Capitolo 1.
Un paio di occhi color nocciola la fissarono intensamente dall'alto. Per un momento, il suo volto rimase serio, composto. Era davvero bellissimo, anche senza alcuna espressione facciale. Nadia fece per allungare la mano verso la sua guancia. Voleva accarezzarlo e incastonare nel cervello quella scena. Ma poi le labbra del ragazzo si distesero in un sorrisetto ghignante, quasi cattivo. Subito ritrasse la mano, spaventata. Rimase immobile e con il fiatone a guardare la sua trasformazione. Adesso la persona che gli stava di fronte non era più attraente e dolce, ma soltanto un miscuglio di emozioni negative. Lui rise ad alta voce, e il suono echeggiò in tutta la stanza. Fece un passo avanti, poi un altro ancora, fino a piazzarsi di fronte a Nadia. Il ragazzo poggiò le mani sui fianchi e scosse la testa, senza smettere di sorridere. La stava schernendo con lo sguardo.
«È stato così divertente giocare con te», le rivelò, senza smettere di fissarla dall'alto. Poi i suoi occhi si addolcirono, mostrando il ragazzo che un tempo aveva conosciuti. «Però mi manchi, Nadia.»
La ragazza trattenne il respiro e chiuse gli occhi, strizzandoli. Sentiva l'attrazione crescere, e doveva assolutamente darci un taglio. Ma lui avanzò ancora e avvicinò la bocca al suo orecchio.
«Mi manca potermi prendere gioco di te. Perché non torni? Ho ancora voglia di divertirmi...»
«No...», sussurrò lei, scuotendo la testa. «Vattene!»
«Oh, ma davvero ci sei rimasta male?» il ragazzo finse una smorfia shockata. «Sul serio pensavi che mi fossi innamorato di una come te?»
«Va' via!»
Lui scrollò le spalle e sorrise, in modo melenso e spietato. «Guardati... Sei una poveraccia.»
Sei una poveraccia. Sei una poveraccia. Sei solo una poveraccia.
Guardati.
«No!» urlò Nadia, con tutta la voce che aveva in corpo. Con un calcio spazzò via le coperte dal letto e si mise in ginocchio sul materasso, con i palmi delle mani piantati negli occhi. Era senza fiato, e la fronte era imperlata di goccioline di sudore. Scansò i capelli appicciati dalla fronte e deglutì con forza, convincendosi di non piangere.
Era solo un incubo. Solo un fottuto incubo.
Aprì gli occhi e cercò di ritrovare la calma interiore, facendo dei brevi e piccoli respiri. Poggiò la testa al muro e si rilassò, distendendo la fronte.
Quel sogno non l'aveva mai abbandonata del tutto. Per un po' di tempo non si era più fatto spazio nella sua mente, facendole passare notti tranquille. Ma da quando aveva ricevuto la lettera di ammissione all'università aveva ricominciato a presentarsi, rendendole il riposo infernale e intermittente.
La moviola era sempre la stessa: Mattia si presentava sotto la sua vecchia casa, forse per un appuntamento. Lei lo aspettava euforica e contenta come non mai. Ma quando si incontravano, lui si trasformava in un mostro dalle sembianze umane. E la insultava. Le sorrideva e la insultava.
Picchiettò la testa al muro tre volte. Per colpa di quell'incubo non si sarebbe mai scordata del suo ricordo. Restava lì, impigliato nella gola, e ogni notte si arrampicava tenacemente, facendole tornare alla mente tutte le brutte sensazioni che aveva vissuto.
Lo odiava.
Scosse la testa si alzò in piedi. Dall'intensità dei raggi che penetravano dalla finestra, dovevano essere all'incirca le sette di mattina.
Quello era il gran giorno. Finalmente sarebbe partita.
Guardò le due valige accatastate accanto alla porta e sospirò, nervosa. Era tutto pronto, ma lei ancora no. Raggiunse lo specchio appeso al muro e fissò l'immagine di sé riflessa: non sembrava in forma; delle brutte occhiaie le solcavano gli occhi, e aveva ancora i capelli sfuggiti dalla coda appicciati sul viso. In compenso, il suo colorito era dorato, e il corpo le era diventato più formoso e tonico, grazie ai lavori che aveva svolto nella fattoria l'estate scorsa. Anche i capelli avevano dei rilessi più chiari e li aveva fatti crescere fino a metà schiena, lasciandoli completamente liberi.
Quando era tornata in paese, molti ragazzi che prima la guardavano appena si erano fatti avanti con le più disparate avances. Evidentemente avevano visto in lei un cambiamento, o un appeal che prima non aveva. Questo l'aveva fatta sentire più apprezzata, innescando in lei un processo di maggiore autoconsiderazione. Stava bene con se stessa, si piaceva. Adesso ogni gesto che faceva era studiato attentamente, e non titubava nemmeno un attimo prima di rispondere. Molti dei suoi commenti, con il tempo, si erano affinati, arrivando anche a essere sottili e mordaci. Aveva imparato a ribattere a tono, e nessuno cercava di sovrastarla, creandosi un'identità più forte. Nadia Savini non era più la ragazzina introversa e impaurita dalle novità. Adesso era un'adolescente sagace e ironica, pronta a mettersi in gioco in qualche nuova sfida.
Molte persone le avevano chiesto cosa l'avesse fatta cambiare radicalmente. Lei rispondeva sempre con la stessa parola: "Necessità".
Tutto quello che aveva passato a Roma e al Machiavelli l'aveva fatta crescere. Quando era tornata in paese, per i primi mesi era rimasta dentro casa a piangere. Aveva sofferto per amore e per ogni evento negativo che aveva vissuto. Aveva creduto di non uscirne più. Ma poi si era alzata dal letto, aveva messo la testa fuori dalla finestra, e aveva osservato il sole e il cielo sereno. Fuori era tutto splendido. La vita era andata avanti anche senza di lei, e in un attimo si era resa conto di essersi persa dei mesi preziosi di vita. Così aveva capito che era giunto il momento di riprendere in mano le redini della propria vita, e di dare un cambiamento radicale al suo modo di vedere le cose, alla sua filosofia.
Quando Nadia raggiunse il padre in giardino, lo trovò intento a preparare la macchina per il viaggio. «Ehi, bocciolo, sei già sveglia?»
«Mi sono alzata presto. Non riuscivo a riposare bene.»
«È per via della partenza?»
Nadia sorrise e fece cenno di no con la mano. «È tutto a posto, papà. Non ci ho ripensato, se è quello che ti stai chiedendo.»
Guglielmo improvvisò uno sguardo ferito. «Peccato. Ci avevo quasi sperato.»
«Niente potrà farmi cambiare idea, ormai.» Nadia lo abbracciò e gli schioccò un bacio sulla guancia. «È inutile dire che mi mancherai da morire.»
«È inutile dire che mi dispiaccia non poter venire con te, bocciolo. Mi si stringe il cuore a guardarti partire da sola.» Guglielmo mascherò l'emozione schiarendosi la voce.
Nadia guardò il padre con un'espressione di ammirazione e affetto. Lo adorava. «Lo so, ma devi restare qui. Adesso che la tua attività nell'azienda agricola è avviata, non puoi permetterti di lasciar perdere tutto per me.»
Guglielmo rimase a fissarla in silenzio e poi scosse la testa. «È incredibile come tu sia cambiata.» Aprì il portabagagli e iniziò a caricare le prime cose. «Davvero, sei sbocciata all'improvviso, come una rosa.»
***
«È tutto pronto, possiamo partire», concluse il padre di Ada, facendo il giro della macchina e raggiungendo gli altri di fronte al garage.
Erano le otto di mattina, e il sole stava iniziando ad alzarsi nel cielo.
Nadia si affiancò all'amica e la fissò con uno sguardo colmo di eccitazione. Ada ricambiò lo scambio di emozioni telepatico e le strinse il polso.
«Allora andiamo, forza!» Esclamò. «Voglio arrivare a destinazione entro oggi!»
«E io voglio tornare qui prima di stasera», aggiunse Guglielmo, «o gli animali della fattoria mi trarranno un colpo di stato, quando mi rifarò vivo.»
Giordano rise e montò al posto di guida, dopo aver fatto salire nei sedili posteriori le due ragazze.
Come al solito, avrebbero viaggiato in condizioni pietose. Quattro persone e quattro valige in una piccola utilitaria non era il massimo della comodità. Ma avrebbero resistito per qualche ora.
Il motore della macchina tossicchiò un po' prima di mettersi in moto e partire lentamente. Nel proprio piccolo, ognuno di loro esalò un sospiro di sollievo. Almeno erano partiti.
«Ragazze, mi pare scontato fare affidamento sulla vostra maturità, una volta che ce ne saremo andati noi.» Prese parola Giordano, mentre teneva le mani ben salde sul volante. «Insomma, siete maggiorenni e vaccinate. Andrete a Roma per studiare e fare esperienza.» Ada alzò gli occhi al cielo, ma il padre la ignorò, fulminandola dallo specchietto retrovisore. «Quello che voglio dirvi è di essere prudenti. Niente cazzate.»
«Sì, papà.»
«Nadia, tu conosci Roma», aggiunse Guglielmo, impostando il discorso sulla stessa linea del padre di Ada. «Cerca solo di non ricadere negli stessi errori...» Il tono di voce si addolcì alla fine, mostrando il suo lato preoccupato.
«Non lo farò, papà. Ho il pieno controllo di tutto stavolta.»
Il viaggio proseguì velocemente, tra una raccomandazione e l'altra.
«Ti prego, spegniamoli», propose Ada sottovoce. Aveva la testa poggiata sulla spalla di Nadia e si stava tappando le orecchie, per non sentire il padre chiacchierare.
«Se sai come si fa, prego», scherzò lei, passandosi le mani sugli occhi. Non vedeva l'ora di arrivare nel nuovo appartamento e gettarsi sul letto fino al mattino dopo.
Per fortuna, con Ada erano riuscite a risolvere l'inconveniente della casa. Tramite un giro di chiamate alla segreteria didattica, avevano trovato un appartamento per due a pochi metri dall'università e dall'ospedale.
La macchina uscì dall'autostrada e imboccò il raccordo a un'altezza che a Nadia fu subito familiare: si trovavano alle porte di Roma, ne era sicura. Quasi riconosceva i cartelli e le sagome dei grandi palazzi che aveva visto per la prima volta due anni prima, dallo stesso finestrino. Era come se il tempo si fosse fermato, lì. Tutto era come Nadia lo aveva lasciato.
Per un attimo un brivido le percorse la schiena, a ricordarle i cattivi presagi che si nascondevano dietro le ombre dei negozi, dei palazzi imponenti. Decise deliberatamente di ignorarli, e si concentrò sulle macchine che sfrecciavano accanto a loro. Distolse poi lo sguardo dal finestrino per concentrarsi sull'amica, intenta a guardare lo stesso paesaggio serale. «Che effetto ti fa sapere che stai per trasferirti nella grandissima ed eterna capitale d'Italia?»
«Non sto nella pelle», strepitò Ada, guadagnandosi un'occhiata truce da parte del padre.
Nadia rise e si rilassò sul sedile, perdendosi a guardare dei palazzi e delle case sempre più familiari ai suoi occhi. «Manca ancora molto?» Chiese al padre dopo diversi minuti.
Guglielmo diede una sbirciatina al navigatore del telefono. «Be', considerato che quello che abbiamo appena attraversato è il quartiere dei Parioli, direi che in realtà siamo...»
«Arrivati, sì», concluse Giordano, pigiando per sbaglio il clacson con la mano. Anche lui era stanco e su di giri.
Ada e Nadia portarono istintivamente lo sguardo verso l'esterno dell'abitacolo, dove davanti a loro si ergeva un colosso di tre piani, contornato da un giardino nascosto da un imponente muro di cinta.
«Questo è il Campus?» domandò Nadia, basita. «Sulla brochure sembrava molto più piccolo.»
«Per la miseria!», esclamò Ada, mentre abbassava il finestrino. Nell'abitacolo entrò una spruzzata d'aria fresca e dall'odore pungente. «Guarda quanti ragazzi! Aspetta, aspetta... Nadia, hai visto che bel tipo, laggiù? Quello con la giacca scura, contornato dagli amici...»
«Ada», la rimbeccò il padre, richiudendo subito il finestrino posteriore, «non ti ho portato in città per fare la gallina.»
Nadia rimase in silenzio a osservare l'ambiente circostante. Era proprio vero: quel luogo aveva tutte le carte in regola per poter essere un Machiavelli allo stadio superiore. Lo stile era lo stesso, e le persone anche.
«Bene, ragazze», esordì Guglielmo, «stando a quanto dice il navigatore, quelle palazzine laggiù dovrebbero essere gli appartamenti convenzionati al campus. Nadia, il palazzo centrale contornato dalla piccola pineta è il centro dell'università. Mentre, per quanto riguarda te, Ada...» Indicò la parte opposta della strada costeggiata da alberi e macchine parcheggiate. A duecento metri da qui, appena dietro l'angolo, c'è la clinica dove ti hanno presa per lo stage.
«Credo di essermi appena innamorata», sospirò di nuovo Ada, appiccicandosi al vetro posteriore della macchina per seguire con lo sguardo l'ennesimo bel ragazzo.
Nadia le diede un buffetto sulla schiena prima che il padre potesse riprenderla di nuovo.
«Sì, volevo dire, grazie per le preziose informazioni», si corresse. «Adesso vogliamo andare? Insomma, la gente ci guarda strano, se restiamo ancora impalati di fronte all'ingresso dell'università con questo catorcio di macchina.»
Mentre l'auto ripartiva, diretta verso il loro appartamento, Nadia diede un'ultima sbirciatina alla struttura imponente che si stavano lasciando alle spalle. Proprio accanto alle colonne portanti del cancello, che sorreggevano due statue di marmo, scorse un gruppetto di ragazzi con i libri in mano, diretti verso il padiglione centrale. Erano tutti sorridenti, pronti per iniziare una nuova giornata universitaria. Continuò a osservarli, anche quando le loro sagome si fecero più piccine, e per un attimo le sembrò di scorgere dei lineamenti familiari, delle facce riviste. Dalla piccola cerchia rimase indietro un ragazzo, ormai indistinguibile, a fissare la strada.
Strano, pensò Nadia, avvolta da una morsa al petto opprimente. Era come se quei ragazzi fossero...
«Ehi, tutto ok?» le domandò a bassa voce Ada, riportandola nel mondo degli umani. Le strinse una mano.
La ragazza ricambiò la stretta e ringraziò il cielo di non essere sola, stavolta. «Sì, mi sembrava solo di aver visto...» Poi scosse la testa e sorrise all'amica. «Niente. Solo un abbaglio.»
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