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7| Frances-Il futuro

2027, MCO

Ma, da quando Senna non corre più
Ah, da quando Baggio non gioca più
Oh no no, da quando mi hai lasciato pure tu
Non è più domenica


Quando avevano preso casa insieme, Charles non aveva ancora compiuto ventitré anni ed aveva appena firmato il contratto più lungo della storia con la Scuderia più famosa e vincente di sempre.

La sua carriera era iniziata in sordina, ma in pochissimo tempo il fiore all'occhiello del Principato aveva dimostrato di essere pronto a fare grandi cose e, com'era tipico di lui, ambizioni e buona volontà si erano concretizzati presto in risultati. Due vittorie, sette pole. Con l'anno nuovo, una stagione tutta da disputarsi, e, soprattutto, ancora speranza di trionfare avvolto dall'abbraccio rosso e festante che avevano sognato entrambi, quando erano piccoli. Almeno uno dei due ce l'aveva fatta, alla fine.

Veloce, invincibile, col mondo ai piedi.

Charles Marc-Hervé Perceval Leclerc.

Così giovane, così promettente, ancora tutto da costruire.

A quel tempo lei era già diversa, in qualche modo, già tormentata dalle cose che aveva perso e da quelle che non aveva avuto il diritto di sognare e di essere.

Eppure, quando avevano varcato la soglia dell'attico al numero 64 di Boulevard d'Italie, con una vista scenografica direttamente sulla spiaggia e sullo scorcio di mare più bello di Monaco, il cuore le si era fatto piccolo e insopportabilmente caldo nel petto. E si era convinta che, seppure dalla vita non aveva avuto tutto quello che le sarebbe spettato, di certo non aveva fatto nulla per meritare quello.

Il sorriso che Charles aveva quel giorno è scolpito nella sua memoria con precisione chirurgica, tanto che potrebbe disegnarne una riproduzione perfetta anche ad occhi chiusi, anche a distanza di anni. Aveva qualcosa di infantile, ma in senso assolutamente positivo. Sembrava essere tornato bambino, felice ed entusiasta per ogni cosa, come solo lui sapeva essere.

"Ti piace?" aveva chiesto impaziente davanti al suo silenzio, arricciando le labbra in una smorfia incerta. Aveva indicato l'ampio androne vuoto con un gesto accennato del mento, in direzione dell'imponente vetrata che tagliava in due il muro di fronte a loro.

Se chiude gli occhi e si concentra, Frances riesce a riavvolgere il ricordo nella sua testa come la bobina di una vecchia pellicola cinematografica, lo rivede sbattere le ciglia lunghissime, lanciarle un'occhiata decisiva, prendere fiato.

Ti piace?

A differenza di quanto chiunque avrebbe potuto pensare, la sua non voleva essere una domanda retorica, lui non ne faceva mai. Charles lo chiedeva sul serio, come se una ragazza di anni ventiquattro che aveva passato tutta la sua vita in un appartamento di quattro stanze nelle campagne di Valensole potesse non trovare bello un loft di quasi duecento metri quadri nel cuore del Principato, a picco sul amare.

"C'è tantissimo spazio" aveva detto lei, muovendosi a passi lenti verso la grande finestra che si apriva sul Mediterraneo e toccando coi polpastrelli il vetro freddo, lasciando il segno delle dita. Si era sentita stranamente intimorita alla sola idea di chiamare un posto del genere casa sua.

Le era sembrata l'ennesimo favore per cui avrebbe cercato di sdebitarsi per tutta la vita.

"Lo riempiremo coi nostri trofei" era stata la risposta di Charles. Secca, diretta, senza bisogno di pensarci su. Lui aveva gli occhi limpidi e luminosi come non lo erano da molto tempo, e Frances aveva trovato difficile sostenere il suo sguardo, specie considerando cosa stava per dire.

"È una vita che non vinco niente."

Anche se aveva lottato con tutta sé stessa per evitarlo, la mente era corsa agli anni sui kart, a Maman, a Pa' Roux, a Jules. Al glorioso esordio in Formula Renault. A come tutto era cambiato per sempre.

Aveva sentito il sapore acido della sconfitta risalirle dalle viscere e inondarle la bocca, ma non c'era traccia di imbarazzo nelle sue parole. Era una mera constatazione dei fatti, eppure bruciava ancora sulla pelle, nel cuore, dappertutto.

"Meglio" aveva ribattuto lui, alle sue spalle, a bruciapelo, cogliendola di sorpresa. La parola era piovuta dalle sue labbra salda e acuminata, come una freccia conficcata nella schiena. "Ne hai vinti così tanti quando eravamo piccoli che se non avessi smesso non sarebbero entrati nemmeno in dieci di queste case." Aveva aggiunto, addolcendo il tono.

Lei aveva socchiuso la bocca in una smorfia scontenta.

"Hai vinto molto più di me, Charlot" gli aveva fatto notare, quasi stizzita. Se c'era una cosa che odiava di Charles, era quanto si impegnasse per cercare di farla sentire meglio con sé stessa, anche quando si trattava di negare spudoratamente la realtà dei fatti.

"Solo perché ti sei ritirata." Aveva incalzato, con un sorriso nella voce. "Finché abbiamo fatto tutto insieme, non hai mai fallito nel battermi."

Quando si era accorto che era nuovamente sul punto di controbattere, le braccia di lui l'avevano stretta forte, da dietro, inglobandola in un abbraccio congestionante, uno di quelli capaci di mettere a tacere chiunque. Era seguita una sfilza di piccoli baci vicino all'orecchio, leggeri e ravvicinati, che Frances aveva accettato passivamente, sospirando.

"Lì ci metteremo il mio piano" aveva proseguito lui, indicandole il lato rivolto ad est.

Il cuore le aveva sfarfallato nel petto ed i ricordi avevano iniziato a riaffiorare, prepotenti ed inarrestabili. Un periodo lontano nel tempo, semplice, felice, familiare.

"Il tuo piano? Quello a casa dei tuoi, col tasto che fischia?"

La risata di Charles suonava come una canzone d'altri tempi.

"Non dirai sul serio, Fanny! Certo che no. Intendevo un nuovo piano, uno mio davvero."

E l'aveva presa in giro per dieci minuti buoni, lei e le sue idee strampalate, ma due settimane dopo, al loro trasferimento definitivo, in un angolo del salotto, sotto un quadro pop-art di dubbio gusto, troneggiava il vecchio pianoforte ingobbito dei Leclerc, centrino incluso.


*


Ed è tutto come lo hanno lasciato.

Coperto, per la maggior parte, da pesanti lenzuoli bianchi, ma ancora straordinariamente intatto e preservato nella sua integrità.

Da vuoto, l'appartamento le aveva dato l'impressione di essere arioso e vibrante–la luce che inondava tutte le stanze come oro liquido, i loro passi che rimbombavano fra le pareti con volte altissime e i pavimenti in marmo- mentre adesso le sembra a dir poco soffocante, pieno fino all'orlo di cose che sperava di non dover vedere mai più.

Cose sue.

Cose loro.

Ci sono perfino quelle scarpe orribili per cui avevano bisticciato una vita fa ancora allineate all'ingresso. L'angolo di una polo rossa che sbuca dal divano. Una valanga di posta non letta ammonticchiata sul mobile svuota tasche. La tessera del golf club insieme all'altro mazzo di chiavi, gemello del suo.

Vicino alla finestra, una pila di cartoni vuoti che non è mai riuscita a riempire, che le ricorda perché è passato così tanto tempo dall'ultima volta che è stata lì.

Non c'è ragione o discorso che tenga: il primo impulso che sente, viscerale e primitivo, è quello di andare via, fuggire da lì a gambe levate, fare dietrofront e tornare a Valensole, con la coda fra le gambe.

La verità, però, per quanto difficile da accettare, è che anche se lo facesse non cambierebbe niente.

Non puoi scappare dai fantasmi del passato quando ovunque tu ti giri non puoi dargli le spalle.

Mai, nemmeno volendo.

Frances si fa strada a denti stretti nell'androne e lungo il corridoio, senza degnare di uno sguardo le foto appese alle pareti, i quadri sbilenchi, la polvere sottile a coprire ogni cosa. Deve stringere i pugni per evitare di allungare il braccio e raddrizzarle, per impedirsi di dare un senso al disordine che la sua vita ha assunto negli ultimi anni.

È già in ritardo, si dice. Al resto ci penserà poi.

Dopo aver superato due bagni e una camera degli ospiti, Frances infila l'ultima porta sulla destra, quella della sua vecchia camera da letto. Indugia sulla soglia, ma non più di qualche secondo, la mano ancora sulla maniglia mentre osserva la sua immagine riflessa nella specchiera dell'armadio.

Si chiede se sia quantificabile, la differenza abissale fra la donna che ha di fronte e quella che ha abitato le pareti della stanza.

È invecchiata, indubbiamente. Le rughe di espressione attorno agli occhi si sono fatte più accentuate, le lentiggini sul viso sono diventate più scure e più numerose. Sotto la nuca ha un ciuffo di capelli bianchissimi che nasconde con cura. Le sono spuntati tutti assieme, un giorno di cinque anni prima. Per la paura, si dice.

Quel giorno ne ha avuta davvero tanta.

Anche se forse sarebbe più corretto dire che da quel giorno ha iniziato ad avere paura, e non ha mai smesso di averne.

Così come non ha mai smesso di sentire in fondo alla gola il sapore acre delle lacrime.

C'è qualcosa di doloroso nel modo in cui il suo corpo sente di appartenere a quegli ambienti, come se fosse un magnete che tenta di ricongiungersi col suo polo opposto.

L'unica cosa che la trattiene dallo sfiorare le lenzuola di seta col palmo aperto della mano, dallo scoperchiare tutti i ricordi contenuti nei cassetti, nella panca, fra le mensole, è il ticchettare inesorabile dell'orologio, che le ricorda l'appuntamento al Café de Paris, fra dieci minuti.

Non può andarci a mani vuote.

Con un sospiro si avvicina all'ampio guardaroba, e scosta un'anta per rivelare una fila di completi nelle loro custodie satinate, con su attaccati i bigliettini della tintoria. Non riesce a fare a meno di passarli in rassegna, uno ad uno. Gala di Montecarlo, festa per i Mille Gran Premi, cena di premiazione del 2022, ancora nel cellophane.

Respira a fondo, sperando di sentire un residuo lontano dell'odore di lui.

Poi si accuccia, con le ginocchia che le tremano, e allunga un braccio per tastare il fondo dell'armadio, alla ricerca della cosa più preziosa che Charles Leclerc abbia mai posseduto in tutta la sua vita.


//NOTA: Per una lettura interattiva, quando arrivi a questo punto, rispondi al box domande nelle storie instagram di @itstods_wattpad.


Frances siede con le gambe accavallate sulla sediolina in vimini del tavolino più appartato del caffè, subito dietro ad una grossa palma in vaso che oscura la visuale ai più curiosi. Di fronte ha una tazza di thè rosso fumante, e le mani strette a coppa attorno ad essa, col pollice che ne traccia il profilo con piglio irrequieto.

Non c'è quasi nessuno in giro a quell'ora, ma il suo interlocutore non passa comunque inosservato, per quanto gli anni e le circostanze abbiano cercato -invano- di renderlo squisitamente ordinario.

C'è qualcosa nel modo che ha di appoggiarsi allo schienale della sedia, come se lo possedesse, che tradisce la vera natura, il fuoco di fondo che lo ha sempre animato. Perfino la posa che assume per distogliere l'attenzione dal lato sinistro del suo corpo sembra studiata, regale ed enigmatica.

Lei, al contrario, non potrebbe essere più lontana dalla campionessa di Francia ch'era stata, da quella ragazzina piena di vita che sfidava la morte col numero sette stampato sul casco e sul petto.

Questo, si dice, è quello che distingue un vero campione da un impostore come lei.

Quando è entrata, trafelata, con le guance rosse per la corsa e gli occhi gonfi di pianto, lui era già lì, ad aspettarla, con i capelli più lunghi di quanto non ricordasse e gli occhi chiari splendenti come preziosi.

Il saluto è stato imbarazzato, forse perfino più di quanto si sarebbe aspettata. Non si sono scambiati sorrisi, né formule di cortesia, niente più che una stretta di mano di circostanza.

Sono rimasti a studiarsi, circospetti, a distanza di sicurezza, ed il cuore di Frances si è stretto al pensiero che anche loro, in ultima analisi, sono diventati due sconosciuti.

"Dobbiamo proprio registrare?"

L'uomo che le sta di fronte è il ritratto dell'impazienza. Le sopracciglia incurvate, la piega storta della bocca, il modo in cui le narici si dilatano leggermente ogni volta che respira. Anche se vorrebbe fingersi rilassato, tutto in lui freme per quello che sta per accadere. Non che sia ansioso di immergersi in quei ricordi dolorosi, anzi, come lei li ha evitati a lungo. Vorrebbe, piuttosto, che finisse tutto in fretta, che fosse una cosa rapida ed indolore.

È per questo che è rimasto spiazzato, quando lei gli ha chiesto di procurarsi un piccolo registratore digitale, dopo aver acconsentito ad incontrarlo. Ha provato a strapparle qualche dettaglio, ma Frances non ha ceduto di un passo.

Lui non ha segreti, per lei. Ma non è vero il contrario.

"Fran" la richiama, inclinando il busto e sporgendosi verso di lei.

Quando i loro occhi si incrociano, la risposta brusca con cui stava per zittirlo le si spegne in gola e tutto il risentimento che pensava di provare nei suoi confronti evapora in uno sbuffo.

Frances gli rivolge un sorriso caloroso, il primo che si scambiano da molto molto tempo, che stride con quello che si accinge a fare e perfino con quello che prova dentro di lei. Le piacerebbe che lui riuscisse a capire quanto sia difficile per lei stare seduta di fronte a lui in questo momento, come se niente fosse successo negli ultimi cinque anni.

"Per la tua intervista" risponde, stringendosi nelle spalle. Appoggia la tazza sul tavolino con le mani che le tremano. "Credo che dovresti ripensarci, ho così tante cose da raccontare che potresti scrivere un libro. Be', non è molto da te, questo è pur sempre vero."

Non è la verità.

Non è nemmeno una bugia.

Lui non sembra soddisfatto, in ogni caso.

"L'intervista?" esclama, aggrottando le sopracciglia. "Non m'interessa dell'intervista, Frances."

Il suo sguardo si incupisce ulteriormente, e l'intero volto si rabbuia, mentre fa fatica a trovare le parole giuste.

"Era una scusa, l'unica che avevo per parlare ancora con te." Sussurra, a volume appena udibile, come se le stesse confidando un segreto. "Volevo solo incontrarti. Sono anni che cerco di farlo."

Il suo tono è deluso, la voce incerta, zoppicante.

Ci sono così tante cose da dire, da dove iniziare?

"Conviene partire dal principio." Dice Frances, rispondendo a voce alta alla domanda che risuonava nella sua testa e schiacciando il tasto REC. "Sono nata il cinque giugno millenovecento novantasei, in Provenza. Non ho mai conosciuto mio padre, e per questo ho sempre vissuto con mia madre e i miei nonni e sono cresciuta con il nome di Frances Roux."

"Fran-" prova a troncarla lui, ma ormai lei va a briglia sciolta.

Man mano che parla, gli occhi le si riempiono di lacrime, ed è costretta ad alzare lo sguardo per impedire che le scivolino lungo le guance.

"Il vecchio Pa' Roux aveva fatto il meccanico per tutta la sua vita, e mi ha insegnato tutto quello che so. La prima volta che sono salita su un kart avevo tre anni e non sapevo andare nemmeno in bicicletta, ma da quel giorno non ho mai smesso di guidare, nemmeno un giorno della mia vita, per più di quindici anni. Mi sono allentata soprattutto nel kartodromo di un amico di famiglia, Philippe Bianchi, dove ho conosciuto il celeberrimo Charles Leclerc. All'epoca io avevo sette anni e lui sei, e devo dire che era veramente negato su quattro ruote. Altro che enfant prodige. Quello era un altro, era Max Verstappen, che ho e abbiamo incontrato più avanti, quando-"

"Frances" la supplica, stringendole il polso e spegnendo il registratore. "Ti prego, fermati. Basta."

Il respiro le si spezza in gola, quando si rende conto che la mano con cui la sta bloccando è la sinistra, coperta di cicatrici e deformata. Gli occhi di lui sono iniettati di sangue, imploranti.

Un minuto intero trascorre nel silenzio più totale, riempito solo dal rumore dei loro respiri affannati.

Per un bel pezzo entrambi sono convinti che l'incontro sia volto al termine prima del previsto.

"Non ho mai parlato di me e lui ad alta voce, nemmeno con te." Chiarisce Frances, poi, e la voce le trema un po'. Più di quanto si aspettasse. Decisamente più di quanto vorrebbe. "Da quando è successo, io-" inspira, per prendere coraggio. "Non è passato un singolo giorno in cui io non abbia pensato a lui. A noi. E so che è lo stesso per te. E non è sano, e ad un certo punto bisogna andare avanti." Dice, e il modo in cui lo guarda non ammette repliche. "Per questo dobbiamo registrare. Così potremo non parlarne mai più."

Con il palmo calloso copre la mano di lui, che ricambia il suo sguardo, con gli occhi azzurri screziati e vibranti, in attesa.

Frances ha sempre trovato incredibilmente affascinante il modo che lui aveva di guardarla come se fosse l'unica cosa all'interno di una stanza. Lo sta facendo anche adesso, anche se c'è qualcosa di diverso. Ora sembra quasi che questa cosa lo ferisca, un po'. Anche ricordarsi, dopo tutti questi anni, che lei è stata di un altro lo ferisce, probabilmente. Specialmente quando lui è l'altro.

Era.

"A che punto ero arrivata?"

È Max a schiacciare di nuovo il tasto play.


//Spazio autrice (con mille fusi di differenza)

BUONGIORNO AMICI! Nel cuore della (mia) notte, pubblico il capitolo SETTE, uno dei più importanti dell'intera storia. Twin Flames è un progetto molto ambizioso ed articolato, ha un po' di numerologia (State attenti ai capitoli coi numeri importanti ;)) e tanta, tantissima carne al fuoco.

Qui, nello specifico, ne abbiamo a volontà.

Un po' di risposte le avete avute, ma forse si sono sollevate più domande di quelle che avevate in origine, com'è giusto che sia. Devo ammettere che sono molto preoccupata dalla reazione che potreste avere a questo capitolo nello specifico, quindi sono apertissima a domande, dubbi e perplessità.

Spero di aver reso bene ancora una volta tutte le atmosfere e, soprattutto, di aver trasmesso il punto di vista di Frances in modo coerente senza svelarvi troppo.

Leggete, commentate, votate se vi va! Vi aspetto nei commenti e sul mio instagram per un commento più coerente. Domenica sicuramente ci saranno delle storie dedicate! (IG: itstods_wattpad)

E voi, ve lo aspettavate che Frances avrebbe incontrato Max? E cosa è successo nel 2022?

Grazie per il supporto, per gli scleri e per i feedback. TF è arrivata a più di 1000 visite, ed è solo al settimo capitolo. Siete magiche.

Baci a stelle e strisce da Boston,

Vostra sempre,T.




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