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11~ Contro la pietra

«Si rannicchiò lì, con la faccia premuta contro la pietra, fremendo sulle ginocchia.»
~ Shadowhunters, GotSM, "Forever Fallen"

Quando varcarono la soglia dell'Istituto, trovarono Kit all'ingresso che intratteneva Rafael, Max e Mina.

Erano stati abbastanza disperati da affidare i bambini alle cure del ragazzo che ancora non era un vero e proprio adulto, e lui si era sentito per un attimo un baby-sitter, o comunque, una persona non abbastanza importante per venire in missione con loro.

Quando però Kit vide il corpo esanime di Alec tra le braccia di Jace, il cuore gli si strinse in una morsa dolorosa.

Il console ancora non aveva smesso di sanguinare, e le mani di Jace erano piene di sangue, così come la divisa.
Era pallido, gli occhi dorati viravano alla disperazione.

Dietro di lui, Magnus lo seguiva come un automa, quasi senza rendersi davvero conto di ciò che stava accadendo.

Isabelle piangeva e Simon la teneva stretta.

Jem e Tessa aprivano quella sorta di corteo, e si precipitarono verso l'ascensore, scambiandosi occhiate preoccupate tra loro.

A chiudere la fila c'era Clary, spaventata, cercava di mantenere il controllo e Kit lo vedeva dallo sguardo stravolto che aveva.
Eppure aveva il mento alto, la postura fiera, lo stilo ancora in mano -evidentemente per arrivare prima avevano usato un portale.

Chiuse il portone alle sue spalle e si diresse verso di lui e i bambini.
Max e Rafe erano pietrificati, anche se confusi: non capivano cosa fosse successo al padre, ma sapevano che era qualcosa di brutto.

-Kit, ho bisogno del tuo aiuto.- gli disse Clary, seria, quando fu di fronte a lui.

Non doveva avere molti anni più di lui - forse quattro- ma sembrava molto più grande.
In quello sguardo Kit capì finalmente quanto il dolore potesse cambiare.

Aveva incontrato i Blackthorn, certo, aveva vissuto con loro per un certo periodo, eppure furono gli occhi di Clary a raccontargli di guerre, vittorie e sconfitte forgiate nel sangue e nelle lacrime.

-Farò tutto ciò che posso per essere d'aiuto.- affermò, pensando che Clary gli avrebbe chiesto di badare ai bambini.

Quando la ragazza gli posò la mano sulla spalla, lui percepì quella stretta salda, nonostante le sue dita fossero piccole.

-Ho bisogno che tu vada al Mercato delle Ombre di New York e che raduni quanti più Nascosti possibili. Alec è il Console degli Shadowhunters, è vero, ma è anche molto amato dagli altri: quando sapranno ciò che è accaduto, si uniranno a noi. Alec glielo avrebbe chiesto, ma non ne ha avuto il t-tempo.- la voce di Clary tremò un poco, ed i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Ma non pianse.

-Sì. Sì, d'accordo, lo farò.- accettò il ragazzo, mentre una strana adrenalina gli scorreva nella vene.

-Grazie, Kit...vai, adesso. E mi raccomando fai attenzione.- si raccomandò.

Il ragazzo si separò da lei e si avvicinò alla porta.
-Kit, aspetta!- si ricordò Clary.
Lo raggiunse e gli mise in mano una spada angelica e un pugnale.
Lui prese le armi, le osservò per qualche istante e poi uscì.

Clary vide la notte ingoiarlo, e pregò Raziel affinché tutto andasse bene.

-Zia Clary...- la vocina di Max le fece stringere il cuore.

Si inginocchiò per essere alla sua altezza.
Non riusciva a guardarlo senza che le lacrime le inumidissero gli occhi.

-Papà...?- la parola di Rafael era una domanda inespressa.
Stava dritto accanto al fratello, la mano che gli stringeva con forza la spalla.

-Bambini, ecco...vostro padre si è fatto male mentre combatteva, e adesso lo stanno portando in infermeria.- spiegò Clary.

-Ma papà risolverà tutto...lui ha la magia!- esclamò Rafael, rassicurato dal potere di Magnus.

A Clary sfuggì un singhiozzo.
Stava trattenendo da troppo tempo le lacrime, sapeva che prima o poi sarebbe scoppiata.
Si impose di trattenerle ancora, per non farlo di fronte ai bambini, e non spaventarli.

-A volte la magia non basta, Rafe...- sussurrò con quel poco di voce che aveva.

I bambini la guardarono con gli occhi spalancati.

Clary si alzò, prelevò Mina dalla sua culla e si diresse verso l'ascensore, seguita da Max e Rafe.

Li guidò verso il soggiorno e si preparò mentalmente a distrarli per abbastanza tempo, perchè mentre gli altri si affaccendavano attorno al capezzale di Alec, a lei toccava occuparsi di chi era ancora troppo piccolo per capire.

Quando entrò nella sala, però, trovò Tessa a camminare su e giù, consumando il pavimento.
Alzò lo sguardo quando sentì la porta aprirsi, e si avvicinò a Clary per prenderle Mina dalle braccia.

-Io ho fatto quel che ho potuto: ci sta pensando Jem, adesso, con i Fratelli Silenti. Anche Magnus sarebbe d'aiuto, ma è come se fosse entrato in stato di shock.- spiegò rapida ed efficiente.

-E Jace?-
-É con lui: sono parabatai, la forza di Jace aiuterà Alec a guarire.-
-Ce la farà?- fu una vittoria porre quella domanda senza che la voce tremasse.
-Non lo so, Clary. Ha perso molto sangue, forse troppo.-

La ragazza annuì, uscì dal soggiorno e si precipitò verso l'infermeria.
La porta era chiusa, ma all'interno c'era movimento.

Fuori, Isabelle era appoggiata al muro, sembrava avesse finito le lacrime. Simon le stava mormorando qualcosa, ma Clary non poteva sentire cosa.

Magnus era accasciato contro un'altra parete, un taglio sullo zigomo, lo sguardo vitreo.

La porta dell'infermeria si aprì, e Jem ne uscì con i capelli in disordine, le vesti sporche di sangue e un'espressione afflitta.

Calamitò l'attenzione di tutti.
-Alec?- chiese Isabelle, la voce che tremava incontrollata.

-Non è abbastanza forte per le rune: non funzionano.- Jem abbassò lo sguardo, come se percepisse su di sé il peso di ciò che non era riuscito a fare.
-Mi dispiace.-

Isabelle ricominciò a piangere.
Simon aveva gli occhi spalancati, le mani chiuse a pugno.
Magnus sembrò svegliarsi dal suo stato.

Le lacrime gli rigavano il viso, crepitava di energia azzurra, la sua magia sembrava avvolgerlo e innalzarlo: Clary non l'aveva mai visto così.
Quando uno straziante grido di dolore uscì dalle sue labbra, la ragazza fuggì.

Scappò per l'Istituto senza badare a dove stava andando, e si infilò nella prima stanza che trovò.

Chiuse la porta e si accasciò a terra.
Il pavimento era freddo, e lei ci batté il pugno contro, una, due, tre, quattro, cinque, innumerevoli volte.

Voleva farsi del male: sperava che il dolore fisico avrebbe sopraffatto quello del cuore, ma non fu così.

Si ritrovò da sola a piangere, la mano dolente che spingeva contro le labbra, annaspando tra i singhiozzi continui e le lacrime.

Le aveva trattenute troppo a lungo, e quando vennero fuori, l'effetto fu devastante.

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