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10. Xavier

Appena giunto nel suo appartamento, Xavier si chiuse in bagno e girò la chiave nella toppa un paio di volte.

Da fuori Antoine, il suo compagno, lo interrogò confuso.

«Faccio una doccia e arrivo!» rispose brusco.

Quello non se la bevve, venne a bussargli, chiese se andasse tutto bene, se avesse bisogno di qualcosa, anche solo di parlare.

Xavier aprì l'acqua del rubinetto e accese la ventola dell'aeratore per occultare quella voce fastidiosa.

Levò lo sguardo e rimirò il riflesso spietato nel vetro appannato: un uomo dagli occhi pesti, la barba incolta, profonde borse raggrinzite che sporgevano sugli zigomi scarni, un colorito cereo, le labbra screpolate.

"Dannazione."

L'uomo si commosse, gli occhi cominciarono a vibrare, un flebile scintillio alla luce delle lampadine al neon.

«Dannazione» pronunciò ad alta voce.

E iniziò a piangere, come un bambino.





Xavier era nato al quinto piano, non troppo in basso, né troppo in alto. Aveva una mente vispa e un'intelligenza logico-matematica. Purtroppo, non gli fu sufficiente per essere arruolato in Accademia.

Per questo motivo fu per lui un evento inaspettato quando il suo curriculum da neo-laureato venne scelto dal preside di quel prestigioso istituto. L'incarico era quello di insegnare come supplente di algebra nelle classi inferiori.

«Ma io non provengo dalla vostra scuola!» Aveva messo le mani avanti, sorpreso e nervoso.

Questo dettaglio era stato ignorato.

Si era trovato così una classe di adolescenti caparbi, aggressivi, tenaci, frustrati, arrabbiati, soli, emotivi, sensibili, furbi, bisognosi di affetto, affamati di attenzione.

E si era innamorato subito di quel lavoro, dei suoi ragazzi. Uno a uno, li aveva conosciuti di persona, li salutava nei corridoi, li chiamava sempre tutti per nome.

«È facile» scherzava coi colleghi. «Hanno solo quello!»

I suoi studenti si meravigliavano di quella sua bizzarria, perché per tutti gli altri docenti loro erano solo e unicamente un numero di matricola a sei cifre, niente di più, niente di meno.

"Lei ci vede, prof. Lei ci vede!" gli aveva detto una volta una ragazza, quando era stato promosso. La sua primissima classe aveva redatto una lettera di congratulazioni con le loro firme tracciate con biro multicolori. L'unico regalo che potessero permettersi.

Barbara, quella ragazza, aveva una spumosa chioma purpurea e la faccia spruzzata di lentiggini al caramello, era una frana in geometria, imbattibile nelle arti marziali.

Spedizione numero quattro. Non era più tornata.

«Moriranno tutti» mormorò il riflesso esausto.

Una sesta spedizione, ecco cosa gli aveva annunciato il preside. Gli Anziani avevano deciso che ci sarebbe stata una sesta spedizione, l'ultima, la definitiva.

Perché? Era un suicidio, una follia! Con tutti i problemi che aveva l'arca, con tutti i problemi che aveva l'Accademia! Una spesa inutile e gravosa, un sacrificio in nome di che cosa? Vincoli politici? Alleanze da mantenere? Vecchie speranze?

Non sarebbero mai tornati sulla Terra, mai!

L'oligarchia di quei vecchi satanassi si stava prendendo gioco di loro e delle loro anguste vite. Dovevano essere usciti di senno, demenza senile forse, avevano perso il lume della ragione, mandavano al macello soldi dei contribuenti e capitale umano come se fossero merci di scarso valore.

«Sono solo ragazzi...»

Il preside era stato irremovibile. D'altra parte, formare degli esploratori era uno dei capisaldi della scuola, la sua seconda ragione d'esistere, dato che la prima era formare la guarnigione, la milizia armata che governava quella città che galleggiava nello spazio, quella prigione abissale in cui tutti erano confinati da secoli e secoli, in cui era stato posto un veto a qualsiasi religione, a qualsiasi forma di libera espressione, in cui vi era censura, discriminazione, repressione...

Segregati là, nello spazio infinito, senza alcuna possibilità di ribellarsi. Nessuno ci aveva mai provato.

O forse no, forse un ragazzino ci aveva provato. Un ragazzino di soli sedici anni, occhi vispi, una smorfia irriverente, dimostrava molto meno della sua età anagrafica.

Tomas era stato suo studente, per un brevissimo periodo.

«Professore, nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!» gli aveva detto, strizzando l'occhio, parecchi anni prima. Aveva citato il suo autore preferito, George Orwell. Chissà dove l'aveva scovato quell'aforisma, visto che l'intera bibliografia dell'autore era andata misteriosamente perduta nel blackout post esodo.

Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.

E Xavier, l'aveva mai detta la verità?

Ci aveva provato, parecchie volte, aveva soprattutto provato con Murphy. Petizioni, reclami, lettere accorate ai giornali, interviste pubbliche, aveva speso tutti i suoi risparmi per pagare un avvocato, per chiedere un appello, per rivedere quella sentenza di condanna a vent'anni di carcere in una cella d'isolamento.

È solo un ragazzino...

Non un ladro, non un anarchico insurrezionalista, non un terrorista, un pericolo pubblico.

Era poco più che un bambino. Era orfano. Era solo.





Xavier ripulì le lacrime con l'acqua ghiacciata, se la gettò in faccia un paio di volte, poi spense il rubinetto, inspirò dal naso ed espirò dalla bocca.

Anche l'aria adesso aveva un retrogusto amaro.

«Dobbiamo rispettare il volere degli Anziani, verranno scelti una decina di ragazzi, i migliori, i più forti. Ogni spedizione da lustro all'Accademia, dà a noi valore. Non ci sottrarremo ai nostri obblighi, formativi in primis, ma anche istituzionali. Se l'arca chiama, noi rispondiamo. Ci sono manovre, cripticità che non c'è dato di sapere, comandamenti che noi dobbiamo solo rispettare, con cieca fiducia e incorruttibile lealtà. È necessario per mantenere l'ordine precostituito, non scatenare inutilmente il panico. Io non sono mai stato un complottista, ho sempre eseguito il mio dovere, ho sempre fatto la mia parte, servito con onore e disciplina la mia madre-arca, la mia patria, e così faranno anche i miei studenti, tutti gli iscritti alla mia scuola. Questo è ciò che insegniamo loro, questo è ciò per cui li prepariamo, questo è il futuro che li attende! Tutto il resto sono inutili lamentele, vigliaccherie, la manifestazione di spiriti indolenti e inetti alla vita nello spazio. Anche sulla Terra i giovani si sono sempre preparati alla guerra. Non è mai un sacrificio vano, se è per uno scopo più grande.» Così aveva declamato l'uomo avvizzito dalla chioma canuta e dal fisico tozzo, squadrato. Sapeva che quel discorso era rivolto soprattutto a lui, l'unico professore che avesse fatto baraonda, che si fosse opposto, che avesse cercato di contestare, osteggiare, rimandare l'inevitabile.

Aveva suggerito a molti ragazzi di tornare a casa, di chiedere ad amici o parenti, anche alla lontana, di essere ospitati, nascosti, aveva ordinato a chi poteva di ritirarsi, rinunciare agli studi, di andarsene, di scappare. Molti gli avevano dato ascolto. Ma la maggior parte non aveva dove andare.

Tutti i Titans sono uguali, ma alcuni Titans sono più uguali di altri, aveva dipinto a caratteri cubitali Murphy prima di abbandonare la scuola. Aveva usato un gessetto rosso. Da lontano le pareti bianche della presidenza sembravano imbrattate di sangue umano.

Avevano dato a Ulrik e ad altri due ragazzi della sua classe l'ordine di ripulire quelle nefandezze, li avevano destati apposta di prima mattina.

Xavier aveva trovato quel gesto geniale e prima che la citazione storpiata fosse cancellata, era andato a rileggerla un'ultima volta, saltando la colazione.

«Sai cosa vuol dire?» aveva chiesto al capitano della quinta spedizione, quando l'aveva visto sopraggiungere, lo sguardo spento e i lineamenti imperturbabili. Quello aveva scosso le spalle, aveva intinto una spugna smangiata in un secchio con detersivo e acqua viscosa, e aveva iniziato a umettare il muro. Non aveva nemmeno preso in considerazione di trasgredire, di protestare per quel compito degradante. Aveva ubbidito e basta, senza porsi domande.

Forse non aveva nemmeno letto cosa stesse cancellando.

Ulrik von Farsen. Un bambino biondo, molto alto per la sua età, ma con un cuore malato. Un bambino strano, senza espressività facciale, affetto da mutismo selettivo e un'apatia fuori dal normale. Alessitimia, avevano ipotizzato alcuni medici. Ulrik era incapace di attribuire sentimenti a se stesso e ad altre persone, non sapeva distinguere i propri stati emotivi dalle proprie percezioni fisiologiche, non sapeva individuare le cause che scatenavano le reazioni emotive, ma soprattutto non riusciva a esprimere i propri sentimenti attraverso il linguaggio vocale.

L'avevano curato con Hc34Fc987. Gli avevano espiantato il cuore difettoso e impiantato una valvola artificiale.

Poi l'avevano reso un buon soldato, un automa.

E con lui c'era sempre quella ragazzina, gli andava appresso come fosse la sua ombra.

Shani, la mina vagante, raccattata dai bassi fondi, da un quartiere in cui vigeva solo mafia, prostituzione e spaccio di sostanze illegali. L'avevano trovata denutrita, sporca e ferita. Lei non lo ricordava più, me le avevano dovuto perfino assegnare un nome, perché lei, il suo, l'aveva rimosso.

Tanto Ulrik era freddo e glaciale, tanto Shani era una tempesta di fuoco.

Li aveva persi entrambi, i suoi ragazzi. Li ricordava così bene, come se fossero passati pochi giorni da quando sedevano silenziosi e in allerta tra i banchi di scuola.

Se avesse chiuso le palpebre, avrebbe potuto evocare il sorriso di lei, la sua smania di essere notata, di essere amata.


Lei ci vede, professore.


«Xavier, mi devo preoccupare? Esci dai! Raccontami cos'è successo!» Antoine non avrebbe mai smesso di prendere a pugni la porta. Non capiva il suo bisogno di stare solo, il suo dolore.


Kuran non invece l'aveva mai conosciuto. Era un ragazzo che non spiccava tra la folla, eccelleva, ma in silenzio, non bramava le luci dei riflettori, non aveva amici, nessuna compagnia. Si diceva si fosse fatto una vita, sebbene frequentasse ancora il corso avanzato di ingegneria aerospaziale, che vivesse con una bellissima ragazza, un'ex studentessa dell'Accademia che insegnava in un asilo. Voci di corridoio, pettegolezzi futili. Anche Kuran era stato preso dal nulla, un orfano a cui trovare un'occupazione, un mattoncino da inserire nella grande muraglia, il cubetto che mancava per completare il mosaico.

Gli orfani non se ne andavano mai totalmente dall'Accademia, vi rimanevano invischiati, era l'unico luogo che si ostinassero a chiamare casa, l'attaccamento insicuro che li aveva plagiati, quel desiderio di spiccare, di trionfare sui compagni, di guadagnare fame e gloria, un briciolo di attenzione, un affetto autentico, sincero.


«Xavier, cazzo, mi rispondi almeno?!»


Hans Brandt. Cosa ricordava di lui?

Erano stati colleghi, per un brevissimo periodo.

Lo odiava. Anzi no, il termine odio era eccessivo per lui. Per Hans provava antipatia, un senso di fastidio, irritazione, un'insofferenza penosa per ogni cosa che dicesse, ogni sproloquio in cui si perdesse, ogni saggio che pubblicasse.

Inutile, Hans era inutile, un topo di biblioteca, un antico filantropo incarnato nel corpo acerbo di un ragazzino dalle orecchie a sventola e dagli occhi ambrati.

Umano, era stato Umano, Hans. Poi aveva perso persino quel poco di fascino che possedesse dalla nascita.

Non pensava che l'avrebbero imbarcato. Era stato un bel coup de théâtre, quello.

Il figlio del presidente, il rampollo prestigioso, il genio dell'arca, il romantico letterato che rimaneva in biblioteca oltre l'orario di chiusura, che si rovesciava addosso il caffè bollente a ogni collegio docenti, che prendeva appunti sulle mani, perfino sui polsi, quando terminava i fogli. Una frana, un impaccio, un immaturo, un codardo, un perdente, uno sfigato.

Non gliene fregava nulla delle sue classi, dei suoi studenti, del fatto che seguissero o no le sue lezioni. Ecco, per questo lo aveva odiato, gli aveva urlato contro l'ultima volta che si erano visti.

«Si vendono gli appunti tra di loro, perché tu non sai fare il tuo lavoro! Perché sei più concentrato sul suono della tua voce che su quello che produce! Indifferenze e avversione, ecco cosa trasmetti! Non capiscono nulla! Nulla Non gli rimane dentro nulla!»

Il ragazzo l'aveva guardato attraverso le lenti appannate dal respiro affannoso, con la bocca socchiusa e afona. Aveva un naso dritto, un perfetto profilo greco, riccioli di un castano tiepido, un manuale enorme di una lingua morta stretto contro il petto, come uno scudo.

Non aveva ribattuto, non si era difeso, aveva accusato il colpo con il labbro inferiore che tremava, gli occhi sgranati di terrore.

Le sue iridi erano di un colore raro e bellissimo. Oro colato con pagliuzze nocciola.


«Xavier, se non esci, butto giù la porta.»


Si era sbagliato sul suo conto, accecato dai suoi pregiudizi, dalla sua tracotanza.

Hans era stato arruolato contro il suo volere e aveva accettato il suo destino senza un briciolo di rassegnazione. Aveva studiato, consultato mappe, raccolto informazioni. Aveva trascorso i suoi ultimi giorni sveglio, nel buio dell'universo insonne, a consultare vecchi reperti, accumulare dati, nozioni, qualsiasi cosa potesse tornare utile ai fini del successo della spedizione numero cinque.

Si era definito orgoglioso di essere stato eletto vice-comandante, proprio lui che era incapace di far fruttare le sue doti in un lavoro di squadra,. Proprio lui che desiderava soltanto essere lasciato in pace, un vecchio libro rilegato in titanio, un blocchetto per appunti, una biro, una lampada.

Era questo contro cui Xavier si era più di tutti battuto: il clima perenne di competizione. All'Accademia crescevano come lupi famelici, disposti a sopravvivere per sopraffazione, bullismo, cannibalismo tribale. I ragazzi si picchiavano nei bagni, le ragazze si strappavano i capelli a ciocche. Durante gli allenamenti uscivano pesti, senza denti, ossa scheggiate, unghie divelte, dita spezzate. Il titanio li ricomponeva pezzo dopo pezzo e il giorno dopo tornavano a scannarsi tra i banchi di scuola, tra una verifica di geografia intraplanetaria e una di storia antica, tra un'equazione complessa e una tesina a tema libero.

Non sapevano collaborare, supportarsi a vicenda, fare gruppo, legare.

Xavier immaginava un futuro diverso, un'educazione diversa, un diverso destino per quelle povere anime. Aveva lottato con tutte le sue forze, con il suo stesso esempio.

Ma non si era mai sacrificato in prima persona.

Hans sì, lui l'aveva fatto.

Era partito.

Si era sacrificato.

Gli avevano riferito che nella sala d'attesa il professore avesse chiesto di rileggere un'ultima volta il suo libro preferito: Il Signore degli Anelli.

Xavier l'aveva deriso anche per quello. Una scelta sciocca, infantile, di un sentimentalismo smielato.

Se l'era immaginato seduto in un angolo, gli occhiali sulla punta del naso, intento a sfogliare le mille pagine di quel fantasy che narrava di un mondo totalmente inventato. Forse voleva solo evadere dalla realtà.


«Xavier, ti prego. Mi dici cosa sta succedendo?»



A dire il vero, l'idea era sempre stata dentro di lui, solo che non aveva saputo attribuirle un nome, trovare le giuste parole per scandirla ad alta voce, per argomentarla, per affidarvici il suo cuore.

L'uomo nello specchio aveva un bagliore nello sguardo, il ricordo di una vecchia fiamma, di antichi sogni, di nuove speranze.


«Xavier...»

Forse iniziava a capire anche Antoine, fuori da quella porta serrata, cosa stesse accadendo lì dentro.

Forse iniziava a capire anche lui che l'ormai ex-professore, visto che quel mattino aveva dato le dimissioni, aveva deciso di partire, di sostenere le prove e imbarcarsi volontario per la spedizione numero sei dell'arca K-030.

Vegliare un'ultima volta sui suoi studenti, sacrificarsi per loro.

"Chi controlla i controllori?" aveva urlato Tomas, quando la sentenza era stata pronunciata in tribunale. Quella scena era stata trasmessa in loop da radio e canali televisivi di tutte le arche. Il volto da bambino e tono irriverente erano diventati un emblema. Di cosa, nessuno lo sapeva dire.

"Eh, professore? Chi controlla i controllori?"

Non lo so, Tomas, non ho una risposta a tutto, anzi, non ho più una risposta a nulla, arrivati a questo punto. Sento che devo partire, sento che è arrivato il mio momento, che posso fare la differenza, in qualche modo.


Xavier spense la ventola girando in senso antiorario l'interruttore sul muro.

Quando aprì l'uscio, suo marito fissò sconvolto il suo viso rosso di paura e di pianto.


"Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario, professore."


Come vi avevo promesso, in questo terzo volume torneranno i pov dei personaggi, di quelli nuovi ovviamente. Qua vediamo la sofferta decisione di Xavier di abbandonare tutto per salvare i suoi studenti.

Noi sappiamo le ragioni dietro quelle spedizioni. Loro ancora no.


Fatemi sapere cosa ne pensate, come sempre mi fa piacere conosce le vostre opinioni 🙏🏻


Il prestavolto di Xavier è Adrien Brody (io ho un debole per questo attore).

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