Capitolo 55.
La mattina seguente Nadia si alzò dal letto con terribile cerchio alla testa. Gli occhi le bruciavano come se ci fossero degli spilli all'interno e sentiva la gola secca. Aveva in bocca ancora il sapore dell'alcool della sera prima e nella mente le vorticavano senza sosta una miriade di immagini e ricordi confusi.
Ricordava vagamente quello che era successo alla festa delle Aquile: sapeva perfettamente di avere esagerato con i drink. Di quello ne era perfettamente consapevole. Ricordava anche di aver passato quasi tutta la serata con Ada, che aveva riso e si era divertita come una matta a vederla delirare. Non aveva bene a mente il numero di persone con cui avesse parlato. Però qualcosa le diceva che ce n'erano state diverse, anche se non riusciva più a mettere a fuoco i loro volti.
Quello di cui sicuramente non si sarebbe mai dimenticata era la sfuriata che aveva fatto ad Anita nel giardino di fronte al Club. Chiudendo gli occhi, poteva ancora sentire l'adrenalina che le scorreva nel sangue. Forse aveva esagerato con lei, urlandole i peggiori insulti di cui avesse disposto nel repertorio. Non si era mai comportata in quel modo, prima di quel momento. Era sempre stata una ragazza piuttosto composta e morigerata. Ma, evidentemente, la sera precedente aveva raggiunto il limite. Anita meritava quelle parole, perché aveva ammesso di averla registrata.
Nonostante i ricordi del suo litigio con Anita fossero i più fulgidi, non aveva scordato quello che le aveva detto Mattia. Anche le sue parole le erano rimaste impresse nella mente, permeandola di sentimenti contrastanti: da una parte si sentiva ancora arrabbiata con lui. Odiava il fatto che desse così tanta fiducia ad Anita, quando lei era stata sempre la prima a tramare qualcosa contro. Odiava con tutta se stessa il fatto che Mattia non contemplasse minimamente l'ipotesi della sua colpevolezza. Ma, dall'altra parte, era stata felice di averlo rivisto dopo la loro precedente separazione. Era ovvio che lo amasse ancora, ma non poteva sorvolare sopra quello che era successo tra loro. Soprattutto quando le questioni della registrazione e dei soldi erano ancora in ballo.
Non sopportava l'idea che qualcuno volesse screditare l'immagine di sé e distruggere tutto quello che aveva creato con Mattia. Era meschino, subdolo... malato.
Nadia scosse la testa, nel tentativo di eliminare quei pensieri paranoici, e si alzò dal letto. Con la coda dell'occhio, notò il bicchiere d'acqua e una scatola di antidolorifici accanto poggiati sul comodino, assieme a una tazza di tè e a un pacchetto di biscotti.
Ada.
Con un sorriso, afferrò un biscotto e lo masticò lentamente. Sotto alla confezione c'era un post-it rosa, scritto e decorato con una calligrafia che ormai conosceva a memoria: "Ho il turno al pronto soccorso stamattina. Quando ti sarai svegliata, prendi una pillola. Ma non scordarti di fare colazione, prima! La tua infermiera prediletta".
Nadia lesse il biglietto con la stessa voce di Ada ed eseguì i suoi ordini. Non vedeva l'ora di farsi passare quel maledetto mal di testa.
Dopo aver fatto colazione e atteso l'effetto della medicina, decise di farsi una doccia rilassante. Sentiva ancora addosso l'odore del fumo e della Vodka, uniti in un mix rivoltante. Quando entrò nella doccia, impostò l'acqua a una temperatura elevata e si spogliò, nascondendosi in un mare di schiuma e vapore. La sensazione delle gocce bollenti sulla pelle la fecero rabbrividire e sciogliere allo stesso tempo, rimettendola al mondo. Si sentiva divinamente, del tutto rigenerata.
Appena uscì dalla doccia, si avvolse nell'accappatoio e cominciò ad asciugarsi di fronte allo specchio. Lasciò i capelli umidi e mossi e tornò in camera giusto in tempo per sentire il telefono squillare.
Ancora scalza, saltellò sul pavimento gelato e raggiunse il letto, dove stavano sparpagliati sopra i suoi effetti personali. Afferrò il cellulare e alzò gli occhi al cielo, quando lesse il nome di Ada sulla schermata principale. Quella ragazza era davvero incorreggibile.
«Buongiorno, mia premurosa infermiera», la salutò, trattenendo una risata. «Se mi hai chiamata per controllare che fossi ancora viva, hai appena ricevuto la tua risposta. E grazie per la medicina. Sei un tesoro.»
Dall'altra parte del telefono ci fu un sospiro teso, poi il silenzio, alleggerito solo da una serie di suoni e mormorii nel sottofondo. «Nadia, sei a casa?»
Lei corrugò le sopracciglia e iniziò a raccattare gli occhi sparsi alla rinfusa sul letto. «Certo. Dove dovrei stare?»
«Ascolta», Ada trattenne il respiro e fece una piccola pausa, «non voglio spaventarti.»
«Che cosa succede?» le domandò Nadia, con la voce tremante. Non si aspettava quel genere di chiamata da parte sua e la cosa la mandò subito in agitazione.
«Dovresti... Magari dovresti sederti un momento.»
Ma lei rimase in piedi, ormai con il cuore in gola e la testa nel pallone. «Che cosa è successo, Ada?»
Ada rimase in silenzio per qualche secondo, come se fosse indecisa tra il continuare e il non. «Ti sto chiamando dalla clinica. Stanotte, verso le quattro del mattino, c'è stato un incidente stradale. È successo a cinque chilometri dall'università... C'era un albero - un faggio, hanno detto - ed era molto grande... La macchina ha sbandato, ma non sanno ancora...»
Nadia sbatté le palpebre, cercando di trovare il filo logico nel discorso delirante dell'amica. «Ma di cosa stai parlando, Ada? Un incidente?»
«Nadia...»
Ma, in quel momento, Nadia capì. Le ginocchia le cedettero e si lasciò cadere sul letto, priva di ogni forza. «Si è fatto male qualcuno, vero?»
«Dovresti venire in clinica, appena puoi.»
«Di chi era la macchina, Ada? Chi guidava l'auto che ha avuto l'incidente?» le chiese ancora lei, con la voce rotta. Iniziava a girarle la testa e aveva paura di continuare a sentire il resto.
Ada sospirò sul microfono. «Di Mattia. Era lui alla guida dall'auto.»
***
Mezz'ora dopo, Nadia varcò le porte scorrevoli della clinica privata in via Porro. Era corsa fuori dall'appartamento trafelata, con le lacrime agli occhi e i polmoni che le bruciavano. Era sotto shock, ancora non del tutto consapevole delle parole di Ada, ma non si era fermata nemmeno per un momento a rifletterci. Era conscia soltanto del fatto che Mattia avesse avuto un incidente grave, nella notte scorsa, dopo che l'aveva salutata nella sua camera. Le aveva riferito che sarebbe andato da Diego per parlargli, ma qualcosa lo aveva fermato prima, e adesso se ne stava sdraiato su qualche brandina d'ospedale, a lottare tra la vita e la morte.
Come poteva credere a questo? La notte prima le aveva sorriso e le aveva detto che l'amava e il giorno dopo non sapeva nemmeno se ce l'avrebbe fatta a riaprire gli occhi per guardarla ancora.
Si cancellò dal viso le tracce del pianto sbottonò la giacca, abbandonandola su una sedia a bordo corsia. Stava sudando freddo, sia per la paura, sia per la corsa che aveva fatto per raggiungere la clinica.
Si guardò intorno e cercò qualcosa che le potesse far capire dove andare. Ma tutti i cartelli erano sfocati e le voci attorno a lei confuse. Per un attimo, la vista le divenne nera e un sibilo nelle orecchie coprì ogni altro suono.
«Signorina? Signorina, si sente bene?» le domandò un'infermiera, afferrandola per il braccio. La stava guardando con gli occhi di fuori.
Nadia scosse la testa. «No... No che non mi sento bene.»
«Vuole sedersi?»
«Dov'è lui? Dove lo hanno portato?»
La giovane donna mostrò un'espressione confusa e lanciò un'occhiata esasperata alla collega dietro al bancone dell'accettazione pazienti. «Chi sta cercando? Vediamo se posso esserle d'aiuto.»
«Il mio ragazzo...» Nadia si portò le mani sul volto e massaggiò le tempie. «Lui ha... ha avuto un incidente. Ho bisogno di vederlo.»
L'infermiera le poggiò una mano sulla spalla in segno di conforto e l'accompagnò a sedere. «Mi dica il suo nome e vedrò come posso aiutarla. Nel frattempo, però, cerchi di stare tranquilla. Sicuramente i nostri dottori staranno facendo del loro meglio.»
«Mattia Silvestre. Ha vent'anni... capelli castani, occhi marroni... Per favore, mi aiuti. Ho bisogno di sapere dove si trova.» Nadia le strinse la mano e la pregò in silenzio.
L'infermiera annuì e raggiunse rapidamente la collega dietro al bancone. Tirò su la cornetta del telefono e compose un numero, mentre controllava il registro d'entrata sul computer. Dopo qualche minuto, tornò da lei, con un sorriso impostato ma cortese.
«Il signor Silvestre è stato trasportato al nostro pronto soccorso con un codice rosso, ma i medici del reparto gli stanno preparando la cartella clinica per il trasferimento nella terapia intensiva.»
«Dove... dove posso trovarlo? Devo vederlo, capisce?» balbettò Nadia, scattando in piedi.
«L'infermiera del reparto mi ha comunicato che le visite sono attualmente vietate. Ma stia tranquilla, signorina. I genitori del suo ragazzo sono già arrivati e a breve saranno messi al corrente della situazione.»
«Della situazione?» ripeté Nadia, a bocca aperta. «Voglio sapere come sta! È un mio diritto saperlo!»
La donna mantenne la calma, senza abbandonare i modi cortesi. «Mi rincresce, signorina, ma attualmente il paziente è in prognosi riservata per volontà dei suoi genitori. Non possiamo dirle di più.»
«Prognosi riservata? Mi sta prendendo in giro?» sbottò lei. «Se non mi dice dove diavolo posso trovarlo, giuro che inizierò ad aprire porta dopo porta!»
«Signorina, la prego di non fare...»
Ma Nadia si scrollò dalla sua presa e l'allontanò con una spinta. «Non me ne frega niente di quello che dice. Ho ben altro da pregare, adesso.» E detto ciò, s'inoltrò come una furia nel corridoio di Medicina Generale della clinica.
Doveva trovare il pronto soccorso. L'infermiera le aveva detto che era arrivato lì, ma che presto sarebbe stato trasferito in terapia intensiva. Questo non voleva dire niente di buono, ma già saperlo vivo la faceva sentire meglio.
Non appena arrivò di fronte alla caffetteria, qualcuno la strattonò per la manica e la tirò in un corridoio. Nadia si voltò di scatto e vide Ada. Indossava la casacca bianca della clinica e aveva accanto un carrellino metallico per le medicazioni.
«Sei arrivata, finalmente», le disse a bassa voce.
Nadia le strinse la mano e la fissò, esasperata. «Dove sta lui?»
«Al secondo piano. Lo hanno appena trasportato in terapia intensiva.»
«Ma come sta? Ho parlato con un'infermiera all'ingresso, ma non mi ha potuto dire niente!»
Ada si guardò attorno e le fece cenno di parlare piano. «Per il momento, solo i medici e gli infermieri del reparto hanno accesso alla sua cartella clinica. Io l'ho solo visto solo arrivare e...»
«E?» la spronò Nadia. «Quanto è grave la situazione, Ada?»
Lei sospirò. «Non ti voglio mentire. Credo che sia piuttosto grave. Insomma, non ti trasferiscono in terapia intensiva per qualche escoriazione di poco conto.»
Nadia cominciò a camminare su e giù per il corridoio. «Non sai nient'altro?»
«È in prognosi riservata fino ai prossimi controlli medici.»
«Devi portarmi da lui. Per favore.» Nadia si fermò e guardò fissa negli occhi l'amica, che sussultò.
«Sai che non ho le competenze per-»
«Per favore. Se Mattia sta così male, ho bisogno di stare con lui. Non possono negarmi di vederlo. È... È il mio ragazzo, Ada. E tu sei l'unica persona che mi potrebbe aiutare.»
Ada strinse le labbra, indecisa sul da farsi, poi sospirò. «D'accordo. Ti farò entrare nel reparto e proverò a leggere la sua cartella clinica. Ma, ti prego, non mettermi nei guai, Nadia. Potrebbero cacciarmi, per questo.»
Lei annuì, seria. Doveva correre il rischio.
«E se qualcuno ti chiede come sei entrata...»
«Dirò che ho trovato il reparto da sola.»
L'amica riprese a trasportare il carrellino lungo il corridoio e raggiunse l'ascensore. Quando le porte si chiusero e rimasero sole all'interno, mollò i braccioli metallici e abbracciò Nadia. «Mi dispiace così tanto... Cerca solo di essere forte. Lui ne ha bisogno.»
Nadia annuì e trattenne le lacrime. Non doveva piangere. Non lì. Non ancora.
L'ascensore emise un bip meccanico e le porte si spalancarono di fronte al reparto della terapia intensiva. Ada impostò di nuovo un'aria professionale e le fece l'occhiolino, prima di entrare nell'area riservata e lasciare l'ingresso libero per Nadia, che s'intrufolò all'interno silenziosamente. Da lì, rimase sola, in piedi di fronte a un corridoio poco frequentato dalle pareti celesti.
Non c'erano molte stanze, ma ognuna di queste era singola e dotata di una grande finestra. All'interno, la privacy dei pazienti era garantita da separé bianchi e anonimi. Tutto, lì dentro, odorava di disinfettante e paura. Le facce di coloro che passeggiavano su e giù, come delle anime in pena, erano stinte e preoccupate, così come quelle degli infermieri che entravano e uscivano dalle camere dei ricoverati.
Uno di questi, un uomo robusto sulla cinquantina, l'avvistò da lontano e le corse incontro, vedendola spaesata. La guardò allarmato e poi notò la porta del reparto aperta. «Mi scusi, ma in questo reparto si accede solo con un'autorizzazione del caposala, signorina. Devo chiederle di uscire.»
Nadia scosse la testa e lo fissò, con gli occhi sgranati. «No, la prego. Sto cercando... Sto cercando il mio ragazzo, Mattia Silvestre. Lo hanno trasferito qui dal pronto soccorso. Mi hanno detto che è grave e... devo vederlo. Per favore.»
L'uomo sorrise, comprensivo. «Per questioni di sicurezza, possono entrare pochi visitatori alla volta. Adesso ci sono i genitori con lui. Sono sicuro che la metteranno al corrente di tutto, non appena usciranno.»
«Quando potrò vederlo?» chiese Nadia, guardando oltre le spalle dell'infermiere. Stava cercando d'individuare la stanza di Mattia, o per lo meno, qualcuno di familiare.
«Non lo so, signorina. Le informazioni sono riservate ai medici e ai genitori, per il momento. Deve solo attendere.»
Nadia rise, fuori di sé. «Deve solo attendere... Deve solo attendere. La fa facile lei! Il mio ragazzo sta rinchiuso in una di queste stanze, in chissà quali condizioni! Sono stufa di sentirmi dire di attendere! Io non attendo un bel-»
Ada la interruppe nel mezzo della sfuriata e raggiunse l'infermiere. Gli toccò la spalla e lo prese da parte. «La stanno cercando nella sala degli infermieri», gli comunicò.
L'uomo aggrottò le sopracciglia e si grattò la fronte. «Posso sapere chi è lei? Non credo di averla mai vista in questo reparto.»
Ada sorrise. «Stagista del pronto soccorso. Mi manda il dottor Tancredi. Sa, per quel caffè...»
Il volto dell'infermiere s'illuminò. «Ah, certo, certo. Be', la mia pausa comincia tra cinque minuti. Faccio uscire questa ragazza e vado.»
«Oh, non si preoccupi. Mi occupo io di lei. L'ho già conosciuta al pronto soccorso... So come gestirla.» La ragazza sorrise all'uomo e poi fissò Nadia. «Vuole seguirmi, signorina? Vedrà, andrà tutto bene.»
L'infermiere guardò le due allontanarsi e tirò su le spalle, prima di uscire dal reparto e raggiungere la rampa di scale.
«Ti avevo detto di fare attenzione!» la rimproverò Ada, non appena rimasero da sole.
«Che cosa hai scoperto?» tagliò corto Nadia.
Lei sospirò e abbassò il tono di voce. «Ho letto il verbale del pronto soccorso. È arrivato in clinica in stato d'incoscienza. Lo hanno estratto dalle lamiere dell'automobile i vigili del fuoco. Lui ha... diverse ferite, alcuni piuttosto gravi. L'impatto contro l'albero è stato forte. È un miracolo che sia ancora vivo.»
«Cosa gli stanno facendo, adesso? Perché non può vederlo nessuno?»
«Perché è in coma, Nadia.»
Angolo dell'autrice.
Eh no, l'agonia non è ancora finita. Odio dover scrivere questi capitoli dolorosi e strappa lacrime. Credetemi, non è affatto facile perché distruggono la voglia di vivere anche a me. Però devo farlo, perché siamo agli sgoccioli.
Prossimo capitolo, nuove emozioni. Tante, tristi, troppe, necessarie. Siamo vicini alla fine alla verità. Commentate, fatemi sentire che ci siete! :3
Bacioni, A.
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