EXTRA - Mississipi
Ethan si chiuse la porta di casa alle spalle e lasciò il cappellino sul mobile dell'ingresso.
"Sono a casa," annunciò. "Le uova non le ho trovate."
Si mosse verso la cucina per lasciare la busta e cercare la madre. La casa versava in un silenzio innaturale, facendolo stranire.
"Mamma, dove..."
"Tesoro," la donna si affacciò nel corridoio e gli sorrise incerta. "Vieni, abbiamo un ospite."
Si corrucciò sorpreso. Non ricevevano spesso delle visite, anzi dire che non avveniva mai era più corretto. In tutto il paese, anche a distanza di anni, continuavano a essere la famiglia abbandonata del dottore.
Il fatto poi la mamma non facesse nulla per immergersi nel quotidiano della città, evitando come la peste i circoli delle mogli o qualsiasi festa a tema non aiutava di certo.
Incuriosito da quella presenza insolita e allarmato dall'espressione della madre, Ethan mosse alcuni passi prima di immobilizzarsi.
Improvvisamente fu come se il respiro gli si fosse boccato a metà, tra il petto e le labbra, opprimendolo in modo lancinante.
Cominciò a chiedersi per quanto tempo sarebbe potuto sopravvivere senza respirare, mentre una morsa ferrea gli stringeva la gola impedendogli di fare alcunché.
Suo padre era lì davanti a lui, dopo ben otto anni di nulla assoluto - e due bonus di latitanza - e lui riusciva solo a contare i secondi che passavano senza che riuscisse a buttare fuori aria sporca.
Dieci Mississipi. Undici Mississipi. Dodici Mississipi.
"Hai visto, è tornato papà," esclamò sua madre, suonando forzatamente entuasiasta.
Jessica si avvicinò alle sue gambe e gli tirò l'orlo della maglietta. "Et, ha detto che dopo mi porta alle giostre, lo sai?"
Ventuno Mississipi. Ventidue Mississippi. Ventitré Mississipi.
"Ethan, perché non ti siedi? Così parliamo un po'."
"Mamma ha fatto la torta, lo sai?"
"Tesoro, ti senti bene? Sei così bianco."
Quarantadue Mississippi. Quarantatré Mississipi. Quarantaquattro Mississipi.
Il telefono di casa suonò e sua madre corse a rispondere, lasciando solo il rumore delle sue scarpe a riempire il silenzio della cucina.
"Juls, finalmente. Perché non mi hai risposto?"
Jessica gli sorrise dal basso, spalancandola bocca e mostrandogli il buchetto tra i denti che aveva sfogliato fieramente al suo ritorno dal collegio.
Cinquanta Mississipi. Cinquantuno Mississipi. Cinquantadue Mississipi
"Julian sta tornando, era alle prove per la scuola," sua madre rientrò e posò il telefono sul tavolo.
"Prove di cosa?"
"Juls suona. È molto bravo, sai Mike?"
Sessanta Mississipi.
"Cosa ci fai qua?" esclamò Ethan dopo ben due minuti e mezzo di silenzio. Buttò fuori tutta l'aria trattenuta, spianando la strada alla rabbia e il rancore.
I suoi migliori amici quando si trattava del padre.
"Sono riuscito a ottenere qualche giorno dall'ospedale, volevo venire a trovare la nonna."
"È morta quasi cinque mesi fa, sei un po' in ritardo."
"Ethan!" esclamò sua madre e diede un biscotto a Jessica, invitandola ad accendere la televisione anche se fuori tempo dall'orario stabilito.
Ethan e suo padre - Mike, Mike., Mike cominciò a ripetersi mentalmente. Mike, non papà - rimase a guardarsi senza lasciar trapelare emozioni. Fissi l'uno sull'altro, gli occhi fermi e decisi si incatenarono l'un l'altro mentre le schiene rigidi ed erette in ammettevano cedimenti.
Era in corso una sfida silenzio ma quella volta no, non avrebbe perso. Non era più il bambino che si svegliata la mattina e non c'erano più le valigie del padre.
Ed Ethan giurò a se stesso che non l'avrebbe persa. Non quella volta. Non più.
Padre e figlio schierati l'uno di fonte all'altro. Due sconosciuti.
"Papà rimane per cena," comunicò sua madre e gli andò vicino, interrompendo quello scambio di sguardi.
Si voltò verso di lei con espressione attonita, sentendosi tradito dall'interno. Invece di fare fronte comune, sembrava l'unico che capisse davvero chi avevano davanti.
Uno stronzo, per dirla senza tanti giri di parole. Anche se negli anni aveva affinato la descrizione, aggiungendo altri aggettivi calzanti: arrivvista, sfaciafamiglie, egoista, avido, arido.
"Vado in camera mia," annunciò allora e diede loro le spalle, correndo al piano di sopra e barricandosi dentro.
Le orecchie gli si ovattarono mentre le voci dal piano di sotto arrivavano lontane come echi. Sentiva le mani sudate contro le gambe, una sensazione di freddo innaturale lo avvolse e il cuore cominciò a battere all'impazzata.
Un attacco di panico, niente di più, niente di meno.
Sapeva già cos'era e come affrontarlo, era stato un gentile regalo di suo padre quando aveva deciso di rifarsi una vita.
Si sedette sul letto e nascose la testa tra le mani, cercando di fare respiri lunghi e profondi.
Riprese a contare, un'abitudine che si portava dietro da quando era la nonna a rincorrerlo in camera o in strada per calmarlo.
Uno Mississipi. Due Mississipi. Tre Mississipi.
Chiuse gli occhi e fu come se a contare fosse lei e non più lui, seduto da solo in una stanza e con suo padre a pochi metri.
Quattro Mississipi. Cinque Mississipi. Sei Mississippi.
Il cellulare prese a squillare dalla tasca del pantalone e, con una ancora il respiro in affanno, lo tirò fuori.
Ingoio a vuoto un paio di volte prima di rispondere e simulare una voce tranquilla e serena. Come faceva sempre, più di volte di quanto lui stesso volesse ammettere.
Così impegnato a fingere che tutto andasse bene da ingannare persino se stesso.
"Stellina, ti mancavo?"
La voce di Leanne gli arrivò disturbata ma riuscì comunque a scaldargli il cuore. "Qua non prende niente, accidenti."
Ethan si passò una mano sugli occhi e sorrise. "Apprezzo che tu mi pensi, ma possibile che succede solo quando ti vuoi lamentare?"
Lei rise e desiderò solo poterla abbracciare. Immergersi nei suoi capelli e lasciarsi cullare, lontano da lì è da suo padre; dallo sguardo triste di sua madre, quello confuso di Jessica e la compostezza innaturale di lui.
"Stiamo andando dalla nonna, non ho capito di chi è il compleanno," gli comunicò. "Quindi non avrò la linea per un po', volevo solo dirtelo."
"Per evitare che facessi a piedi i chilometri che ci separano in preda a un folle atto d'amore?"
"Esattamente, non mi sembrava il caso. Alla nonna sarebbe venuto un infarto."
"Sia mai, poi dovremmo lasciarci."
Chiuse gli occhi e si stese sul letto, immaginandosi il sorriso della ragazza perfettamente.
"... e allora io gli ho detto di andare a farsi fottere," concluse lei e si fermò, in attesa di una sua risposta.
"Sei sempre una lady, non c'è che dire."
La senti distrattamente prendere un sospiro e si preparò agli insulti che, permalosa com'era, stava per dedicargli. "Poi dici che io me la prendo, però tu..."
"Ehi, Len," chiamò interrompendola e sistemando meglio il cellulare vicino all'orecchio.
"Cosa? Guarda che stavo parlando io, era il momento degli insulti per te. Non te lo eviti, ti avviso, però avanti dimmi."
Ethan apri la bocca e la richiuse più volte, indeciso.
Ma esattamente come glielo spiegava?
Come le faceva capire che si sentiva sull'orlo di un baratro e sul punto di cadervi, senza farla allarmare. Come ammettersi di essere, probabilmente, ancora sotto l'influsso di un attacco d'ansia ma che ormai ne era così abituata da saperli dissimulare.
Come, semplicemente, ammettere di avere una paura totale, paralizzante. Di aver bisogno di lei perché da solo proprio non ce la aveva, senza sembrare così tragico e vulnerabile?
"Oh, allora?" Leanne lo richiamò e sbuffò. "Ma ci sei? Io non sento più niente."
Come si faceva Ethan non ne aveva la più pallida idea e, come aveva sempre fatto, si chiuse a riccio. Avrebbe risolto il problema da solo.
"No, niente, lo sai che al telefono la tua voce è più gracchiante del solito?"
"Sei proprio uno stronzo," Leanne per poco non urlò e se la immaginò perfettamente, tutta rossa e con un'occhio più spalancato dell'altro. "Ora devo andare comunque," borbottò ancora offesa. "Josh è appena caduto dall'albero ed è pronto a tavola."
"Va bene," cercó di non far trapelare la tristezza nella risposta. "Ci sentiamo stasera, allora. Non fare troppi pensieri vietati ai minori, mi raccomando."
Lei lo salutò e riattaccò, correndo a tavola. Lui invece rimase sul letto a fissare lo schermo del telefono.
Vi era una foto risalente a qualche settimana prima che ritraeva tutti loro nel cortile della scuola: Noah abbracciava Annabeth, la quale alzava indice e medio verso la fotocamera; poco distanti Anthony, Matt e Dylan cercavano di salire l'uno sulle spalle dell'altro; James e Rebecca arrivavano di corse dietro di loro per essere in quadra; Josh e Michael si facevano rispettivamente le corna dietro la testa; infine, all'angolo della foto, vi erano lui e Leanne. Lei gli aveva passato un braccio intorno alle spalle, alzandosi sulle punte per arrivare alla sua altezza ci e gli dava un bacio sulla guancia.
Sentì dei passi veloci lungo le scale e, pochi istanti dopo, qualcuno bussò alla porta della camera.
Con un sospiro lasciò il cellulare sul comodino e si mise seduto.
"Amore, sono la mamma."
"Che c'è? Sono... un po' stanco."
"Ethan, mi dispiace tanto. Non me l'aspettavo neanche io, ma si è presentato alla porta e..."
"Non preoccuparti, mica è colpa tua."
"Julian è tornato, che ne dici di scendere e parlare?"
Si passò stancamente una mano sugli occhi. "Va bene, mi faccio una doccia e arrivo."
🎈 🎈 🎈
"E com'è Seattle? È vero che piove sempre? E le barche? Tu guidi o prendi il taxi?"
"Julian," sua madre si lasciò scappare una risata. "Almeno respira tra una domanda e l'altra."
Suo fratello sorrise imbarazzato e si strinse nelle spalle, raggiante come non l'aveva mai visto.
Doveva essere una scena così divertente vista da fuori: lui, da sempre la voce di quella casa, che non apriva bocca dall'inizio della cena mentre Julian, cosi taciturno da aver fatto preoccupare la madre nei primi anni dello sviluppo, che non riusciva a smettere di pensare.
"Magari," il padre prese la parola e sorrise, guardandolo attentamente tutti e tre. "Potete venire da me quest'estate, così lo vedete da voi com'è Seattle."
La forchetta gli cadde di mano, urtando il piatto e finendo sul pavimento. Al suo fianco Julian non riuscì a trattenere l'entusiasmo.
Jessica lo guardò incerta, in attesa di capire come comportarsi.
"Michael, cosa significa questo?" chiese sua madre con aria grave, lasciando stare quello che aveva nel piatto.
"Forse avrei dovuto parlartene prima," si allentò la cravatta e provò un sorriso, venendo prontamente rifiutato dall'espressione glaciale della donna.
"Hai ragione, avresti proprio dovuto."
"Lizzie, mi piacerebbe passare del tempo con i ragazzi. Se ovviamente loro sono d'accordo."
"È un po' tardi, non trovi?" sbottò Ethan, attirando lo sguardo contrariato di Julian. "Io non ci vengo a Seattle, sei qua da qualche ora e già ti ho sulle palle."
"Ethan, non parlare così," protestò sua madre.
"No, va bene," suo padre alzò una mano per calmare la situazione. "Capisco perché tu ti senta così, Ethan. Ed è per questo sono venuto qui."
"Perché non rimani tu, allora? Se per te è così importante passa l'estate qua," incrociò le braccia provocatorio. "O forse non lo vuoi così tanto da scomodare la tua vita?"
Jessica schiuse le labbra e lasciò anche lei la forchetta con cui stava giocando, attirata dal tono serio della conversazione.
"Non è possibile, purtroppo. Ci vuole del preavviso dal lavoro e in più non posso chiedere un periodo così lungo."
"Peccato, ci speravo tanto," calcò ogni parola di scaricando e sfida. "Il problema è che a me di te non importa minimamente, quindi non credo cambierò i miei piani."
Lo sguardo di suo padre vacillò a quelle parole, colto alla sprovvista dalla sicurezza del suo atteggiamento. Probabilmente nel suo immaginario era ancora il bambino che gli correva incontro quando tornava da lavoro, a occhi chiusi e braccia aperte perché sicuro di essere preso.
Ma di quel bambino non c'era più traccia e la colpa era solo sua.
"Ethan, per favore, non fare così," supplicò sua madre e allungò una mano verso di lui.
"Non ho più fame, scusami," si alzò da tavolo e indietreggiò fino alla porta mentre le orecchie gli si ovattavano, escludendolo da quella situazione. "Non preoccuparti, papà. Hai fatto la buona azione di quest'anno, puoi tornare a fare il superuomo a Seattle."
Diede loro le spalle e imboccò il corridoio, raggiungendo la porta di casa e spalancandola. Un leggero vento gli mosse la maglietta larga e gli fece socchiudere gli occhi.
Si sedette sul primo gradino delle scale, appoggiandosi alla porta ora chiusa, e diede un pugno per terra. Il dolore fu tale che per poco non urlò, cominciando a dondolare su se stesso. Le nocche erano diventato rosse e il mattino dopo si sarebbe svegliato indolenzito e livido.
Bel lavoro, Ethan.
Guardò la strada vuota e il cielo scuro, mentre un senso di impotenza gli montava dentro. Desiderava solo alzarsi e urlare a pieni polmoni.
Spalancare la bocca, allargare le braccia e tirare fuori tutto quello che nascondeva da anni.
Un grande vaffanculo al mondo.
A suo fratello che, troppo piccolo, non aveva sofferto come lui. Sua sorella che era stato il tipico "sbaglio" di un matrimonio e non se lo meritava. Sua madre che non aveva avuto la forza di combattere, lasciandolo scappare dall'altra parte dell'oceano.
Un grande e sonoro vaffanculo a suo padre che gli aveva lasciato un vuoto dentro che faceva così male da farlo sentire diverso. Sbagliato. Sempre inappropriato e in punta di piedi.
Un vaffanculo anche a tutti quei bambini che gli avevano chiesto se suo padre voleva partecipare alla partita di calcio genitori contro figli, alle maestre che assegnavano temi sui papà. A tutti quegli uomini che erano stati buoni padri e il suo no.
E vaffanculo.
La porta dietro di sé si aprí e lasciò il posto a suo fratello.
Julian si sedette al suo fianco e poggiò le braccia sulle ginocchia, rimanendo in silenzio insieme a lui.
"Mi dispiace per come mi sono comportato," mormorò a testa bassa.
"Non fa niente, a me non importa. Non è che con me che sei stato un dito nel culo."
"Ottima descrizione," convenne. "È che non ci voglio andare da lui." borbottò Ethan dopo un po', sentendosi un bambino che faceva i capricci.
"Va bene," mormorò l'altro e annuì impercettibilmente.
"Lui è uno stronzo, non se lo merita che noi andiamo con lui. Non è così facile."
"Va bene."
"Cazzo, se lo odio," diede un calcio nel vuoto e sbuffò, cacciando indietro le lacrime che premevano per uscire.
"Lo so."
Si prese la testa tra le mani e cominciò a stringere i denti con forza. Mentre i muscoli facciali cominciavano a tirare per il dolore, si voltò verso il fratello.
Si sentí terribilmente in colpa per non essersi soffermato ad ascoltare. Capire cosa pensava e trovare un punto di incontro.
Si era comportato proprio come suo padre quella sera, pensando solo a ciò che lui voleva e pensava.
"Juls, ma tu cosa vuoi fare?"
Il fratello si strinse nelle spalle. "Quello che vuoi tu, suppongo."
Si odiò.
"Non era una risposta questa," gli fece notare. "Dimmi la verità."
"Tu non vuoi andare a Seattle."
"Ma tu? Non c'entra cosa voglio io adesso."
"Se te lo dico tu te la prendi," lo guardò incerto, dimostrando tutti i suoi tredici anni.
Ethan s'intristì, perché non era giusto che il fratello fosse dovuto crescere così in fretta, e scosse la testa.
"Puoi dirmi tutto, lo sai. Anche su papà, non me la prendo, tanto lo so che sei scemo, non mi sorprendo mica."
Julian abbozzò un sorriso e si grattò il naso. "Credo che mi piacerebbe andare. Sono cresciuto facendomi mille domande e ora posso finalmente dargli una risposta."
"Lo capisco. L'idea non mi fa impazzire, mi piacerebbe che tu la pensassi sempre come me, però lo capisco."
"Lo so," lo prese in giro, "Questo perché pensi sempre di avere ragione."
"Non è vero," si accigliò e lo spintonò con la spalla. "Solo che sono tante le volte in cui effettivamente ho ragione."
"Sei così fastidioso," Julian scosse la testa e lo guardò. "Allora, che facciamo, Et?"
Si voltò verso di lui, incrociandone gli occhi scuri e grandi fissi su di lui. Era in attesa di risposta, che Ethan prendesse una decisione per loro. Perché si fidava di lui e sapeva che avrebbe fatto la cosa migliore.
Ancora una volta si odiò.
"Tu vuoi andare," constato lui e il cuore gli si spezzò quando l'altro annuì.
Sí sentí improvvisamente inadatto e insufficiente, come se tutti quegli anni passati a farsi in quattro per annullare la mancanza del padre fossero stati cancellati dal suo semplice ritorno.
Così era giocare sporco e lui perdeva in partenza.
"Allora andiamo, Juls. Facciamo le valige e passiamo qualche settimana a Seattle."
"Ma tu non vuoi," ribatté l'altro, "Non possiamo andare."
Ethan drizzò la schiena e preparò il suo miglior sorriso. "No, non è vero. Hai ragione tu, hai detto le cose giusto che: anche io voglio conoscerlo meglio. Ho parlato troppo presto, credo sia giusto andare."
Julian lo guardò dubbioso, indeciso se credergli o meno, per poi aprirsi in un largo sorriso.
"Allora andiamo?" chiese ed Ethan annuì. "Sei sicuro? Cioè, sicuro sicuro sicuro?"
"Ho detto di sì, sicuro tutte le volte che hai detto. Però ti avviso, io non compro souvenirs quindi niente penne con sopra scritto Seattle."
Julian rise e annuì, alzandosi velocemente. "Lo vado a dire, allora."
Corse dentro, permettendogli finalmente di levare la maschera e smettere di sorridere
E vaffanculo... già l'aveva detto, per caso?
Il cellulare squillò brevemente, segnalandogli un messaggio. Allargò la tasca del pantalone con l'indice e diede una sbirciata.
Era Leanne, gli chiedeva se aveva voglia di parlare un po'. Doveva proprio raccontargli come aveva fatto Josh a slogarsi la caviglia.
Dall'interno provenne la voce entusiasta di Julian, accompagna dal padre che cominciava a esporre come potevano organizzarsi.
Prese il cellulare in mano e lo spense, desiderando poter fare lo stesso con quella giornata.
Passarono ben sei settimane prima che trovasse il coraggio di richiamarla, troppo vigliacco fino a quel momento per farlo.
Provò a contattarla per una giornata intera fino a quando lei non spense il telefono. Da quel momento il suo risultò sempre staccato, lasciandogli intendere di essere stato bloccato.
Dovette passare un'altra settimana perché riuscisse a essere risposto da qualcuno.
"Hai anche il coraggio di chiamare? Perché non vai al diavolo, Ethan."
"Aspetta, non riagganciare. Sono una stronzo hai ragione, ma posso spiegarmi."
"Uno stronzo senza palle," venne corretto.
"E amici invece? Quelli ce li ho ancora?"
Noah sospirò dall'altra parte del telefono. "Dipende, hai una buona storia da raccontarmi?"
"La migliore, fidati. Quanto tempo hai?"
🎈
Piccolo extra inaspettato su Ethan, anche perché io stessa avevo dimenticato di averlo scritto... quanto sono pessima da 1 a 10? Tanto!
Allora, questo è l'ultimo extra fino alla fine della storia, dove ci aspettavano ben due extra nel passato e uno nel futuro... insomma, qualcuno si sta forse facendo prendere la mano? Si, io 🙋♀️
Passiamo al contenuto di questo capitolo, inizialmente questo extra doveva essere sempre dal punto di vista di Leanne ma mi sono resa conto che i suoi pensieri e sentimenti ormai erano più che noti. Avevo invece il desiderio di farvi avvicinare un po' a Ethan, essendo la storia sempre dal punto di vista di lei.
Come sempre, ci tengo a sottolineare che niente potrà mai giustificare il suo comportamento (il telefono lo aveva, lo poteva usare!) però spero di averlo fatto comprendere un po' di più.
Di averlo reso un po' più vicino, per me è facile perché gioco in casa ma mi rendo conto che non per tutti e così
Detto ciò... passiamo alle cose importanti, ma quali?
✍️ il prossimo sarà un dolcissimo (a mio dire) capitolo sulla triade perfetta: Noah, James, a Leanne.
✍️ Dopodiché preparatevi a una serie di capitolo ambientati a casa Powell che vi compenseranno tutte le incomprensioni di questi passati capitoli.
✍️ Come sempre vi ricordo che ho creato una pagina Instagram dove aggiorno curiosità, spoiler, anticipano e cose varie: _amiss_wattad
✍️Per finire, oggi se riesco, dovrei pubblicare nel capitolo dei personaggi un estratto di Noah, James e Annabeth (li adoro, scriverei su loro tre a oltranza).
✍️ Vi annuncio inoltre alcune date che magari non vi interessano ma io voglio: per inizio luglio avrò terminato di pubblicare QPNA, nel frattempo avrò dato due esami quindi non so con che frequenza sarò riuscirà a scrivere la storia su James.
✍️Nelle mie speranze più ottimistiche riesco a concludere QPNA e iniziare PFB nel giro di una settimana (che userò per revisionare i capitoli, aggiungere parti e toglierne, e morire dopo gli esami dati), sempre sperando di averla conclusa: come sapete non amo pubblicare a storia incompleta perchè gli imprevisti sono sempre dietro l'angolo e non mi va di lasciare storie incompiute.
✍️Detto ciò mi auguro fortemente che il progetto vada in porto e che voi abbiate voglia di seguirmi sempre, perché nelle mie previsioni future la Saga Adams non si chiude qui ma dovrebbe vedere protagonista anche Rebecca e Noah, più un'altra persona a sorpresa.
Idee su chi possa essere?
Ma passiamo alle mie solite domande:
💄Come vi è sembrato questo capitolo su Ethan? Foreste leggere più estratti dal suo punto di vista? Siete riuscito a immedesimarvi?
💄Rapporto fratelli. Questo è diverso da quello tra James e Noah per ovvi motivi, Ethan ha quasi dovuto fare da padre a Julian. Che ne pensate del loro rapporto, sebbene si sia visto poco?
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