14. Amare verità
Hans entrò nella capanna di Aniruddha senza bussare.
Trasalì quando seduto al tavolino, davanti alla scacchiera, vi trovò Xavier al posto dell'Anziano.
Stava per fare dietro-front ma quello aveva già alzato lo sguardo. Un ghigno canzonatorio si piegò sul lato destro del suo volto. Spostò con indolenza una pedina e si sgranchì la voce prima di parlare.
«Puoi restare, non mordo mica.»
Non era la prima volta che sentiva quella battuta. Chissà se Xavier si ricordava di avergliela già fatta un paio di volte all'Accademia. In una di quelle occasioni Hans si era rovesciato del tè bollente sui pantaloni. In entrambe non aveva saputo cosa rispondere.
Quel collega l'aveva sempre messo a disagio, sapeva di non essergli simpatico, anzi, era certo che lui lo detestasse. La soluzione era stata l'evitamento, protratto nel tempo, ripetuto con solerzia, unica arma a sua disposizione.
Ma come faceva a evitarlo ora? Il villaggio era troppo piccolo, vi stavano stretti, prigionieri in una cella a cielo aperto nel bel mezzo di una fitta foresta, sopravvissuti alle avversità più disparate, indeboliti da un passato che incombeva sulle loro schiene, insieme a mille rimorsi, mille rimpianti.
«Prendi una sedia.»
Ubbidì con lentezza, senza fiatare.
Xavier stava giocando a dama da solo, con un cenno gli chiese di prender parte alla partita, di impersonificare le pedine bianche, dall'altro lato del tavolo, quelle che stavano vincendo, almeno per il momento.
«L'Anziano è andato a visitare Adam, la costola sembra si sia riassestata, era meno grave di quanto credessimo, in fin dei conti.» C'era acredine nel suo tono, non levò gli occhi scuri nella sua direzione e anche Hans tenne chine le sue iridi dorate.
Con le dita pesanti spostò una pedina che nelle due mosse successive venne mangiata.
Xavier sbuffò annoiato. «Così mi farai vincere.»
L'altro arrossì fino alla radice dei capelli, balbettò qualcosa di incomprensibile, si zittì mortificato.
«Poteva morire.»
Il professore poggiò le mani sulle gambe ossute e si rannicchiò in se stesso. Se quello era l'aspetto di un vice-comandante, faceva piuttosto pena. Dov'era Ulrik, con la sua presenza massiccia, il suo sguardo inclemente e severo, quella rigidità nei lineamenti facciali che solo in rare occasioni avevano vacillato?
Ancora ricordava quel fatidico giorno, quando si era accasciato ai piedi di un albero come un ragazzo qualunque.
"Hans, prendi tu il comando."
Quegli occhi azzurri così inermi, così spenti, così dolci
«Mi stai ascoltando?» Xavier aveva aggiunto qualcos'altro, recriminazioni probabilmente.
«No», rispose sincero, non aveva udito nulla.
L'altro scoppiò a ridere
«Viva l'onestà!» Buttò il capo all'indietro e con un moto d'impazienza getto tutte le pedine di lato, annullando la partita.
«Voi ci nascondete qualcosa.»
Hans s'ingobbì ancor di più nella sua posa fanciullesca.
Tante cose. Troppe cose. Certo che gliele tenevano nascoste, era stato un ordine dei tre comandanti.
Come avrebbero reagito, se avessero saputo? Avevano fatto fatica pure loro a convivere con quel peso, la certezza che la loro razza, sospesa nell'Universo, fosse destinata a un'irreparabile estinzione, che tutto il futuro dipendeva da loro, solo e unicamente da loro.
Perché Ulrik si era dato tanto peso nel ritrovarli, restando fuori in missione per settimane e settimane durante quei tre estenuanti mesi? Perché nessuno osava contrastare Evangeline, il suo potere esoterico, la sua brama, il nuovo ruolo di cui si era auto-investita?
«Rispondimi!» gli gridò contro, il viso sfigurato dalla rabbia.
La scacchiera ricadde sul pavimento di legno, qualche pedina si scheggiò, altre rotolarono sotto al tavolo e al letto accatastato nell'angolo buio della camera.
Solo allora osò guardarlo dritto in faccia. Non si vergognava della commozione, del naso che prudeva, degli occhiali storti che pendevano sul naso troppo dritto per sostenerli.
"Prendi tu il comando."
Alcune scelte, alcune situazioni, alcuni eventi non avevano un effetto immediato, ma a lungo raggio. Lui sentiva che quel ricordo rimbombava ancora nel suo corpo, nelle sinapsi del suo cervello. Ciò che aveva provato quel giorno, ciò che l'aveva fatto piangere, ciò che aveva temuto...
«Eva ci ha salvati più di una volta.» Un tono fermo e deciso, quasi volesse imitare proprio quello dell'Umana, assumerne la postura e la voce, imitarne le sembianze.
Perfino Xavier ne rimase scombussolato.
«Le dobbiamo la vita.» Era la verità. Le dovevano la vita perché nessuno di loro sarebbe sopravvissuto senza Ulrik. Nessuno di loro, ma lui in particolar modo.
L'ex-professore scosse la testa, con mal grazia iniziò a raccogliere alla rinfusa ciò che aveva gettato all'aria in preda al nervoso.
«Io ve lo dicevo all'Accademia. I ragazzi non sanno fare squadra. Sono come cani randagi, si azzannano per un po' di attenzioni, per un po' d'affetto, per un po' d'amore.» Buttò qualche pezzo sul tavolo, si arrotolò le maniche della camicia e tornò a stravaccarsi sulla sedia. Lo osservò come fosse la prima volta che lo vedesse per davvero.
Fu necessario molto coraggio ad Hans per sorreggere quello sguardo.
«Avremmo dovuto insegnare loro a fare squadra, meno competizione e più collaborazione» continuò. «Si inizia sui banchi di scuola. Sarebbe tutto dovuto partire da noi professori, dai nostri metodi d'insegnamento e di valutazione. Più lavori di gruppo, rinforzare maggiormente quelle personalità che si mostravano leali e supportive verso i compagni, i comportamenti pro-sociali, premiare l'onestà, la lealtà, il sostegno e l'aiuto reciproco. Mostrarci noi stessi come modelli di questi valori, costringerli a imitarci, nei comportamenti, negli atteggiamenti, nel modo di approcciarci a loro e tra noi, nel collegio docenti.»
Hans non rispose.
«Ma a te che te ne importa, giusto? Tu eri felice tra i tuoi libri e le tue pubblicazioni. Non te n'è mai fregato nulla delle tue classi. Eri lì solo per te stesso» Tamburellò un dischetto di legno sul bordo del tavolo al ritmo di una vecchia canzone che da quel mattino cercava disperata di alleggerire il peso che gravava sulla sua mente.
«È tutto quello che hai da dirmi?» Lo sorprese di nuovo, con un tono calmo e pacato, nessun balbettio, nessun sussurro impaurito.
«Sì, è tutto quello che ho da dirti, professore» lo provocò. Poi provò vergogna. Forse Adam lo stava contagiando.
Si alzò dalla sedia e, ignorando il disastro che aveva causato, uscì dalla casa dell'Anziano Aniruddha.
Il sole quel mattino era nascosto da spesse nubi di un grigio vivido.
Da lì a poco sarebbe cambiato tutto, non avrebbe mai più guardato il cielo con quella speranza, quella leggerezza accorata, quella ricerca spasmodica di luce, di casa.
Il cielo non sarebbe mai più stato casa sua.
Ma Xavier ancora non sapeva nulla. Con una mano si parò gli occhi da quei radi raggi violenti che filtravano tra le spesse nuvole, fissò un punto in alto, col naso aquilino rivolto verso l'orizzonte. Pregò per Antoine, per la sua vita, per il suo futuro. Pregò affinché lo dimenticasse, affinché si lasciasse il loro matrimonio alle spalle. Sull'arca era vietato pregare, ma Xavier non aveva mai dimenticato l'antico credo dei suoi antenati.
E comunque lì non erano più sull'arca.
Ora era libero di credere in ciò che voleva.
❈
La trovò ricurva su un cesto di patate, le mani screziate dal coltellino, i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca. Il collo scoperto era più pallido che mai, screziato da vene verdastre e cicatrici argentate, le scapole bucavano la maglietta, la mascella serrata irrigidiva tutti i lineamenti del suo volto fine.
Gli strappò il cuore vederla così. Era stata così bella, così luminosa, un tempo, così piena di salute, di vitalità, di entusiasmo.
«Non sei obbligata a lavorare. Aniruddha ha detto che dovresti riposarti, approfittane! Gettoni gratuiti per una settimana, come minimo. Fossi in te coglierei la palla al balzo, ti stuferai presto dei turni qua al villaggio.» Tomas si era accovacciato a fianco a lei, in bilico sulla punta dei piedi, con i gomiti sulle ginocchia e un sorriso sghembo indossato come un portafortuna.
«Il lavoro rende liberi» borbottò lei, senza nemmeno levare il capo.
«Gli Antichi l'avevano scritto all'ingresso di un campo di concentramento» commentò acido e cercò invano il suo sguardo.
Lei non gli rispose.
«Potresti trasferirti da noi, sai? Abbiamo posto! Manderemmo via volentieri Xavier, russa come un maiale!»
Questa volta alla pilota sfuggì una lieve smorfia. «È la proposta più inappropriata che tu potessi farmi.»
Era vero, per la guerriera. Il giovane anarchico l'aveva intuito, eppure desiderava ancora alleviare il suo malumore, confortarla, trovare un modo per guarire quel dolore che nonostante la distanza risuonava ancora dentro di lui.
«Ti ho gridato delle cose orribili, dovresti essere arrabbiato con me.» Summer gli leggeva ancora dentro, come aveva sempre fatto.
Il ladro le sorrise. «Ci ho fatto il callo, sai? Qua tutti se la prendono sempre e solo con me. Ulrik non mi da tregua, è il peggiore di tutti. Mi sta col fiato sul collo, soprattutto da quando sto con Shani...» Altro tasto dolente. Non riusciva a non toccarne nessuno. «Ma anche Hans è insopportabile. Mi devo nascondere da entrambi. E lo spazio è ristretto, è difficile sfuggirgli!»
Summer gettò la patata nel cesto e ne prese un'altra. La pila di quelle sbucciate dimostrava che il lavoro veniva svolto dall'alba. Presto non avrebbe avuto più nulla da fare e si sarebbe andata a cercare un altro impiego per occupare il tempo, renderlo proficuo.
Niente riposo, niente pianti, nessuna lamentela.
Erano passate quarantotto ore e lei non aveva ancora fatto una piega. Non rivolgeva la parola a nessuno, si muoveva e agiva come un automa, rispondeva a monosillabi, evitava gli sguardi, le voci, le persone.
Kuran era troppo vile per andarle a parlare, per costringerla a chiarire.
Se n'era rimasto in disparte, come sempre.
«Parlami, ti prego.» Le strinse il polso. Era così sottile che la sua mano l'avvolse totalmente, avrebbe potuto spezzarlo come un ramo secco, se avesse usato troppa forza. Le sollevò il mento con le dita deturpate, incontrò le sue pupille, la costrinse a reagire.
Non poteva permettere che vivesse in quel modo, che soffrisse in quel modo. Non poteva vederla crollare senza far nulla.
Summer rifletté qualche istante prima di decidersi a parlare. Il peso della sua confessione era superiore a quello del suo corpo. Liberarsene però fu un sollievo.
«Ero incinta.»
Tomas perse l'equilibrio, scivolò a carponi, si trovò in ginocchio davanti a lei, che era ancora seduta sullo sgabello. Lo guardava dall'altro al basso, con gli occhi vitrei, spenti, inanimati.
I tuberi erano terminati, teneva l'ultimo stretto in pugno. Viscido, pallido, aveva un profumo acerbo, una consistenza dura e fragile allo stesso tempo.
Si rigirò il coltello tra le mani, tornò ad abbassare il capo sullo sterno.
Il ragazzo si sentì così immaturo, così bambino al suo cospetto, gli sembrò impossibile aver condiviso tanta intimità con lei, esserle stato amico. Erano ai due poli opposti. Non sapeva come reagire, cosa replicare. In un attimo di follia si chiese se non fosse il caso di chiamare Ulrik. O meglio Hans. Forse anche Eva poteva esserle utile, lei sapeva sempre cosa dire, con le sue frasi emblematiche, quegli aforismi sibillini che andavano bene in tutte le occasioni.
"Non dovrei essere qua" si ritrovò a pensare.
E nello stesso istante una domanda prese forma nella sua mente, una domanda così vorace e intensa che probabilmente si manifestò in ogni piega del suo volto sconvolto. Perché Summer quando levò lo sguardo, rispose subito: «Lui non ne sa ancora nulla.»
E così Tomas le rivelò tutto, dall'inizio alla fine.
Le vomitò addosso ogni verità, riguardo la loro ultima missione, la breve conversazione con gli Anziani, l'aberrante rivelazione che gli avevano offerto senza nemmeno la possibilità di controbattere, interrogarli, approfondire, chiedere spiegazioni.
Le rivelò tutto e mentre lo faceva, guardandola impallidire ancor più di quanto già non fosse, vedendo che tremava, sudava freddo e faticava a respirare, che si portava una mano al petto e poi alla gola, si rese conto che la sua fosse stata la decisione più folle e brutale mai presa prima d'allora.
Peggio ancora di quando l'aveva abbandonata, quando aveva deciso di indossare un'antiquata tuta spaziale per cercare di "rubare" le parabole, come avevano riportato i cronisti.
Ma non seppe farne a meno. Non provò alcun pentimento, alcun senso di colpa.
Lei merita tutta la verità, merita di soffrire una volta sola, per tutta la vita. Lei merita che io sia sincero. E io non posso darle nient'altro. Nient'altro se non tutto questo orrore.
❈
Alla ventesima flessione Shani mangiò la polvere, letteralmente. Si sedette sui talloni e si pulì la bocca con le braccia fradice di sudore. Terra e sale si mischiarono sulle sue labbra, odore acre di fatica e sforzi vani. Si doveva allenare di più, Rik aveva ragione. Stava perdendo tonicità, forza muscolare.
Riprese d'accapo, ostinata e intransigente, contando da cinquanta a uno, sicura di potercela fare, di poter tornare alla forma di prima. Disciplina, controllo, dedizione e...
Concentrazione.
Balzò in piedi frustrata e gli scagliò contro un sasso. I riflessi di Kuran furono lenti, troppo, lo schivò a fatica, ne fu così sorpreso che barcollò e per poco non inciampò nei suoi stessi piedi.
«La smetti di spiarmi? Se vuoi allenarti, allenati e basta. Sei inquietante!» Non ce l'aveva con lui, ma con se stessa, perché non stava facendo progressi, perché la prossima volta che avesse combattuto corpo a corpo con Rik, sarebbe andata ancora peggio della precedente.
Era sempre così stanca... Forse era perché Tomas non la lasciava dormire a sufficienza.
«Me ne vado subito.» Il suo tono freddo e ostile la rabbonì.
Gli afferrò una manica della giacca, lo costrinse a voltarsi. Era venuto a raccogliere le balestre per apportare delle migliorie alla struttura in legno. Voleva renderle più resistenti, con una gittata più lunga e potente.
«Scusa, non volevo. Sono di pessimo umore stamattina.»
Occhi corvini, sottili e allungati, di una luminosità spiazzante eppure così scuri, tenebrosi, impenetrabili.
Lei si lamentava del suo risveglio storto quando lui stava sicuramente passando le pene dell'inferno. A causa sua.
Un nodo di sensi di colpa le serrò il ventre provocandole un crampo dolorifico e un conato di vomito che a fatica riuscì a contenere.
«Hai provato a parlarle?» Shani non possedeva mezze misure. Stare insieme a Tomas le aveva tolto quel poco di riserbo che possedeva. Senza filtri, aperta, fresca e limpida come una fonte di montagna.
Si aspettava silenzio, un gesto di stizza, forse un mutamento nel colorito, una risposta secca, pronunciata a bassa voce.
Non si aspettava che lui si voltasse, gettando a terra ciò che era venuto a prendere, come se non avesse più alcuna importanza.
Non si aspettava di vederselo di fronte, faccia a faccia, loro due soli, come non accadeva da parecchio tempo.
Non si aspettava che lui la guardasse in quel modo, come se le volesse scavare dentro.
Arrabbiato e deciso, le sopracciglia scure inarcate, una vena violacea che pulsava sulla tempia destra, la schiena dritta e le spalle aperte.
Alla guerriera mancò il respiro.
«E cosa avrei dovuto dirle?»
Indietreggiò turbata. Lui fu più rapido, la trattenne a sé, azzerò la distanza, la strinse contro il suo petto.
Non era mai più stati così vicini, non erano mai più stati così vicini da quando...
La ragazza si liberò con forza, un allontanamento violento a cui Kuran rispose con la stessa arroganza, riafferrandola stavolta per le braccia.
«Cosa dovrei dirle, Shani?!»
Non voleva fargli del male, non voleva combattere contro di lui, rischiare di ferirlo. Nonostante fosse fuori forma, era molto più forte, molto più avventata. La verità era che si allenava con Ulrik perché aveva poca cognizione. Avrebbe potuto allontanare Kuran con un calcio nei coglioni, una gomitata nel ventre, afferrargli l'avambraccio, far leva sul suo corpo, scaraventarlo alle spalle, stenderlo al suolo torcendogli l'arto dietro la schiena.
C'erano anche metodi più rapidi, più dolorosi, aveva un coltellino negli stivali, un pugnale appeso alla cintura.
Soppesò l'idea di uno schiaffo ben assestato, un pugno in bocca o su un orecchio.
Ma no, non voleva fargli male.
Si avvicinò a lui, constatò perplessa quanto le sue pupille riuscissero a dilatarsi nel nero intenso delle iridi. Rapida coi piedi, prima che lui se ne accorgesse, gli fece lo sgambetto, accompagnò il gesto con una spinta lieve della mano aperta, in modo che la caduta non potesse in alcun modo essere frenata.
Ovviamente si divincolò dalla sua presa e rimase ritta davanti a lui, il respiro pesante, non per averlo disarcionato, ma per le domande che lui le aveva rivolto.
Non le aveva comprese. O forse sì, forse le aveva comprese benissimo e iniziava a temerle.
A temere lui.
«Dille che ti dispiace. Dai la colpa a me. Dille che ti ho sedotto, che ti ho provocato, dille che hai ceduto perché ero troppo assillante, perché pensavi di non rivederla mai più. Dille ciò che serve per farla tornare da te, per farti perdonare. Dille che sei uno stronzo, dille che la ami, che l'hai sempre amata, che non l'hai mai dimenticata, che hai sempre pensato a lei, anche quando credevi non ci fossero più speranze.»
Kuran rimase semi-sdraiato sul selciato polveroso. Il clima era rigido, il vento freddo e ostile.
Le sue pupille la supplicarono, due lacrime scivolarono di lato solcando gli zigomi affusolati.
«Mi stai dicendo di mentirle.»
Shani trasalì. Aveva i brividi, il sudore freddo le stava ghiacciando la pelle, il gelo penetrò fin dentro le ossa, nei suoi organi vitali, nel suo cuore.
«Non è una menzogna.»
«Sì che la è, Shani. È una menzogna.»
«Ti prego, Kuran...» Si allontanò ancora, scuotendo la testa.
Era un incubo, questa non ci voleva, stava andando tutto così bene. Si era illusa. L'aveva notato, sì, certo che l'aveva notato, gli sguardi di sbieco, si sentiva sempre osservata, anche quando era con Tomas, soprattutto quando era con lui.
Aveva tentato di non darci peso, di lasciarsi scorrere addosso la sensazione greve di irrisolto.
Ma come poteva pensare... come poteva supporre che...
Il pilota si rialzò a fatica, ferito più dai sentimenti e dalla confessione che dalla botta che aveva ricevuto. Quella la meritava.
«Mi piacevi davvero, Shani. Io... io credo di essermi innamorato di te.»
Lei fece un altro passo indietro, una mano sul petto, gli occhi lucidi di tremore.
«Io credo di essere ancora innamorato di te.»
Mandò giù a fatica la saliva, la nausea era così forte che si sentì svenire. Ebbe un capogiro, lui l'afferrò prima che cadesse. Di nuovo aggrappati, di nuovo abbracciati, di nuovo insieme...
«No!» Si allontanò strillando. Tutto girava vorticosamente, non c'era più destra e sinistra, sopra e sotto, davanti e dietro. Era tutto un miscuglio di luci e colori, forme ed emozioni, fatti e sensazioni, ricordi, ricordi troppo amari per essere ingoiati.
«Sto con Tomas, adesso. Te l'ho detto. Ti ho detto che avevo scelto lui, che volevo lui. Io te l'ho detto, e tu mi hai lasciata andare.»
«Ero confuso, non sapevo cosa...»
«Kuran, tu sei sempre confuso! Tu non sai mai che direzione prendere! Tu vivi in un limbo, in un mondo tutto tuo. Non parli, agisci d'istinto e poi scompari. Nessuno ti capisce, nessuno riesce a decifrarti!» Gli puntò l'indice contro, annaspando contro il mancamento incipiente, l'ansia e il rimorso. «Cosa vuoi che ti dica, eh? Dopo tre mesi mi butti in faccia questa confessione a cuore aperto. Tre mesi! Cosa me ne faccio? Avremmo potuto parlarne...»
«Sarebbe cambiato qualcosa? Se io ti avessi confessato prima i miei sentimenti, sarebbe cambiato qualcosa? Tu sembravi aver già scelto lui! Nella nostra ultima missione insieme mi allontanavi, cercavi di riavvicinarti a Tomas, io lo vedevo. Avevo già capito e ti ho lasciata andare. Non è anche questo amore?»
La compagna scosse la testa annichilita. «No, questo non è amore, Kuran. È non sapere cosa si vuole dalla vita e non fare nulla né per comprenderlo né per ottenerlo. Ti voglio bene, davvero. Te ne vorrò sempre. Ma non ti amo. Questa confessione mi ha fatto male. Ma soprattutto farà del male a te, ti farà malissimo, se insisti in questa direzione. Dimentica ciò che è successo tra di noi, lasciati tutto alle spalle, vai avanti, Kuran!»
«Non posso...»
«Sì che puoi!» Gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Lui ne approfittò, si aggrappò e la strinse a sé. L'abbracciò per l'ultima volta, soffocando il viso tra i capelli ricci e ispidi che profumavano di sudore, di petali di rosa, di spezie, di vita. «Non posso dimenticarti.»
Shani fu costretta a liberarsi un'ultima volta.
Stremata. Distrutta. Non si era mai sentita così sola.
«È finita, Kuran. Tra di noi è finita.»
"Only know you've been high when you're feeling low.
Only hate the road when you're missin' home.
Only know you love her when you let her go."
Così cantano i Passenger. Kuran potrà anche sembrarvi un vero stronzo, ma in realtà a parte l'indecisione, il non sapere cosa vuole, non cercare di comprenderlo e non provare a ottenerlo, non ha fatto davvero nulla di male.
Infatti Summer non ce l'ha con lui per il tradimento, ma per le sue scelte personali.
"Per lui, solo e unicamente per lui."
Questo terzo capitolo presenterà delle tematiche molto più adulte. È stata l'evoluzione naturale della storia. Sono partiti che erano bambini, vissuti in un ambiente asettico benché ostile.
La Terra li ha cambiati.
I traumi riemergono quando l'Hc34Fc987 inizia a scarseggiare, il dolore torna in superficie e i nostri Titans sono costretti ad affrontarlo per sopravvivere.
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