Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

🫂

Quando ero piccolo vidi un'ape annegare.

Stava nel bacino colmo di una fontana antica, di quelle con la struttura in pietra lavorata e il rubinetto in ottone che gettava acqua senza sosta, ed io la osservai per minuti interi mentre tentava di tenersi a galla infruttuosamente.
Nemmeno per una volta pensai di poterla aiutare, piuttosto assistetti affascinato alla sua disperazione finché non smise del tutto di dimenarsi.

Mia madre, che faceva la spesa nel mercato li vicino, mi aveva perso d'occhio da più tempo del previsto e lo capii perché, quando mi trovò - ancora incantato contro quel vecchio monumento - ebbe un moto di affetto improvviso nei miei confronti, salvo poi stamparmi due schiaffi sul sedere a mo' di rimprovero.

"Non sapevo più dove cercarti" sbraitò trafelata e con gli occhi pieni di apprensione "me so girata tutto il piazzale chiamando il nome tuo... pensavo ti fosse capitato qualcosa, Manuel!"

Non chiesi scusa, non sapevo bene per cosa avrei dovuto farlo, ma le indicai comunque ciò che aveva rapito la mia attenzione, infilando poi una mano nell'acqua per recuperare l'insetto.
Con la testa ancora china in avanti le domandai se volesse vedere come gli strappavo le ali.

Fu nel riflesso della fontana che vidi per la prima volta le piccole corna rosse che mi sbucavano dalla testa.
Dietro di me la faccia inorridita di mamma.

Tornammo a casa in silenzio.
Lei guidava l'ammasso di ferraglia che era la sua bicicletta verde petrolio, con il cestino leggermente carico di roba, e io stavo seduto dietro, le mani paffute a ciondolare allo stesso ritmo delle gambette troppo corte per arrivare ai perni della ruota posteriore.

"Tieniti a me, quante volte te lo devo dire!" fu tutto ciò che proferì lungo il tragitto, e nel tono tanto severo e distaccato, il tremolio della voce lo avvertii lo stesso.

Sollevai la codina lunga e sottile apparsa da chissà dove dietro di me e la annodai al suo busto, che in risposta sussultò.
Passavano poche macchine nella stradina di periferia nella quale vivevamo, perciò fu facile di tanto in tanto sentirla singhiozzare sommessamente.



Fintanto che ero bambino, abbiamo dormito insieme io e mamma, sempre nel nostro letto ad una piazza il cui materasso pareva ormai una sindone per quanto era consunto, ma a me non dispiaceva.
In estate era bello perché gli spifferi della finestra facevano entrare un venticello leggero, in inverno invece lei mi stringeva forte al petto e io del freddo me ne scordavo.

Quella sera però, nonostante la temperatura fosse chiaramente calata, mi imbacuccò per bene sotto una coperta di flanella e si mise distante da me, tanto che pensai sarebbe caduta dal letto di lì a poco.

Fissava il soffitto con espressione tormentata e io mi interrogai a lungo sul perché della sua lontananza.
La guardavo stare lì, stretta nel pigiama troppo leggero per la stagione e con il volto gravato dalla tristezza.

"Ho freddo" dissi ad un certo punto sperando forse di distrarla o magari intenerirla, ma lei non si mosse di un centimetro, anzi "Hai già la coperta Manu" scandì granitica "non ti basta?"
Ci pensai un attimo, prima di scuotere il capo.
"Non voglio la coperta" il tono sconfortato e confuso "io voglio la mia mamma."

Evidentemente quelle parole colpirono nel segno perché un attimo dopo mi ritrovai avvolto dalle sue braccia esili, ma accoglienti, e sentii come una pioggerella bagnarmi la testa.
Pianse per tutto il tempo mentre mi stringeva a sé e mi spiegava di come, tra angeli, uomini e demoni che si potesse essere, io a quanto pare - "come quello stronzo di papà che se n'è andato senza lasciare notizie" - ero parte dell'ultima categoria.



C'è da dire che lei ci provò in tutti i modi ad educarmi al bene e in qualche modo vi riuscì anche.
Non mi veniva naturale abbracciarla e ancora ogni tanto dovevo pensare alla sua faccia terrorizzata per non prendere l'ennesimo scarafaggio dalla strada e conservarlo sotto un bicchiere, ma poco alla volta imparai a comportarmi in modo decente.

"Amare non significa imprigionare" mi ammonì dopo il terzo insetto rinchiuso sotto la gabbia di vetro solo perché mi piaceva e non volevo mai separarmene.
Smisi allora completamente di raccoglierne e arrivai al liceo che, celando le orribili corna tra un caotico roveto di capelli, chiunque mi poteva confondere per un normale essere umano.

Chicca la conobbi proprio fra i banchi di scuola e fu la prima persona che vidi con la coda simile alla mia, forse solo più sottile, e anche con gli spuntoni sopra la testa, per quanto circondati da meches ogni giorno di colori diversi.
Non si vergognava della sua natura lei e anzi, spiegava in modo abbastanza convincente che tra uomini e demoni non c'erano poi grandi differenze: tutt'e due sanno essere dei mostri - diceva - solo che noi non siamo così ipocriti da nasconderlo.

Mi faceva bene passare del tempo in sua compagnia, in qualche maniera mi sentivo accettato e meno colpevole di una condizione che non ero stato io a volere.
Di diverso da me Chicca aveva la totale incapacità di tenere a bada il suo temperamento e questo si notava dal numero di risse che sfiorava in classe o da momenti di follia estemporanea, come quella volta in cui, dopo la maturità, pensò di andare a rubare il gatto del prof di latino che l'aveva maltrattata all'orale.

"Non puoi ammazzargli il gatto solo perché lui è stato stronzo!"
"Non l'avrei ammazzato..." si giustificava intanto che la trascinavo via dal citofono del docente "al massimo gli rasavo via il pelo!"
"Nessuna violenza sugli animali in presenza mia Chicca, lo sai."
"Quindi al prof je posso fa qualcosa?" gli occhi avevano acquisito una luce nuova e stava già per fare dietrofront se io non l'avessi trattenuta per un polso "neanche una piccola lussazione? Una mano chiusa nella portiera dell'auto?"

Ad ogni diniego vedevo il broncio sulle sue labbra pittate di rosso scuro diventare sempre più accentuato.
"Che palle, Manué!" borbottava allora scocciata per poi poi imprimermi una leggera scossa con l'indice fra orecchio e collo "ma sei sicuro di essere un diavolo tu?"

E la domanda, posta mentre già girava i tacchi per andarsene, era proprio la stessa che io continuavo a farmi da anni sempre sperando di raggiungere una risposta diversa da quella che le mie sembianze, invece, finivano per confermare.

Avevo accettato la deformità che mi caratterizzava, il vuoto in petto che rendeva impossibile avvertire sentimenti d'affetto verso gli altri, eppure talvolta il malessere diventava intollerabile e mi ritrovavo a sperare che alcune emozioni fossi capace di provarle e basta senza dovermi imporre di farlo.

Tornai a casa e, con una stupida illusione a motivarmi, chiesi a mamma se papà ci avesse mai voluto bene.
Magari esisteva la minima possibilità che quelli come me sapessero amare e io avrei fatto di tutto per scoprirlo.
"Ha tentato", mi rispose però lei carezzandomi i capelli e pure le piccole corna nascoste al di sotto. Capii subito che quel gesto era quasi un modo per scusarsi per ciò che avrebbe detto dopo.

"S'è messo d'impegno quando sei nato tu" continuò infatti già rammaricata "ma era chiaro che non sapesse farlo... all'inizio ero così arrabbiata con lui, te lo ricordi? Poi però ho capito che non è nella natura sua... forse i demoni semplicemente non sono in grado di provare amore."
"Non- non voglio essere come loro" mormorai a bassa voce, osservando la mia coda muoversi flebilmente sul pavimento.
"Manu" e nemmeno mi accorsi che l'abbraccio in cui mi stringeva l'avevo cominciato io "ti assicuro che tu non sei così."

Il giorno dopo incontrai per la prima volta Simone.


Lo vidi mentre mi allenavo nel parchetto vicino casa.
Mi piaceva andarci, di solito al pomeriggio, perché rendeva più facile scaricare la specie di dolore sordo e perpetuo che mi mangiava da dentro e da cui cercavo in tutti i modi di liberarmi.
Correvo per ore e prosciugavo completamente le mie energie, diventando incapace di percepire altro che non fosse la stanchezza di arti e muscoli.

Tuttavia, ritrovatomi davanti a quel ragazzo e al suo Labrador - che poi scoprii chiamarsi Rubi, diminutivo di Cherubino - mi parve di provare sensazioni inedite che per un attimo mi fecero pure dimenticare la fatica accumulata.

Non ci conoscemmo in circostanze idilliache comunque, anzi.
Lui era intento a disperarsi perché un randagio si era lanciato contro il suo cane che, colto alla sprovvista, non mostrava alcuna capacità di difendersi.
Io giunsi sulla scena nel secondo in cui la bestiola rischiava di perdere una zampa e, se sulle prime pensai di farmi i fatti miei, bastò un'occhiata a Simone e alla sottile aureola che gli svettata sopra la testa per capire che non sarebbe mai stato in grado di reagire con la fermezza che serviva per salvarlo.

Ci provai per ben tre volte ad urlare senza intervenire fisicamente, ma poi mi resi conto che se non avessi fatto qualcosa nell'immediato il piccoletto ne sarebbe uscito distrutto.
Fu sufficiente toccare il muso del cane più grande, un pastore tedesco agguerritissimo, per imprimere una scossa che destabilizzandolo gli fece mollare la presa sull'altro.

I guaiti che emise subito dopo sapevo già li avrei sognati per tante notti a venire, rigirandomi nel letto col tormento che, pur volendo essere d'aiuto, riuscivo solo e comunque a procurare dolore.

Non ebbi tempo, in realtà, di crogiolarmi nell'angoscia tanto familiare che già una mano veniva protesa a ridestarmi.
Si presentò così Simone, con Rubi stretto alle sue gambe e gli occhi colmi di gratitudine verso di me.
Me, che non ero mai stato in grado di far del bene a nessuno, e che in quel momento invece venivo guardato come il più buono degli uomini.

Ero euforico nel ricambiare il saluto, nello sminuire un'azione che - affermai convinto - chiunque avrebbe fatto e nell'intrattenermi con lui a parlare mentre in testa una sequela di pensieri su quanto fosse bello, effettivamente un angelo, mi tartassavano.

Tutto l'idillio però si infranse non appena Simone fece un cenno con la testa al cane che avevo allontanato e che ora vagava smarrito per il parco.
"Dio, se era indemoniato" disse carezzando il Labrador il quale ricambiava subito l'affetto "ci credo che non ha padrone... chi vorrebbe mai una bestia così crudele."

Rimasi impietrito dalla violenza delle parole.
Sembravano tante frecce scoccate e pronte a colpire me, che tanto diverso dal cane poi non ero.
Forse fu l'espressione che mostrai in viso, o gli spuntoni delle corna visibili tra i capelli, fatto sta che Simone capì, e lo sguardo sconvolto che mi rivolse divenne la spinta di cui necessitavo per allontanarmi senza nemmeno salutare.

Belzebù, detto Bebù, così lo chiamai alla fine il randagio che salvai quel giorno da una vita in mezzo alla strada.

Inizialmente non si rivelò facile ottenere la sua fiducia, l'avevo folgorato con una scossa poco prima, dunque credo fosse normale per lui diffidare dalle mie carezze.
Ciò nonostante, a seguito di una lunga opera di convincimento, riuscii ad avvicinarlo e a trascinarlo fino al primo veterinario che trovai sulla strada di ritorno a casa.

Mamma poi ne fu entusiasta.
Più o meno.

Prima minacciò di cacciare entrambi, dopo si fece intenerire dai guaiti della bestiola e, infine, acconsentì alla sua presenza in casa a patto che me ne prendessi cura per davvero.
Bebù ringraziò dell'ospitalità pisciando ai piedi del divano.

Da lì in poi divenne lo scopo della mia esistenza renderlo meno aggressivo.
Volevo disperatamente fargli capire che anche lui meritava amore e che, ricevendolo, sarebbe stato in grado di darlo.

Con Chicca ad esempio ebbe un vero e proprio colpo di fulmine.
Lei che non aveva dimostrato il benché minimo affetto neppure nei miei confronti, al cospetto del cane si trasformava in un'anima gentile sempre disposta a coccolarlo e a riempirlo di complimenti su quanto fosse - a detta sua - il cucciolo più bravo del mondo.

Al parco allora presi ad andarci con lei, che così almeno Bebù mi pareva più obbediente, e in effetti un po' alla volta imparò a non sbranare qualsiasi cosa gli capitasse davanti, a porgere la zampa e persino a fare gli occhioni dolci per poter dormire nel letto con me.

Ricordo che una mattina in cui eravamo solo noi due, sparii dopo che gli avevo lanciato il bastone da riporto e, trascorsi alcuni minuti e con una lieve ansia ad affrettarmi il passo, cominciai a cercarlo.

Lo trovai steso a terra, le zampe ben piantate al suolo e la coda agitata, in evidente attesa di una reazione da parte di un altro cane che riconobbi immediatamente.

Avvicinandomi per recuperare la mia bestiola, sperai allora di incontrare anche Simone, magari per guardarlo con distacco, facendo persino finta di non ricordarmi della sua esistenza - salvo poi aspettare trepidante che fosse lui a ricordarsi della mia - oppure per sorridergli compiaciuto e dirgli "hai visto il randagio? Ci voleva solo più amore."

Non avvenne nulla di tutto ciò.

Al mio "Bebù" roco e severo si sovrappose un più armonioso e pacato "Rubi" da una voce femminile, a me sconosciuta.

La ragazza che si fece avanti aveva occhi limpidi, capelli chiari ed un'aurea splendente ad illuminarne la figura.
Solo a guardarla mi sentii uno stupido.

Si muoveva con leggiadria, che pareva nemmeno posasse i piedi a terra, e pensai fosse l'ennesimo esempio di come gli angeli vivono tra noi solo per sbatterci in faccia la loro perfezione e di come io invece dovessi apparire, per forza di cose, uno scarto da evitare.

Ritenni tutta quella bellezza eccessiva, quasi un modo crudele per enfatizzare la mia miseria e non farmi mai scordare che, per quanto provassi, nulla mi avrebbe mai reso degno di loro, degno di Simone.

Lo vidi mentre ci stava raggiungendo con un sorriso ampio in volto e gli occhi luminosi e gentili che ricordavo.

Improvvisamente non ci volli più stare lì, osservare il quadro felice e perfetto che avrebbe composto con la sua fidanzata e il loro cane, quando io e il mio eravamo l'emblema della solitudine, di quelli che si trovano assieme solo perché nessun altro li vuole.

Raccolsi in fretta il guinzaglio di Bebù da terra, dando pure uno strattone di cui mi sarei scusato in seguito, e a passo svelto me ne andai.
Simone smise di sorridere, o almeno così sembrò.

Per tutto il resto del giorno poi, mi concessi persino il lusso di sentirmi in colpa.




Al parco ci ritornammo comunque, non fosse altro perché quel diavolo di cane che mi ero scelto finiva sempre per fregarmi con i suoi occhioni tristi ai quali io non sapevo proprio dire di no.

Chicca, che aveva un senso dell'ironia tutto particolare, rideva di gusto per i miei tentativi di cambiare zona - bloccati sul nascere dai ringhi di Bebù - e in generale per il modo in cui mi ossessionavo pensando a Simone.

"Te sei proprio rincoglionito appresso a questo" diceva intanto che con la coda lanciava il bastone al cane sotto lo sguardo stranito di qualche passante "non m'hai fatto manco brucia' le sopracciglia all'amichetta! Nemmeno staccarle un tacco mentre camminava tutta impettita per strada!"
"Perché non era il caso, Chi..." mi limitavo a replicare stando attento a scacciare le due piccole api che volavano vicino a noi, con il timore che lei le folgorasse "quella è la fidanzata sua, non le puoi far del male... ne sarebbe devastato!"

Non mi angosciavano più certi discorsi, anzi quasi mi calmavano. Avevo visto che tipo di donna si accompagnava a Simone e mi sembrava l'armonia più perfetta cui potessi assistere, una di quelle che si guarda e basta, riconoscendone la grandezza senza pensare mai "io farei meglio di così".
Erano entrambi angeli - come tali si completavano - e io non avevo motivo per mettermi in competizione con lei perché non esisteva gara.

Sapere che non c'era possibilità con lui, per quanto esiziale, fu anche liberatorio.
Mi rassegnai allora alla consapevolezza che non era importante essere in grado di amare, se comunque di quel sentimento non ne sarei mai diventato degno e, paradossalmente, conoscere i miei limiti mi rendeva più facile tollerarli.

Quando le spiegai questo discorso, Chicca non si mostrò per nulla d'accordo.

"T'assicuro che pure l'angioletto tuo non sta messo meglio" ridacchiava con un'ilarità che continuavo a non cogliere "meno male che è 'n pezzo di pane però, altrimenti m'avrebbe già bruciata sul posto."
"In- in che senso?"
"Nel senso che se continua a guardarmi con quella faccia incazzata o prendo fuoco io o prende fuoco lui."

Mi voltai di scatto nella direzione indicata dalla sua testa, avvertendo pure le ossa del collo protestare per lo sforzo, e mi trovai davanti un volto angelico che si ammorbidì subito in un sorriso timido.

Distolsi immediatamente lo sguardo.

"Te l'ho detto che è rincoglionito come te" ribadì Chicca scoppiando un palloncino di gomma americana ad un centimetro dal mio viso paralizzato "io comunque, per sicurezza, me leverei dal cazzo... non vorrei mai esse la causa scatenante de na guerra tra cieli, eh" concluse sollevandosi dalla panca e - dopo aver lasciato una carezza sulla testa di Bebù - sparendo in una nuvola di fumo.

Certe volte, ragionai quando rimasi solo come un coglione, mi pare quasi che lo faccia apposta a mettermi in difficoltà.

Sul momento poi non seppi bene cosa desiderare: se una presa di coraggio da parte di Simone, deciso ad avvicinarsi e venire a parlarmi, o una sua fuga repentina, magari perché deluso dalla mia reazione apparentemente distaccata.
Tutto mi sembrava dover ruotare attorno a lui, come se io non potessi avere un ruolo chiave in quel frangente e dovessi adattarmi al corso degli eventi.

Ad opporsi alla rassegnazione passiva che mi pervase, comunque ci pensò Bebù.
Il guinzaglio che stringevo attorno al polso per tenerlo fu strattonato con tale foga da farmi balzare in piedi e correre prima ancora di rendermene conto.

Scattò verso Rubi, a pochi passi da noi e io sopra il terreno incerto del parco mi ritrovai a scivolare, ma accade così piano da darmi tutto il tempo di immaginare già il viso tumefatto dalle pietruzze che costellavano la strada.
Chiusi gli occhi d'istinto - lo scontro col suolo pareva imminente - e attesi di sentire l'impatto.
Non arrivò.

Rassicuranti, ma decise, così furono le braccia che mi tennero in piedi.
Con le mani strette attorno alla vita e le ali ad avvolgermi in un manto di piume morbide, bianche di una purezza che non volevo nemmeno toccare per paura di contaminarla, Simone mi scrutò subito alla ricerca forse di ferite o di un semplice incontro di sguardi che mancava da troppo.

Mi mantenne dritto come fossi un fuscello che rischia di spezzarsi alle prime intemperie e, per quanto provassi vergogna nell'essermi mostrato tanto distratto, una parte di me non poté fare a meno di crogiolarsi in quella sensazione di sicurezza che avvertivo.

"Stai bene?" mi chiese ritraendo le ali e solo dopo anche le braccia "stai bene, Manuel?" ripeté scandendo il mio nome, quasi a dimostrare che l'aveva ricordato per tutto quel tempo, che nonostante io avessi rifuggito qualsiasi contatto dal nostro primo incontro, lui comunque non aveva smesso di legarsi all'unico dato noto su di me.

Mi sentii in dovere di ricambiare, di fargli vedere che non era solo, ma che eravamo in due ad aver fatto quel gioco da bambini e "si- si grazie, Simone" balbettai con le parole che si mangiavano fra loro nella bocca.

Bebù intanto iniziò a strofinare il muso contro la mia mano.
Voleva chiaramente attirare l'attenzione, ma al contempo temeva un qualche rimprovero.
Rivolsi allora gli occhi a lui, lo vidi fissarmi con lo sguardo pentito, la coda frenetica - segno palese del suo dispiacere per l'incidente - e mi premurai di carezzarlo.

"Senza che te metti a fa' il ruffiano" bofonchiai con finto disappunto "m'hai quasi tolto n'arto, diavolo di un cane..."
Mugolò per qualche secondo, ma non appena comprese di aver ottenuto il perdono, si voltò per tornare a giocare col Labrador che pazientemente ne attendeva il ritorno.

Simone dalla scena rimase molto colpito.
Si sperticò in scuse per l'episodio spiacevole di un mese prima, disse che la paura di perdere Rubi l'aveva fatto parlare a quel modo, ma che non pensava nulla del genere.

"E' anche merito della mia migliore amica" specificai quando prese a lodarmi per la pazienza nell'ammaestrare Bebù e renderlo così amorevole "lei ci ha creduto più di me da subito... io lo ritenevo solo un caso disperato."

Rispose che anche lui con Rubi aveva avuto qualche problema all'inizio, che era terrorizzato dagli altri cani e che ancora ogni tanto si spaventava.
"Non con Bebù, però" sussurrai guardandoli giocare.
"No, con lui no..." e fu naturale allora sorriderci come dei cretini e dopo intraprendere un discorso che dagli animali passò poco alla volta ad altro: il diploma appena conseguito da entrambi in due scuole che scoprimmo essere vicine, il suo dubbio se studiare matematica o architettura, il mio sul non fare nulla perché non mi ritenevo in grado, lui che mi diceva di non crederci, "che tu sembri così sensibile, ti vedrei bene a fare il medico, Manuel", io che mi schermivo imbarazzato, ma conservavo il pensiero in un angolo della testa, e poi altre chiacchiere, per ore e ore, fino alle riflessioni sulle famiglie complesse che ci erano capitate, seppur per problemi differenti.

Mi piaceva ascoltarlo, in particolare era bello sentirgli dire il mio nome ogni volta che finiva un concetto, come se fosse necessario ribadire che, in una conversazione dove c'eravamo solo noi due, lui stesse parlando proprio con me.

"Quando ero piccolo mi sentivo sempre diverso dagli altri" ammise ad un certo punto e io annuii comprensivo, prendendo la sigaretta che avevamo cominciato a fumare assieme "ma per fortuna poi ho incontrato quell'angelo di Laura... da quando c'è lei non sto più così male."

Il mozzicone mi scivolò dalle mani.

Tutte le paranoie che mi ero fatto nel mese precedente si ripresentarono in un secondo, ma con furia inedita, perché quella volta - in più - c'era che mi ero permesso di illudermi, di avvicinarmi a Simone e credere che non ne avrei patito.

Mi ammutolii di colpo e lasciai che fosse lui a continuare il discorso, fin quando, resosi conto della mia poca partecipazione, iniziò ad accampare scuse poco credibili sul fatto che dovesse andar via.
Sapevo che non avevo alcun diritto di essere geloso, né tantomeno di pensare le cose terribili che stavo augurando alla povera Laura, eppure, tutte le sensazioni che mi attraversavano il petto come lame, le sentii in ogni caso.

Poiché Simone mi guardava ansioso, gli promisi che ci saremmo rivisti presto, magari già l'indomani come chiedeva lui e lo rassicurai che anche io mi trovavo bene in sua compagnia.

Arrivato a casa mi infilai velocemente a letto, sperando di addormentarmi subito, così da non pensare a nulla.
Bebù non dovette nemmeno provare a convincermi, lo misi io stesso accanto a me.




A mia madre gliene parlai qualche settimana più tardi - che Simone lo avevo incontrato altre volte, sempre con i nostri cani, sempre finendo a parlare di qualsiasi cosa e sempre accettando il dolore del non poter avere nient'altro - quando ormai tenermi quel peso per me era diventato insopportabile.

Non sapevo nasconderle nulla in realtà, nemmeno le cose che mi volavano sopra la testa per poco tempo, le tipiche fissazioni adolescenziali che sembrano il perno su cui ruota il mondo e invece, un mese dopo, già non sono più presenti in nessun discorso.

Con Simone quel fatidico mese era trascorso da un po', ma io non facevo che pensare a lui.

"...a quel coglione..." mormorai mentre bruciacchiavo con l'indice i fili scuciti di una vecchia felpa che mi ostinavo a non buttare.
"Manuel ma mi spieghi con chi te la prendi?" intervenne mamma sollevando la testa dal sugo che era intenta a cuocere "è da stamattina che borbotti!"

Era bella mamma in quel periodo, non che prima non lo fosse, ma negli ultimi anni aveva acquisito una serenità che da piccolo non le avevo mai visto.
Non era solo il lavoro a gratificarla, finalmente ingranato al punto tale da permetterle addirittura di comprare una macchina, ma credo anche il sapere che io avessi deciso una strada da seguire.

Dopo un'estate passata ad arrovellarmi, le comunicai che avrei voluto studiare psicologia, che avrei contribuito alle spese trovandomi un lavoretto e che avrei fatto di tutto per ripagarla dei sacrifici.
Lei mi azzittii riempiendomi di baci e complimenti neanche le stessi annunciando che mi ero già laureato.

"Non me dì che hai cambiato idea sull'università?" chiese infatti con un certo dispiacere nella voce.
La tranquillizzai subito - quella è l'unica cosa certa della vita mia al momento - sussurrai a testa bassa.
"Allora che c'hai? Che succede 'a mamma?"

Avevo poca voglia di parlare, mi veniva mal di testa al solo pensiero di affrontare l'argomento che tanto mi turbava, però allo stesso tempo avevo l'urgenza di sfogarmi con lei, anche solo per sentire da una voce esterna e fidata quello che già sapevo, per convincermi ancora di più che dovevo rassegnarmi.

"Ma che problema c'è?" domandò alla fine del mio monologo con aria sinceramente confusa.
"Come che problema c'è?" mi sentivo pazzo a doverlo chiarire "ti pare normale che un angelo mi faccia stare così?"
"E vuol dire che ti sei innamorato... guarda che è una bella cosa!"
"Io" battei le mani sul petto come a chiarire che era di me che stavamo parlando "...innamorato??"
"Beh, si..." ammise a corto di altre parole e con una risatina che mi faceva solo aumentare il nervoso.
"Ma- ma i demoni non sanno provare amore..." crollai sul divano da cui mi ero levato con foga "l'hai detto tu stessa qualche tempo fa..."
"Ti ho pure detto" concluse col tipico tono suo che non ammetteva repliche "che tu non sei così."

La felpa che ancora avevo tra le mani prese fuoco in una sola fiammata.





"Amare non significa imprigionare", me lo ripetevo nella testa fino alla nausea da come era cominciata quella maledetta festa a casa sua a cui mi aveva invitato Simone.

Simone che per tutta la sera non aveva fatto altro che ballare stretto, stretto a Laura, lanciandomi ogni tanto occhiate buone solo per confondere o farmi fingere un sorriso di cortesia.
Persino quella traditrice di Chicca - portata alla serata in qualità di più uno - aveva trovato di meglio da fare, appartandosi con un diavolo sfacciato come lei che l'aveva sedotta mostrandole il prodigioso talento di stappare bottiglie di birra con le corna.

Mi ritrovai ad un angolo della sala a parlottare con chiunque mi capitasse a tiro, nella speranza di distrarmi dall'unico pensiero che invece vorticava in mente.

Simone non era un insetto, non potevo metterlo sotto un bicchiere di vetro e tenerlo per me, ma in quel momento, osservandolo libero come non mai tra le braccia di Laura, desiderai davvero farlo.

Anche perché sarebbe il solo modo che hai per farlo tuo, suggerì una voce cattiva nella testa.

Sbattei le palpebre un paio di volte per ricordarmi dove stavo, salutai alla svelta la ragazza che imperterrita continuava a darmi corda e mi avviai all'esterno.

Ero talmente nervoso che la sigaretta fra le mani la accesi con un'occhiataccia, scoprendo così l'ennesimo potere inutile che la mia condizione mi regalava.
Avrei rinunciato ad ognuna di quelle diavolerie, in cambio di una vita normale, della possibilità di sentirmi come gli altri e non dovermi sempre ricordare che, in ogni caso, non lo ero.

"Se la rifai dentro sta cosa, ti assicuro che vieni decretato subito il più figo della festa."

Arrivò così Simone a ridestarmi dai pensieri, sedendosi accanto a me sui gradini del portico e battendo - forse involontariamente - un ginocchio contro il mio.

"Non credo interessi a qualcuno vedere una cosa che saprebbe fare anche il peggior prestigiatore."
"Io ti dico di sì, invece... aggiungi uno sguardo languido e vedrai che strage di cuori!"

Quella frase mi stranii.
"Facciamo allora che non interessa a me" chiosai anche un po' piccato.
Cosa me ne poteva fregare di far conquiste ad una stupita festa con gente che non avrei più rivisto?

"Ci sono altre cose che sai fare oltre che incentivare la piromania?" domandò dopo qualche secondo di silenzio.
"Non andrò là dentro ad aprire bottiglie con le corna come quel tuo amico deficiente, se è questo che mi chiedi... so' un diavolo io, no 'n fenomeno da baraccone!"

Simone scoppiò in una risata armoniosa che ebbe lo snervante potere di ammorbidirmi e farmi ruotare il viso nella sua direzione.
Era di una bellezza sconvolgente.
Anche se non avesse avuto l'aureola e le piccole ali pronte ad espandersi sulle spalle, l'avrei comunque scambiato per una creatura celeste.

Lo vidi arrossire intanto che ancora rideva, le gote scarlatte e gli occhi socchiusi ma puntati con decisione nei miei.
Mi pareva di essere sotto il più acceso dei riflettori.
"Vuoi sapere che potere abbiamo noi angeli invece?" chiese quando si fu placato.
Annuii senza troppa enfasi.
"Riusciamo a leggere nella mente."

Scattai dal gradino come fosse in fiamme.
Non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia tanto fu l'imbarazzo.
Mossi un passo in avanti, forse due, mi serviva mettere spazio fra noi.
Volevo anche dirgli che era stato sleale, crudele, che per tutto il tempo aveva saputo e ciò nonostante aveva continuato a prendermi in giro con i suoi modi gentili del cazzo.

Quel che invece venne fuori fu un debole "da quanto lo sai?" a cui reagì con qualche sospiro seguito poi da un incomprensibile "dovresti essere più specifico."
"Smettila di fare lo stronzo Simò! Da quanto lo sai?"
Si alzò anche lui allora e mi venne così vicino che in risposta indietreggiai.
Ragionavo male con la sua faccia a quella breve distanza.

"Sono serio Manuel! Di saperti leggere la mente l'ho scoperto stasera mentre ballavo e ho visto te che mi guardavi. Di quello che pensi nello specifico..." la voce ridotta ad un sussurro "pure."

Abbassai gli occhi sperando che la terra mi inghiottisse.
Non era solo questione di vergogna per essere stato scoperto nell'istante preciso in cui facevo le peggiori elucubrazioni, ma anche la consapevolezza che adesso lui sapeva e non c'era più modo di tornare indietro.

"Mi dispiace" dissi mortificato, pur non sapendo bene per cosa mi stavo scusando.
Per essere così stupido? Per aver pensato quelle cose?
Non trovavo nulla di salvabile nel mio comportamento o nella mia persona e pensai che l'unico modo per fare qualcosa di utile fosse allontanarmi da Simone, smettere di inquinarlo con lo squallore che mi caratterizzava.

Mi trattenne prima ancora che riuscissi a muovere un altro passo.
La mano sicura attorno al polso e la voce che invece tremava un po' intanto che "per favore aspetta" diceva titubante "ti dico solo questa cosa e poi se vuoi sei libero di andare."

Ci accomodammo di nuovo sui gradini, io un po' distante e con il cuore che galoppava nel petto.
Cercai di non pensare a nulla, sgomberare la mente e impedirgli di andare oltre quello che già aveva scoperto, ma una domanda insistente mi batteva nella testa: perché è qui con me e non con la sua fidanzata?

"Non ho mai detto che è la mia fidanzata" rispose prontamente e la sorpresa per la notizia non servi a placare l'ansia per questa sua nuova abilità.
"Ti giuro che non lo faccio di proposito!" si scusò subito dopo "Non sapevo nemmeno di esserne capace fino a pochi minuti fa, ma ti prometto che imparerò a controllarlo."
"Beh comunque può tornarti utile in altre circostanze" provai a stemperare la tensione "magari durante un esame o per far colpo su qualcuno..."
"Non- non ci riesco con tutti, Manu..."
"E perché con me si?"
"Perché funziona solo con la persona di cui sono innamorato."

Sgranai gli occhi e lo guardai come fosse pazzo.
Si, doveva esserlo per forza, solo un folle poteva dire una cosa del genere.
D'un tratto poi, mi sentii tremendamente in colpa, un'anima pura e candida come la sua che rischiava di sporcarsi per me che di buono non avevo nulla da offrire.

"Smettila di pensare queste cose" e pareva quasi implorarmi "smettila di vederti per quello che non sei!"
"Non so se te ne sei accorto" sibilai tornando di nuovo in piedi "ma io ho queste e questa" una mano passava rapidamente dalle corna alla coda "e non ci puoi fare nulla Simò! Io sono cattivo, vendicativo e incapace di amare, per quanto ci provi con tutte le forze. E tu invece sei un angelo bellissimo, amorevole e con me non hai nulla da spartire. Prima lo capiamo" le ultime parole sussurrate come se io stesso non volessi sentirle "meglio sarà per entrambi."

Simone da quel mio sfogo non sembrò minimamente toccato, anzi "io lo so che anche tu mi ami" affermò sicuro e l'insinuazione, seppur vera, mi innervosì ancora di più.
"Tu non sai proprio un cazzo!"
"Lo so invece, perché posso sentirlo" e prese a battersi piano una tempia "ma, anche se non potessi, l'avrei capito comunque, perché tu sai amare Manu! Ami Chicca, per quanto difficile sia, ami Anita, di cui parli come fosse il senso della tua esistenza, ami Bebù, che senza te forse sarebbe morto di stenti per strada. E lo fai e basta, senza importi di farlo, diversamente da me che, nonostante sto cerchio pendente sulla testa, quando ho potuto non ho esitato a comportarmi da stronzo..."

Aveva gli occhi velati di lacrime e il primo istinto fu quello di avvicinarmi, confortarlo e dirgli che qualunque cosa avesse fatto, sicuramente non era grave come credeva.
Non me ne diede tempo.

Riprese a parlare subito, quasi che avesse improvvisamente deciso di togliersi un peso.
"A 16 anni ho fatto un incidente" disse lapidario "avevo bevuto tantissimo, lo facevo sempre. Vedevo l'aureola, le ali, le aspettative di bontà che si riversavano su di me e le odiavo. Dovevo dimostrarmi perfetto, ma io volevo solo essere un adolescente come tutti gli altri, fare le mie cazzate e non pentirmi... una sera allora mi ubriacai fino a non capire più nulla e mi misi in moto, che tanto io sono un angelo, no? Che cazzo può mai capitare a me?"

Era palese dalla faccia il disprezzo che provava verso se stesso in quel momento e io, che intanto mi ero avvicinato per l'ennesima volta, non potei fare altro che guardarlo con tristezza e ragionare su quanto dolore portasse dentro.

"Pensavo solo a me, Manu" continuò senza più guardarmi "al fatto che, pure se mi fossi schiantato, un miracolo mi avrebbe salvato e non mi preoccupavo del male che potevo fare ad altri... che ho fatto ad altri."
Inorridii non appena il senso della frase si registrò nella mia testa, ma cercai di non darlo a vedere, non volevo che si sentisse giudicato, non con me.

"Che- che hai fatto?" domandai offrendogli una mano e sperando che non la rifiutasse.
La strinse immediatamente.
"Ho quasi ammazzato un cane" e non si premurò neanche di nasconderle tutte le lacrime che versava davanti alla mia faccia sempre più sconvolta "questo cucciolo di Labrador che stava ai bordi della strada e che ho visto all'ultimo secondo..."

"Rubi" pensai ad alta voce e lui asserì.
Mi disse poi, tra un singhiozzo, e l'altro che per evitarlo si era fracassato contro dei bidoni dell'immondizia, che a lui non era successo nulla, ma il cagnolino invece era terrorizzato, e che nonostante fosse ubriaco marcio non avrebbe mai scordato i suoi guaiti spaventati.

"In un primo momento provai pure ad andarmene" bisbigliò mortificato "come se nulla fosse successo, come se non avessi appena rischiato di uccidere un cucciolo... volevo solo dimenticare tutto, ma poi nel panico ho chiamato Laura e lei è volata lì da me e mi ha detto che il minimo che potessi fare era salvarlo dalla strada. Me l'ha dovuto dire lei, capisci? Io ero troppo stronzo per rendermene conto da solo..."

"Non sei stato stronzo" insorsi come risvegliato da un torpore.
Mi pareva di aver appena finito di vedere un film e che le luci della sala si fossero riaccese tutte assieme.
"Come fai a dirlo Simo'? Hai preferito schiantarti tu per non colpire lui!"
"Si ma è stato solo per senso di colpa che poi l'ho portato via con me!" si scaldò nel ribattere "tu invece perché hai preso Bebù? Perché l'hai tolto dalla strada?"

La domanda in teoria era semplice, ero pure convinto di averla una risposta, ma anche solo pronunciarla mi dava l'idea di essere ridicolo.
Vidi Simone annuire piano e mi ricordai di nuovo di quella sua abilità di navigare fra i miei pensieri.
"E' così Manu, puoi dirlo..." strinse ancora di più la mano che non aveva mai mollato.
"Per amore" sussurrai allora incredulo delle mie stesse parole "l'ho fatto per amore."

Non gli servì leggermi nella mente per capire che il pianto in cui scoppiai subito dopo era di liberazione.





Rimanere a casa di Simone era parsa la scelta più ovvia a seguito di quella chiacchierata a cuore aperto, con lui che mi asciugava le lacrime baciandomi le guance e io che pensavo solo a quanto stavo bene lì, a come non volevo andarmene via mai.
"Puoi- puoi restare se vuoi" propose insicuro e mi ritrovai ad annuire disperato.

La mattina successiva mi svegliai per primo.
Lo guardavo dormirmi accanto, tanto perfetto da non sembrare reale, e l'istinto di sfiorarlo prese subito a governarmi il corpo.
Non sapevo quello che potevo o non potevo fare, ma fosse stato per me l'avrei ridestato con delle carezze dolci sul viso, sull'addome scoperto, venerandolo come una reliquia sacra e lasciando segni del mio passaggio, per poi scendere fin sotto il lenzuolo leggero che pareva un velo su di lui e prenderlo lentamente, dirgli "sei mio" intanto che si risvegliava già affannato "sei mio anche mentre dormi, amore."

Non le lasciai nemmeno sostare nella testa quelle immagini, impedendo così che diventassero troppo nitide.
Provai anzi profondo imbarazzo, ricordandomi ancora una volta che era di un angelo che stavo parlando e non potevo fare nulla di quanto volevo.

"Manu..." sentii mormorare un attimo dopo e gli occhi che avevo chiuso per la vergogna li spalancai di nuovo.
"Manu" il naso di Simone era gelido contro il mio collo, paralizzato assieme al resto dei muscoli "io pure voglio..."
"Che- che vuoi Simo'?"
"Che mi chiami amore" attestò abbracciandomi "e che fai l'amore con me."
"Con te?"
"Tu con me, Manu."

Era meraviglioso sempre Simone, ma stretto attorno alla mia erezione e con le braccia intrappolate dalla coda che gli avevo legato sui polsi, diventava qualcosa di ultraterreno.

"Manu" pigolava fra le lacrime che gli rigavano il volto "Manu dimmelo ti prego."
E io che non sapevo negargli nulla "sei mio" rispondevo spingendomi nelle sue carni bollenti "sei mio, amore. Mio, mio, mio."
Venimmo così poi, tra fiotti di piacere a marchiarci a vicenda e membra esauste che ci fecero accasciare l'uno sull'altro.

Ne baciai i polsi dedicati, liberandoli dalla morsa che tanto aveva implorato, e un brivido mi percorse da capo a piedi appena posai di nuovo il capo sul suo petto.
Non ebbi neppure tempo di pensare al freddo percepito nonostante il lenzuolo, che le ali calde di Simone arrivarono ad avvolgermi portandosi via la sensazione di gelo che mi aveva pervaso per tutta la vita.

"Stai bene amore?" mi chiese premuroso.
Gli sorrisi emozionato.
"Adesso che ci sei tu, si."








———————————————————————

nota dell'autrice:
Grazie sempre del supporto, dei messaggi per sapere che fine avessi fatto e di tutto il bene che mi dimostrate e che non do mai per scontato ♥️

Ciao! 🧚‍♀️

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro