti dell'Accademia. Ci sono di mezzo le guardie! Gente addestrata, non borghesucci che si puliscono il culo con la bambagia come te.»

Il giovane le afferrò entrambi i polsi con una sola mano. «È questo che pensi di me? Che io sia uno di loro? Tu sai che non è così, tu sai cosa io...»

«Io so che tu sei pazzo!» strillò lei con le efelidi umide e scintillanti. «Pazzo! Sei uscito di senno. Io non ti amo. E nemmeno tu mi ami. Perché questo sacrificio inutile? Perché?!»

Adam la lasciò andare, si sollevò in piedi e cercò tra i cuscini la camicia con la quale era venuto. Avrebbe combattuto così, jeans firmati e camicia da universitario dal taglio semplice e lineare. Ai piedi calzava delle scarpe sportive all'ultima moda, ma immaginò che se le dovesse togliere, sul ring.

Nulla aveva più senso, ormai.

«Adam!» Mimì lo afferrò da dietro, cingendogli i fianchi con le braccia magre. «Ti prego... non farlo. Non per me.»

Piangeva come una bambina. Lo fece sentire un cane.

«Non lo faccio per te, mia regina. Oggi ho saltato una visita medica.»

Lei sussultò e indietreggiò sconvolta, come se l'avesse minacciata. «C-cosa?»

«Tranquilla, inizieranno a cercarmi dai piani alti, ci metteranno qualche ora a venire fin quaggiù. E nel frattempo, io avrò in tasca i soldi o la grazia.»

L'ultimo bottone era stato allacciato, si infilò il tessuto nei pantaloni e recuperò le scarpe vicino alla porta d'ingresso, muto.

«P-perché?»

Non l'avrebbe fermato, non più. Quanto valeva la vita di una prostituta sull'arca? Molto meno di ventimila gettoni.

Adam aveva messo in moto una macchina pericolosa, che non badava a niente e nessuno pur di ottenere ciò che desiderava. Micol non aveva strumenti per affrontarla e rimanere invischiata avrebbe significato anche per lei morte certa. C'erano di mezzo gli Anziani, i loro ordini supremi, la loro giurisdizione. Adam non apparteneva a se stesso come non apparteneva ai suoi genitori.

Adam era un capitale umano. Adam era il patrimonio dell'umanità.

«Sono stanco. Non ce la faccio più.»

Avrebbe voluto abbracciarla un'ultima volta, chinare la testa contro la sua fronte, piangere fino a sentirsi male, farsi accarezzare, farsi regalare almeno un bacio d'addio...

Ma le sue dichiarazioni gli rimbombavano ancora nei timpani.

Io non ti amo. E nemmeno tu mi ami.

Davvero era solo l'amore in grado di muovere il sole e le stelle?

No. Anche l'odio riusciva a compiere sforzi enormi. Lui ne era la prova vivente.

«Adam...»

«Ci si vede in giro, Mimì.» Un'altra bugia, non era mai stato un uomo d'onore. Non era nemmeno un uomo, in fin dei conti.

Solo quando uscì in corridoio, tirò un sospiro dolente.

Si augurò con tutto il suo cuore che lei non lo denunciasse.





Il suo avversario era alto due metri, pesava centoventi chili, aveva una mandibola squadrata, il cranio rasato e due occhi sottili affetti da un leggero strabismo. Una brutta cicatrice argentea gli attraversava il naso in perpendicolare.

Era stato espulso dall'Accademia per furto aggravato.

"Di merendine" sogghignò tra sé e sé.

Era il terzo che si trovava di fronte, gli altri due li aveva battuti con facilità. Ma il suo corpo accusava il colpo, gli era partito un dente, aveva una costola incrinata e il sangue sgorgava copioso da un lobo di un orecchio. Qualcosa all'interno si era frantumato, udiva un ronzio sinistro in sottofondo. Non era del tutto spiacevole però, una bella colonna sonora per un finale d'effetto.

"Comunque mille volte meglio di una visita medica."

«I prossimi a sfidarsi saranno Joan e Dima. Mi raccomando, ragazzi, siete in finale. Non vogliamo un gioco pulito, qua. Vogliamo una lotta all'ultima goccia di sangue» ironizzò l'annunciatore.

Qualcuno commentò che l'Umano soddisfaceva ogni aspettativa. Era zuppo, da capo a piedi.

La camicia strappata, i piedi scalzi, i capelli neri madidi di sudore appiccicati alla fronte.

Joan però non sorrideva, non aveva l'aria arrogante, non era deluso dal suo avversario, sembrava solo pensieroso.

Quando Adam gli tese la mano, la stretta amichevole che avrebbe dichiarato l'inizio dell'incontro, rimase immobile, non ricambiò.

«Che ti prende, bestione? Datti una mossa!» lo spronò brusco qualcuno al di fuori del ring.

Ma Joan non aveva occhi che per lui, era come se gli stesse leggendo dentro.

Non voleva combattere.

Adam lo comprese, non era una brutta persona. Era solo uno dei tanti disperati che tiravano a campare. Non possedeva nemmeno un cognome.

«È uno scontro iniquo. Sono il doppio di lui, rischio di...»

L'annunciatore gli puntò contro la pistola a salve, spazientito. «Tu non fai le leggi, tu combatti. Zitto e muto, nessuno ha chiesto la tua cazzo di opinioni. Lo vedi il tuo avversario? Ci sono manette ai suoi polsi? Qualcuno lo sta obbligando? Ehi, gente, qualcuno sta forzando il piccoletto qua a combattere?»

Un boato si diffuse nella palestra abbandonata. Occhi famelici inneggiavano lo scontro. Avevano tutti scommesso ben più dello stipendio mensile.

Il luogo era tra i più desolanti che avrebbero potuto trovare. Buio, freddo, con travi e cavi esposti, privo di oblò o finestre. Si accedeva da un corridoio stretto, occultato da un pannello di legno con un cartello che avvisava a caratteri cubitali che l'accesso era vietato.

Al centro della sala spoglia, avevano posizionato una pedana rialzata e l'avevano recintata con quattro paletti malconci e una banalissima corda che disegnava un perimetro scarso di quattro metri per quattro.

«Ma io...»

L'annunciatore sparò un colpo in aria. L'atmosfera si tese e la folla si zittì.

«Ti vuoi ritirare, eh? Hai paura? Io ci scommetto tutto ciò che ho: non ti hanno cacciato dall'Accademia per furto, ma per codardia.» Adam doveva affrettare i tempi. Il suo orologio ticchettava, tra poco lo sarebbero venuti a prendere.

Tutte le pupille si diressero spaesate nella sua direzione.

«Tu sei pazzo» commentò il gigante.

«E tu sei un aborto umano, uno scarto della società. Tutti lo sappiamo che l'Accademia raccoglie la merda dei bassifondi, venire liquidati da loro vuol dire non contare veramente più nulla.» Joan trasalì. «Che lavoro faceva tua madre? La puttana? E tuo padre era un orco o un goblin?» La risata nervosa gli graffiò la gola.

L'avversario strizzò gli occhi e non rispose.

«Io vi disprezzo, luridi Titans. Voi non avete idea di cosa significhi soffrire, di cosa significhi il dolore, di quanto male faccia guarire. Voi avete distrutto il vecchio mondo e ora inzozzate l'arca, vi riproducete come conigli e prolificate come roditori. Mi fate ribrezzo. Avreste dovuto essere voi a perire, non noi Umani. Il sacrificio doveva essere vostro! Uno sterminio di massa, ecco cosa meritavate. La fine di una generazione marcia fino al midollo osseo.»

C'era ancora silenzio, nessuno osava parlare, erano tutti così sconcertati che le parole non sarebbero bastate e avevano paura di perdersi le prossime imprecazioni dell'Umano.

Desideravano vedere dove volesse andare a parare.

«Joan, figlio di una cagna, senza palle e senza cognome, combatti come non hai mai combattuto prima d'ora. Perché solo questo sai fare» cantilenò.

La goccia fece traboccare il vaso. Se c'era una cosa in cui Adam era imbattibile, quella era provocare.

Schivò i primi due colpi, affondò un sinistro sul mento, ma fu come picchiare le nocche contro il cemento armato.

Il pugno del senza cognome lo colpì al basso ventre, piegandolo a metà. Provò a ritrarsi ma la vista si annebbiò, cadde dall'alto una fitta nebbia grigiolina.

Sorrise estasiato quando si rese conto di essere spacciato.

Non si poteva vincere un combattimento alla cieca.

Un cazzotto lo centrò sulla guancia sinistra.

Cadendo batté la testa sul tappeto con una violenza tale che perse subito i sensi. Il cranio si squarciò e il sistema nervoso si spense come fosse dotato d'un interruttore.

Non ebbe nemmeno il tempo di formulare una preghiera, una confessione, di rivangare un ricordo dolce e uno doloroso.

Niente di niente.

Un lago di sangue coronò il suo corpo.

Quando arrivarono le guardie, in molti pensarono fosse già morto.


E dopo questo squarcio sulla vita di Adam... ho deciso di mettere il tag per adulti. Lo so, è un capitolo un po' forte, quasi provocatorio, come il nostro Adam. Di lui abbiamo capito che cerca sollievo nel sesso e nelle droghe per sedare un male di cui nessuno si cura. E che ha un terrore viscerale per le "visite mediche". Un terrore così cocente che lo porterà a prendere una decisione estrema.

Adam è un personaggio contorto e ingarbugliato. Fisicamente più forte di come appare, emotivamente più fragile di come sembra.

Ha senso?

Non lo so. A voi è arrivato?

Ci sarà un altro capitolo a lui dedicato. E indovinate un po'? Lì scopriremo i suoi demoni. Questo è stato solo un assaggio.

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