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30~ Lì in ginocchio

«Pensava di state lì in ginocchio ad aspettare la morte [...]»
~ Shadowhunters, Città del Fuoco celeste


Non sapeva da quanto tempo stesse aspettando.

Era fermo lì, davanti alla porta chiusa, la mano aperta che poggiava sul legno, lo sguardo vitreo, da parecchio.

Stava racimolando briciole e cocci della forza di volontà rimanente, assemblandoli meglio che poteva per riuscire ad aprire quella porta che tuttavia gli sembrava fatta di cemento, pesante e impossibile da spingere.

Sapeva bene che, in realtà, erano i ricordi, i rimpianti e il dolore che la rendevano così dura.
Non sapeva se sarebbe mai stato pronto ad aprirla, in effetti.

Eppure non aveva altra scelta: doveva recuperare oggetti che erano nella camera.

-Jace?-

La voce di Alec lo costrinse a voltarsi, e lo vide procedere esitante lungo il corridoio illuminato dalle stregaluci, i capelli scuri in disordine e gli occhi che sembravano brillare, chiarissimi nella luce soffusa.

-Non ce la faccio, Alec.- disse, cercando inutilmente di celare il tremore della voce.
-Jace, ma...-
-Non ce la faccio.- ripeté, la vista appannata dalle lacrime.

Le sue unghie corte raschiarono il legno quando chiuse la mano a pugno e spinse con forza le nocche contro la porta, l'anello d'adamas che si imprimeva nella carne.

-Jace...- la voce di Alec era carica di compassione mentre gli si avvicinava ancora e gli posava una mano sulla spalla.
-Non posso farcela, Alec, non posso! Ho un figlio da crescere! Un figlio! Come faccio a crescere un figlio, quando neanche so com'è essere bambini? Come faccio a insegnargli ad amare, quando il mio amore è morto? Come faccio ad insegnargli la bellezza, se la bellezza nella mia vita l'ho persa? Come posso farlo ridere, se non riesco nemmeno ad immaginare di poterlo più fare? Come posso fare tutto questo?! Come?!- il tono di Jace crebbe come un'onda, travolse completamente il corridoio silenzioso e lo rese pieno di suoni spezzati, carichi di agonia e sofferenza.

Senza rendersene conto, cominciò a martellare la porta con i pugni, come se colpendola potesse colpire il proprio supplizio; come se colpendola, potesse colpire ciò che era accaduto, e potesse ritornare indietro, quando quella porta portava ad un luogo sicuro.

-Jace. Jace! JACE! Per l'amor del Cielo!, smettila, smettila!-
-COME? COME?!- continuava ad urlare contro la porta, quasi aspettando che questa potesse dargli le risposte di cui aveva bisogno.

Come?
Come faccio a vivere, senza di lei?
Come posso vincere questo dolore?
Come posso amare, senza farmi male?

Le braccia forti di Alec lo presero per le spalle, e lo tirarono indietro, lontano dalla porta e lontano da quella che fino a poco tempo prima era stata la camera sua e di Clary.

Alec lo spinse lontano e lui vacillò, cercando di reprimere le lacrime che cercavano ancora di uscire, che spingevano contro i suoi occhi per venire alla luce, che gli impedivano di vedere ciò che lo circondava.

Per qualche attimo di oblio si chiese se sarebbe sempre stato così, se quello fosse solo una metafora della propria vita: il dolore gli avrebbe impedito per sempre di vedere la realtà?

-Non è così che risolverai le cose,Jace! Per l'Angelo, hai un figlio, adesso! Non puoi più permetterti di morire! Vivi, Jace, vivi per lui!- tuonò Alec, che fissava il parabatai con occhi ardenti, stagliato davanti alla porta, i pugni chiusi, imponente.

Jace cadde in ginocchio, lo sguardo alzato, le braccia stese lungo i fianchi, i palmi aperti, le mani doloranti.
-Come?- esalò un'ultima volta, guardando il cielo e pregando che almeno lui gli desse una risposta.

-Trova la forza dentro di te. Puoi farcela, Jace, io so che puoi. E lo sapeva anche Clary. Lei ti ha amato, adesso amati tu. E ama tuo figlio, e insegnagli a farlo come ha fatto sua madre con te.-
Amalo come ami me, gli diceva Clary nella sua testa.

Alec si piegò sulle ginocchia, in modo che fosse all'altezza di Jace, e lo guardò con i suoi occhi chiari da sotto i capelli scuri.

Gli posò una mano sul suo petto, all'altezza del cuore, sentendolo battere furioso sotto il suo palmo.
-É in questo cuore ciò che sei davvero, Jace. In questo cuore.- mormorò, aspettando qualche secondo prima di alzarsi.

Jace lo guardò dal basso, rivedendo in lui quel ragazzino scontroso ed impacciato che l'aveva sempre aiutato a rialzarsi.
Adesso Alec non era più un ragazzino, non era più né scontroso né a disagio con sé stesso, ma ancora lo aiutava quando crollava.
Certe cose non sarebbero mai cambiate.

Alec si allontanò, percorrendo il corridoio con le mani in tasca e il mento alto, dandogli le spalle e lasciandolo solo ad affrontare ciò che doveva.

Jace lo guardò andarsene prima di riportare l'attenzione sulla porta chiusa.
Certe cose, invece, cambiavano troppo in fretta.

Il biondo si rialzò in piedi, osservò per qualche istante da lontano la sua sfida, dopodiché strinse le mani a pugno, e con passo spedito si avvicinò, impugnò la maniglia, la abbassò con forza e spalancò la porta, facendo irruzione nella camera.

Gli si mozzò il fiato in gola quando l'immobile normalità della stanza lo travolse, facendolo illudere che nulla fosse successo.

Tutto era esattamente come l'avevano lasciato: il letto ordinato, l'armadio chiuso - tranne per quell'anta difettosa che rimaneva sempre socchiusa-, la porta del bagno spalancata, aggeggi vari sul comodino di Clary, perché il suo era di un ordine maniacale.

L'odore della ragazza permeava l'aria, e Jace quasi si sentì male.
Un impellente senso di nausea gli agitava lo stomaco: se avesse potuto, avrebbe vomitato anche l'anima, il cuore, la sua intera essenza.

Con decisione ricacciò l'acido in gola, e si avvicinò ai cassetti.
Aprì il suo, sperando di avere una qualche coperta per coprire suo figlio dal freddo: rovistò con impazienza, sperando fino all'ultimo di avere qualcosa, ma con dolore si rese conto che la sua era solo un'utopia.

Quella che aveva coperte era Clary, non lui.
Quella che le teneva riposte alla rinfusa nell'angolo del cassetto, pronte al primo accenno di freddo, era lei, non lui.
Quella che le aveva sempre comprate, facendolo impazzire quando giravano per i negozi alla ricerca di quelle con le fantasie più bizzarre, era lei, non lui.
Ed era il cassetto di lei, non il suo, quello che doveva aprire.

Jace sospirò, massaggiandosi il petto quando un dolore sordo gli pervase il cuore.
Esitando, aprì il cassetto di Clary, e il suo odore gli fece tornare la nausea.

Clary non era mai stata disordinata, ma neanche eccessivamente ordinata, come lui.
Il suo cassetto conteneva vestiti piegati con cura, morbidi e profumati.

Eppure l'attenzione di Jace fu catturata da una lettera pista sopra questi.

La prese con le dita che tremavano.
Sopra alla busta, con la calligrafia tondeggiante della ragazza, c'era scritto il suo nome.
Per Jace.

Senza che avesse il tempo di aprirla, corse in bagno.
E finalmente vomitò il dolore.

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