11. Cordoglio
Kuran tese la corda dell'arco e allineò lo sguardo con il vertice acuminato della freccia puntata contro il bersaglio.
Quando scoccò il tiro, la parabola finì a mezzo metro di distanza dall'obiettivo prefissato. Un risultato così misero che per il nervoso scagliò l'arma a terra e si morse il pugno con rabbia.
Sull'arca per gli allenamenti utilizzavano archi con impugnature ergonomiche e poggia-freccia integrati, costruiti con materiali sintetici e metallici, leggeri e maneggevoli. Le parti statiche erano di solito in alluminio, quelle flettenti in fibra di vetro o di carbonio, le corde in poliestere. Più forti e resistenti di cavi d'acciaio, era impossibile che si spezzassero.
Ciò che accadde invece al suo arco dopo averlo gettato in malo modo.
Si chinò a raccoglierlo, soppesando con lo sguardo l'entità del danno. Aveva usato legno di ginepro e fibre naturali per la corda: lino, canapa e tendini animali.
Erano messi molto male al villaggio. I proiettili scarseggiavano sempre di più e nelle ultime missioni ne avevano sperperato in abbondanza. I tre sopravvissuti recuperati tra le montagne non portavano con sé nessuna risorsa utile.
Grazie all'Universo, Melchor era ancora allettato. Lo avrebbe ucciso se avesse provato ad accusarli in alcun modo. Già si immaginava le sue aspre parole: "Uno spreco di energie, tre bocche in più da sfamare, un fallimento, una missione da recuperare..."
Annodò la corda a una delle estremità del legno, facendo sì che fosse ben tesa. Poi raccolse un'altra freccia dalla faretra e riprovò.
Aveva costruito anche un paio di balestre, con l'aiuto di Kaleb, un arco orizzontale montato su un fusto in quercia che scagliava dardi con maggiore potenza di un arco tradizionale.
Per ora solo Ulrik l'aveva utilizzato, il sistema di carrucole era fragile e il tempo di fabbricazione era stato molto elevato. Shani preferiva di gran lunga arco e frecce e dava spesso dimostrazione delle sue doti durante gli allenamenti al cospetto degli altri sopravvissuti. Con il corpo tonico e sinuoso perpendicolare al bersaglio, lo sguardo vispo, tendeva l'arco con la destra e la corda con la sinistra, fino al punto di ancoraggio, all'altezza del suo grazioso viso.
Sembrava nata per quello, nata per combattere, nata per annientare.
Il suo sorriso irradiava una bellezza selvaggia e infuocata. Spesso Kuran si era chiesto come doveva essere, trovarsi dall'altra parte, in quel punto macchiato con una x, ad aspettare il sibilo della freccia, il colpo mortale.
Anche stavolta il suo tiro andò a vuoto ma, contrariamente alla prima, non si arrabbiò.
Se l'aspettava.
Meritava di essere lui il bersaglio, meritava una freccia conficcata dritta nel cuore, o al centro del ventre, un colpo mortale. Lo meritava da tempo, ora più che mai.
Per i pensieri che faceva, per quello che provava, per la sua insicurezza, la sua indecisione, la sua incapacità, tutti i suoi fallimenti, la sua meschinità, l'essere vile e ipocrita che era diventato.
Falso, proprio lui che aveva sempre professato onestà e lealtà fino alla morte.
Era falso.
Falso come quell'arco raffazzonato, falso come tutti i suoi buoni propositi, falso come le menzogne che si era sentito costretto a ripetere in quei giorni. Falso come l'orgasmo che aveva avuto la notte precedente, per poi vederla piangere, subito dopo, rannicchiata come una bambina contro il suo petto.
L'ho distrutta.
Aveva trascorso tre mesi di una felicità vissuta per interposta persona.
Ed erano stati tre mesi tranquilli, nonostante la tempesta emotiva, i crolli nervosi, l'esigenza impellente che ogni tanto provava di scappare. Non belli come quei giorni in cui lei era stata sua, ma comunque sereni, pacifici, poco dolorosi.
Poco doloroso. Questo era tutto ciò che si aspettava dal suo futuro. Poco doloroso.
Qualche volta non resisteva, si perdeva a scrutarli, da una giusta distanza, nutrendosi della loro felicità come una turpe sanguisuga, ma senza recare alcun danno. Non l'avrebbe mai fatto.
Li aveva sorpresi a giocare sotto la pioggia. Tomas cingeva la vita di Shani contro il bacino e ruotava vertiginosamente sull'erba a piedi scalzi. Lei aveva il capo reclinato all'indietro, le braccia spiegate come ali di gabbiano. Erano rovinati a terra, fango ed erba sui vestiti, sulla pelle bagnata, sui loro sorrisi. Si erano rialzati ridendo. Avevano saltato nelle pozzanghere, spingendosi, baciandosi, ebbri di gioia e di amore, come se il mondo fosse stato creato solo per loro, come se quell'acquazzone fosse stato generato solo per loro, come se non esistesse nient'altro, a parte loro.
Li aveva sorpresi ad allenarsi insieme, corpo a corpo, i capelli raccolti, gli sguardi pieni di malizia. La chioma di Tomas era cresciuta fino alle spalle, Shani ogni mattina gli intrecciava i capelli in una treccia che partiva dalla nuca. Per farlo lo teneva imprigionato tra le ginocchia, ridendo come una bambina ogni volta che lui provava a divincolarsi. E poi a cena, seduti sempre uno accanto all'altra, mangiavano dalla stessa scodella, smezzavano pane e companatico, bevevano dalla stessa borraccia. Lei aspettava che lui le sbucciasse un frutto qualunque, che glielo dividesse in spicchi sottili, che la imboccasse. Lo incalzava vogliosa e lo prendeva in giro ad alta voce per come teneva male il coltello, con le gambe nude e impudiche stese sopra le sue cosce.
"Per fortuna che ci sono io a difenderti, Tomas!"
"Per fortuna che ci sono io a difendere il resto del mondo da te, Shani."
La guerriera aveva iniziato a indossare le magliette di lui annodate appena sotto il petto generoso. Il ladro aveva addosso il suo profumo, tutto il giorno, tutti i giorni. Nemmeno la doccia lo riusciva a lavare via, perché condividevano anche quella, lo sapevano ormai tutti i sopravvissuti.
"Io non l'avrei mai resa così felice" rifletté Kuran.
Non era una giustificazione, autoconsolazione o rassegnazione. Era la semplice verità.
Quando lei era venuta da lui, quel mattino, a parlargli, lui l'attendeva già da giorni. Forse anche settimane. Da quando non aveva saputo rispondere a quella semplicissima domanda di Ulrik.
"Tra di voi è una cosa seria?"
Da lì in avanti anche il rapporto con il comandante si era incrinato, tutto era andato storto, era stato l'errore che non aveva saputo perdonarsi, il dilemma che non aveva saputo risolvere, quella scelta nella sua vita, quel bivio che ancora una volta, forse l'ultima, aveva imboccato nella direzione sbagliata.
«Se non prendi nemmeno la mira, è difficile che tu faccia centro.» Una voce dura, fredda come quella mattina di novembre inoltrato. Una mezza battuta, il capitano della quinta spedizione ci stava provando, a quanto pareva.
Il pilota era fermo da dieci minuti con l'arco nella mancina, la freccia nella destra, a fissare il vuoto con le braccia tese lungo i fianchi.
«Cosa ci fai già sveglio a quest'ora?» Ulrik gli tolse l'arma di mano, raccolse una freccia dalla faretra e con noncuranza imbracciò l'arco e incastonò il dardo proprio al centro delle rette perpendicolari dipinte sulla corteccia.
«Non prendevo sonno» rispose laconico Kuran.
L'altro scrollò le spalle, afferrò una seconda freccia e prese la mira verso un bersaglio molto più in alto, semi-celato tra le fronde degli alberi. La scoccò senza rimorso e due secondi dopo si udì un volatile stramazzare al suolo, gli occhi vacui e le ali ancora piegate lungo il torso. Non aveva fatto nemmeno a tempo a provare a spiccare il volo.
«Evangeline non ne sarà felice.»
Gli occhi di ghiaccio del giovane uomo gli perforarono il cranio.
«Anche Summer non sarà felice di non trovarti stamattina.» Un tiro basso che si era meritato.
Kuran sorrise e scosse il capo. Fece per voltargli le spalle e tornare alla sua abitazione, ma una morsa d'acciaio interruppe i suoi intenti.
«Cosa c'è che non va?»
Non era una domanda retorica, Rik non formulava mai domande retoriche, o non ne faceva o le dosava con cura. Questo gli fece ancor più male.
Poco doloroso. Chiedeva poi così tanto alla vita? Un destino poco doloroso.
Tentò di divincolarsi ma il compagno era molto più forte di lui. Molto più forte di tutti loro.
«Comincia tu. Che cazzo c'è che non va? Eh, Ulrik? Che ti hanno detto l'altro ieri alla tenda? Perché tu ed Eva non vi parlate più? Perché hai ripreso a cacciare, quando tre mesi fa avevi detto che non l'avresti più fatto perché lei non voleva?»
Il biondo batté le palpebre confuso da quell'invettiva spasmodica a cui non riusciva a dare un senso. «Me l'hanno ordinato.» Si vergognò della sua risposta già mentre la proferiva ad alta voce.
«E tu fai sempre ciò che ti ordinano di fare, vero?»
«Tu no?» questa volta fu Kuran a rimanere interdetto.
«Tu non fai sempre tutto quello che ti ordinano? Non hai sempre fatto ciò che andava fatto, ciò che era giusto fare?»
Il pilota era troppo allibito per replicare.
Sì, no, non sempre... o forse... Anzi no, niente affatto, assolutamente...
«È che devi prendere una decisione, Kuran, una decisione definitiva. Non puoi restare ad aspettare. Non arriverà mai nulla, non otterrai mai ciò che vuoi in questo modo. Io la mia l'ho presa, avevo le mie ragioni. Che fosse la scelta sbagliata lo sapevo già in partenza, ma era l'unica possibile in quel momento. Ho fatto del mio meglio. Ho fallito e ora sto cercando di rimediare. Mi hanno ordinato di cacciare e io caccerò, perché questa è l'unica cosa che so fare. Prendi una direzione e seguila fino in fondo, non si può rimanere sospesi a metà.»
Gli parve il discorso più lungo che gli avesse mai fatto. Avevano disquisito a lungo durante il pilotaggio dell'astronave, su traiettorie, probabilità, malfunzionamenti, trasmissioni, previsioni. Avevano parlato durante le missioni, confrontato insieme le cartine, valutato i cambiamenti della crosta terrestre, i mutamenti radicali che aveva subito il pianeta su cui erano atterrati.
«Non è tutto o bianco o nero, Rik. E quando avrò bisogno dei tuoi consigli, saprò che sono messo davvero male.» Veleno. Gli aveva sputato addosso veleno.
Chiunque si sarebbe allontanato, chiunque l'avrebbe insultato, chiunque l'avrebbe lasciato andare.
Invece Ulrik strinse più forte la presa sul suo avambraccio.
«Sai dove trovarmi.»
Il comandante fece altri due tiri, poi recuperò le frecce, la cacciagione, imbracciò l'arco e fece per dirigersi verso la mensa, dove avrebbe consegnato il bottino alle cuoche per il pranzo serale.
«Se vai a caccia, portami con te.» Non era una richiesta. Era una supplica.
Ulrik acconsentì con una scrollata di spalle, come fosse normale.
Fianco a fianco, percorsero insieme il tragitto di ritorno, senza parlare.
❈
Adam Dima Hollander si sgranchì il collo indolenzito dalla notte insonne, passata su di un lurido materasso cencioso che puzzava di paglia e polvere da sparo, fingendo di non sentire i rumori dei due amanti con cui condividevano la stanza e il russare pesante e solenne di Xavier.
Che vita di merda.
La mente tornava ai lunghi mesi trascorsi nei meandri delle caverne, i vestiti intrisi di pioggia e sudore acre, l'odore di urina, lo stomaco che si contorceva per la fame, la lingua che sembrava cartapesta sul palato, le allucinazioni visive, le membra in fiamme.
Merle.
Cercava di non pensare a lei. C'era una donna al villaggio che le assomigliava in una maniera inquietante, con una ventina di anni di differenza. Merle da adulta, Merle a trentasette anni. Merle che rideva con le amiche, che stendeva i panni, che controllava le viti e gli alberi da frutto, Merle che sbucciava le patate e mescolava il minestrone che avrebbero servito per cena.
Merle. Viva.
Aveva chiesto all'ex-professore se potessero cambiare stanza. Gli andava bene qualunque tenda, anche una condivisa con un bambino, un anziano, quel viscido porco schifoso del comandante o quella donna tarchiata che si truccava le palpebre di rosa e dava ordini a tutti come fosse una matrona, una baronessa.
Xavier gli aveva risposto che nessuno avrebbe mai dormito con lui e che poteva tornarsene nelle caverne, se lo desiderava.
Gli teneva ancora il broncio.
«E poi dovrebbe essere lui quello maturo. Ma vaffanculo!» sbottò e sputò a terra un grumo di catarro e livore.
Gli aveva detto che finché non avesse risolto la questione con l'Umana, non l'avrebbe più aiutato.
E così ora si ritrovava lì, a cercare La Cavalletta, come l'aveva rinominata. Quel piccolo insetto dagli arti stecchiti e dagli occhi enormi che metteva soggezione a tutti. Sempre sporca di erba e fango, con un odore indistinto, una pineta umida, una spiaggia assolata.
Non lo stava facendo per Xavier, non gliene fregava nulla di lui e dei suoi malumori. L'avevano messo a lavorare nei campi, doveva dissotterrare il terreno come un qualunque agricoltore. Si era divertito un sacco osservando l'ingegnere, il professore, lo studioso, con le maniche della camicia raggomitolate fino ai gomiti, gli stivali immersi nel terreno e il volto corrucciato in un'espressione al tempo stesso assorta e concentrata.
Anche lui avrebbe dovuto dare una mano, ma non ne aveva la benché minima intenzione.
Possono morire tutti, per quanto mi riguarda. Li osserverò crepare senza muovere un dito.
Io voglio il suo potere. Voglio solo quel dannatissimo potere di merda.
Attraversò il villaggio con le mani immerse nelle tasche dei pantaloni, la testa ciondolante e gli occhi blu che bruciavano come fuoco fatuo.
La grande quercia era accerchiata dai bambini. Tutti simili alla Cavalletta: abiti stropicciati e sporchi, capelli intrecciati con fiori e foglie secche, occhi sgranati, unghie marroni. Due di loro avevano la pelle mora, stavano giocando con un enorme falco dall'aspetto spettrale. L'attaccatura del becco era di un giallo abbagliante, gli occhi neri si rivolsero subito con disgusto nella sua direzione. La bestia salì sulla spalla di uno dei due ragazzini, identici come gocce d'acqua, spalancò le ali ed emise un verso strozzato che gli trapassò i timpani.
Tutti si voltarono nella direzione indicata.
Adam si fermò a una giusta distanza.
Vi era una bambina con la frangetta mora china sul prato, portava legata sulla schiena la sorellina addormentata e accarezzava un coniglietto pallido a cui un altro bimbo stava dando da mangiare una carota sbucciata.
Un bimbo paffuto batté le mani entusiasta, si alzò sui piedini tozzi con l'aiuto di un grosso cane che con il muso lo mantenne in posizione eretta. Fece per abbozzare un passo verso di lui, ma il mastino lo afferrò per il colletto della maglia e lo portò lontano, si sedette con lui in un angolo, in disparte e lo imprigionò tra le zampe anteriori.
Vennero invece ad accoglierlo due ragazzini. Uno gli ricordò vagamente lo Svedese, sebbene un bel sorriso candido gli adombrasse il viso come una mezzaluna svergognata. L'altro aveva un ciuffo di capelli mori che gli pioveva fin quasi sotto il mento, le braccia incrociate e le labbra strette tra i denti piccoli e aguzzi.
Poliziotto buono e poliziotto cattivo, rise tra sé e sé Adam.
«Cerchi qualcuno?» lo accolse il biondino. «Io sono Philippe, non ci hanno ancora presentati.» Il più grande del gruppo fece una riverenza ostentata, gli amici scoppiarono a ridere.
Lo stavano prendendo per il culo.
«Cerco la vostra maestra, la tata, la ragazzina, Eva, quella che bada a voi, insomma.»
«Sappiamo badare benissimo a noi stessi.» Il moretto si avvicinò di un altro passo, levò il mento verso l'altro, il ciuffo scivolò di lato mostrando un bulbo oculare in titanio di fattezze del tutto sproporzionate rispetto all'occhio naturale.
«Immagino. Eva è qui con voi?» Adam strinse i pugni e divaricò le gambe, per mostrare loro che non avrebbe cambiato idea, che avrebbe aspettato, finché lei, la vigliacca, non si fosse palesata.
«Non ti conviene fare il gradasso. Sei in minoranza.» Era stato uno dei gemelli mori a parlare. Non fece a tempo a rispondere a tono che il corvo gli volò in faccia.
Adam si accartocciò su se stesso, proteggendosi con le mani il viso da quella figura indistinta che gli si era scagliata contro. Artigli e piume nere, per un attimo credette che gli avrebbe cavato un occhio.
Altre risate. Il pennuto tornò a posizionarsi sulla spalla del ragazzino che l'aveva invocato, gracchiò fiero della sua bravata e il padrone imitò il suo verso gutturale, strofinando orgoglioso un dito appena sotto il suo becco a uncino.
L'avevano avvisato, li aveva sentiti i pettegolezzi al villaggio, l'aveva visto come l'avevano guardato male quando aveva chiesto dove si trovasse lei, La Cavalletta. Ma non pensava di venir aggredito da un gruppo di bambini sperduti e dai loro animaletti da compagnia ben addomesticati.
"Possono crepare tutti..."
«Dov'è. Lei.» scandì con rabbia, un'ultima volta.
Un fruscio di foglie, due fanciulli piovvero dal cielo. Una aveva una lunga treccia intessuta con fili viola e teneva una pigna in mano, l'altro aveva la faccia allungata ai lati, occhi castani contornati da lunghe ciglia scure e il colorito roseo di una pesca matura.
«È arrivato l'Umano!» batté le mani Jenny «Ma non sei come mi aspettavo.» La bambina inclinò la testa da un lato e dall'altro, lo guardò dall'alto al basso, un paio di volte. Poi applaudì di nuovo come per scacciare la sua stessa affermazione.
«È lui allora?» chiese Thorn storcendo il naso deluso.
«Certo che è lui! Non lo senti l'odore?» Jenny si avvicinò a lui saltellando e l'annusò come un cane da tartufo. Adam arrossì e si ritrasse. «Puzza di sangue.»
L'immagine della testa disossata di Merle che lo fissava afona, le sue mani imbrattate di un rosso scarlatto che tremavano mentre stringevano le viscide viscere dell'animale ansante sotto di lui. Erano calde, caldissime.
Vita e morte, morte e vita, una macabra danza orgasmica che aveva ballato in coppia con quel cerbero senza pietà.
«Speravo fosse l'altro. Quello con la faccia stanca» sbuffò Jace. Si accovacciò vicino a Mali e iniziò ad accarezzare il suo coniglietto, come se l'argomento non lo riguardasse più.
«Eva! Ci sono visite!» Phil si portò una mano vicino all'angolo della bocca, per ampliare il suono della voce ancora troppo acuta per essere quella di un uomo. «Evaaa!» strillò, rivolto verso il cielo.
L'Umano credette che fosse l'ennesima presa in giro, poi vide le fronde degli alberi fremere, un fruscio sinistro, rami che si flettevano sotto il peso di un corpo in rapido movimento, uno schiocco e alla fine...
Appesa a una liana a testa in giù, coi capelli selvaggi che accarezzavano il terreno, Evangeline gli rivolse un ghigno malizioso. Allungò le braccia verso il cappio che aveva legato al piede sinistro e con un'aggraziata capriola balzò davanti a lui, indomita e pericolosa come una bestia feroce.
Adam resse il suo sguardo con tutto il coraggio che serbava in grembo.
Lei indossava una giacca bucherellata, una camicia slabbrata, jeans consunti e pieni di strappi. Era scalza e scarmigliata, con il viso sudato e le iridi cangianti che vibravano di potere.
«Adam» lo salutò.
«Eva.»
Ammiccò. «Mi cercavi.» Non c'era nessun tono interrogativo, era una semplice constatazione ilare, come fosse tutto un gioco faceto per lei, un gioco a cui si prestava svogliatamente.
«Sì, possiamo parlare in privato?»
«No.»
I bambini erano in ascolto, insieme agli animali, alla tigre che sicuramente attendeva nascosta nell'ombra, e a tutti i pericoli che poteva celare la foresta al di là dello steccato rinforzato a pochi passi di distanza.
L'Umano sbuffò e distolse lo sguardo, con le dita pettinò i capelli lontano dalla fronte mentre ri-immergeva l'altra mano in tasca.
«Okay. Ascolta, mi dispiace per come mi sono comportato.» Sapeva che lei era ancora lì di fronte, sapeva di avere un intero uditorio ad ascoltare quelle parole che non aveva mai professato in vita sua. «Mi dispiace di essere stato uno stronzo, di averti insultata, di aver fatto l'arrogante. Mi dispiace di averti fatto una pessima prima impressione, di aver mandato tutto a...»
«Ti pregherei di non dire parolacce davanti ai bambini» lo interruppe brusca.
«Be' insomma, hai capito, no? Mi dispiace. Questo è quanto.»
Evangeline lo fissò in silenzio per qualche interminabile istante.
«Quindi? Cosa vuoi da me?»
«Insegnami a usare il potere.»
Lei scoppiò a ridere. «Il potere? Quale potere?»
«Credo che faccia riferimento all'ora delle magie» le spiegò paziente Jenny, che non si era persa una sola parola. Le gambe incrociate e i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
«Sì, esatto, magie, potere, quella roba lì» confermò Adam, leggermente turbato.
Il sorriso di Eva si allungò solo in un lato, una smorfia sinistra che rendeva il suo aspetto ancora più maligno.
«E cosa vorresti fare con questo potere, Adam?»
Non sapeva cosa rispondere, cosa replicare.
Salvare Merle era impossibile. Non si poteva tornare nel passato, non si poteva fare in modo che i propri compagni non fossero massacrati da mirati attacchi di lupi assetati di vendetta.
Se lei avesse saputo, se quell'Umana avesse potuto fare qualcosa, l'avrebbe fatto?
Nuove scosse di rabbia crearono convulsioni che lo costrinsero a digrignare la mascella.
Lui era lì, a implorare il suo perdono, quando lei non aveva fatto nulla.
Nulla!
E avrebbe potuto fare qualcosa, gli avevano detto di cos'era capace, il modo in cui aveva salvato il comandante, il modo in cui aveva richiamato la tigre per difendere il villaggio...
«Non è qualcosa che si insegna in un paio di minuti. Nemmeno in un'ora o in mezza giornata. È un lavoro che devi fare su te stesso, un processo di crescita ed evoluzione.»
Annuì, più per condiscendenza che per altro.
Erano tutte stronzate, futili e inutili stronzate di merda, uscivano dalla bocca spocchiosa di quella ragazzina rachitica che ora si credeva chissà chi... Era come se gli sputasse in faccia, un'offesa, un'umiliazione.
Quanto la odiava... quanto avrebbe voluto farla piangere, corromperla, costringerla a implorarlo in ginocchio, costringerla a supplicare un suo aiuto, la sua attenzione...
«Se vuoi ne possiamo riparlare insieme al resto della squadra. Domattina all'alba faranno un allenamento tutti insieme, prima dei turni di lavoro. Si trovano nel quadrato al lato ovest, dove ci sono i bersagli e la capanna con le armi.»
Annuì di nuovo. Evangeline imitò il suo gesto con quell'espressione sbarazzina che tanto gli faceva prudere le mani.
Gli occhi di Adam si assottigliarono sotto le spesse sopracciglia e la sua bocca si strinse in una linea sottile.
«Ci vediamo al campo d'allenamento, allora» la salutò. Chinò la schiena a novanta gradi e sventolando una mano nel vuoto si produsse in una profonda e antiquata riverenza. «Sacerdotessa.»
Si lasciò alle spalle quegli esseri dagli occhi grandi e ardenti, creature eteree che sembravano sbucate dalle tane sotterranee in cui si nascondeva il piccolo popolo di cui narravano gli Antichi.
Un piano.
Adam aveva un fottutissimo piano, adesso.
Volevate più Kuran... eccovi accontentati! Non è un personaggio facile, lo so. Perché sì, è più facile essere eroi o anti-eroi, cattivi e impietosi o buoni e coraggiosi. È più facile essere in bianco e nero. Kuran invece è di un grigio irrisolto.
Ve l'aspettavate che fosse ancora preso da Shani?
E vi aspettavate che l'unico a consolarlo e a capirlo fosse il gelido Ulrik?
Dall'altra parte abbiamo invece Adam, accecato dall'odio e dal rimorso, come sempre.
Secondo voi qual è il suo piano? 😏
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