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Cap 50

Andres mi ferma nei corridoi della scuola, all'intervallo. Ha l'aria misteriosa.

«Ci ho pensato tutta la notte, Amanda», dice «e voglio che tu abbia questa»

Mi mette tra le mani un foglio stropicciato.

«Che cos'è?»

«Una pagina di diario di quando ero in Argentina. Non scrivevo ancora in italiano, così te l'ho tradotta»

«Vuoi che la legga adesso?»

«No. Leggila quando ti sentirai pronta»

Mi prende per le spalle.

«Amanda», sussurra «lì dentro c'è una parte di me. Nemmeno Ludovica ha mai letto queste parole»

Mi stringe forte, talmente forte che quasi mi fa male. Non l'ho mai visto così agitato.

Mi tiene fino a che suona la campanella.

Torno al mio posto e apro il libro di storia. Infilo la pagina di diario in mezzo al volume, sperando che il prof non si accorga. Sono troppo curiosa, non posso aspettare.

C'è troppa luce in questa stanza. Non dovrebbero lasciare le ante aperte. La mamma sta dormendo. Le gocce della flebo che la alimentano scendono una alla volta, seguono un ritmo troppo veloce. L'infermiera è passata prima, le ha controllato i parametri e ha spostato un po' il cuscino. Poi mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa.

«Avrei bisogno di lei, sveglia», ho risposto.

Sono cinque giorni che è così. Non muove neanche un dito. I dottori iniziano già a parlare di cose strane, cose che non voglio sentire.

C'è gente che si è svegliata dal coma dopo anni. La mamma sta solo dormendo un po' di più.

Prima mi sono avvicinato al letto e ho provato a prenderle la mano. Ogni tanto, quando lo faccio, mi sembra di avvertire una leggerissima vibrazione. Ma forse sono io che mi illudo.

«Ehi mami», le ho detto «ti va se ti canto una canzone?»

Ho fatto finta che lei mi rispondesse di sì e mi sono messo a cantare. Sottovoce, perché non volevo che qualcuno nelle altre stanze mi sentisse.

Dopo un po' che cantavo, la voce mi si è strozzata in gola e sono stato costretto a fermarmi.

In quel momento è entrata Maya. Mi ha guardato e poi ha baciato la mamma sulla fronte. Si è messa a piangere di nuovo.

«Mamma svegliati ti prego», le ha sussurrato «mamma, abbiamo bisogno di te, ora più che mai!»

«Smettila», le ho detto «guarda che così la agiti e poi non torna più»

Lei ha provato ad asciugarsi le lacrime. Sembra che ne abbia a non finire. Io e Maya ormai viviamo come due barboni, tra ospedale e la zia Marcela.

Però Maya tante volte non torna a casa, la notte. Non so dove vada né con chi e ho paura.

«Cosa dicono i medici?», mi ha chiesto Maya.

«Nulla di nuovo», ho risposto «solo che non dobbiamo perdere le speranze»

Ho mentito. I medici non hanno mai parlato di speranza.

Qualcuno ha tossito, fuori dalla porta. Io e Maya siamo scattati in piedi e ci siamo guardati . Siamo entrambi terrorizzati. Mi sono sporto ho visto un vecchietto che si spingeva lentamente sulla sua carrozzina. Ho tirato un sospiro di sollievo.

Maya è venuta verso di me e mi ha preso la mano.

«Andres» ha detto «lo sai che non puoi rimanere in Argentina, vero? Verranno a cercarti»

«Anche tu dovresti venire via da qui», ho ribattuto.

«E chi starebbe con la mamma, poi?»

Ho guardato la nostra mamma, la testa fasciata da una benda enorme, il respiratore, le braccia piene di buchi. Ho ripensato alla mamma che stende, in terrazzo, il sole che gioca con i suoi capelli scuri. La mamma che suona la chitarra e canta. Che mi abbraccia forte e mi riempie di baci, anche se ormai sono cresciuto.

«Non voglio lasciarla da sola», ho singhiozzato.

Anche Maya ha ricominciato a piangere.

«Ma devi andare, devi», ha detto «non sai quanto mi costa dirtelo, ma devi»

Ha provato ad abbracciarmi, ma mi sono ritratto. Il dolore alla schiena è ancora troppo forte. Ha sfiorato le mie bende e mi ha baciato sull'occhio malconcio.

«Ti voglio bene, Andres», ha detto «qualsiasi cosa succeda, sappi che te ne vorrò sempre. Siamo una famiglia»

Ci siamo stretti vicino alla mamma, e per un attimo mi è sembrato che lei stesse sorridendo.

Poi Maya se n'è andata, perché doveva lavorare.

Io non posso neanche appoggiarmi allo schienale della sedia. Le ferite mi fanno troppo male.

Tutto fa male, qui dentro.

Non voglio lasciare il mio paese, mia sorella, mia madre. Non voglio andarmene.

Ma se rimango, rischio di morire.


«Signorina Leone, mi può consegnare il foglio che sta leggendo con tanta attenzione?»

Il professore mi guarda con aria di sfida.

Mi affretto a richiudere la pagina di diario. Sono ancora sconvolta da quello che ho letto e non mi perdonerei mai se qualcun altro leggesse. Andres si è fidato di me.

«Non è niente di importante, l'ho già messo via», bofonchio.

«Dammi subito quel foglio», mi intima il professore, punto nell'orgoglio.

Il resto della classe si gira a guardarmi. Valuto velocemente le opzioni. Non ne ho molte, in effetti.

«Sono cose private, non posso», insisto.

«Dammelo immediatamente se non vuoi filare dal preside all'istante»

«Con il foglio o senza foglio?», rispondo. Sono pronta ad andare dal preside, ma temo che mi farebbero consegnare la pagina di diario, alla fine.

Non ho altra scelta. Davanti allo sguardo schifato dei miei compagni, ficco in bocca il foglio e lo mastico molto rapidamente.

Il professore dà un pugno alla cattedra.

«Fuori di qui», tuona «e domani convocherò i tuoi genitori!»

Finisco di masticare, ingoio e mi pulisco le labbra.

«Se riesce a rintracciare mio padre, gli dica pure che è uno stronzo da parte mia», rispondo.

E ho cura di sbattere la porta, prima di uscire. Non so se mi sono giocata l'anno, con questa bravata. Ma sono fiera di me. Mi appoggio al muro e sorrido.

Poi, ripenso alle parole che ho appena letto.

Devo assolutamente parlare con Andres.

Preparatevi a un altro turbine di imprevisti...

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