29· Prima o poi dovrà succedere
Delle urla riecheggiano per la casa, facendomi spalancare gli occhi. Stringo il bordo superiore della coperta, tirandomi su a fatica. Cerco di tirare via tutti i pensieri intrusivi, soffermandomi su qualcos'altro, ma le voci sono troppo forti. Mordo il labbro, trattenendo un singhiozzo. Credevo di essere un minimo in grado di gestire queste cose. Apparentemente no.
Scosto le coperte con un gesto brusco, scendendo dal letto.
Faccio qualche passo verso la porta, scansando le lacrime che mi rigano le guance. Mi fermo, per respirare, e cercare di calmarmi. Solo un minimo. Non è il caso di avere un attacco di panico in questo momento. Un altro singhiozzo mi lascia le labbra, ed è in questo momento che mi accorgo di quanto anche solo respirare mi faccia male.
Tiro un respiro profondo, riuscendo a concentrarmi su una cosa sola. Un paio di occhi marroni. Devo decisamente uscire da qui. Ho bisogno di essere tranquillizzata. Prima che possa fare altro, la porta si apre lentamente e si richiude alla stessa velocità. Oliver, apparentemente sveglio, mi viene incontro, appoggiando le mani sulle mie spalle.
- Ehi. Ehi, stai tranquilla. Non succederà nulla, okay? Vieni – sento le sue dita intrecciarsi alle mie.
Trattengo un ennesimo singhiozzo, lasciandomi condurre verso il letto. Le urla che rimbombano ancora, sia nelle mie orecchie, che per casa. Non capisco cosa stiano dicendo, perciò immagino che abbiano tirato fuori il dialetto irlandese che piace tanto a papà.
Mi sdraio, infilandomi sotto alle coperte. La tentazione di metterci anche la testa è tanta, ma devo resistere. Faccio per parlare, per pregarlo di rimanere, ma fa tutto da solo.
Si infila nel letto, dall'altro lato, e mi abbraccia. – Ehi. Allora, ascoltami, okay? Non sta succedendo niente, siamo io e te, e basta. Vuoi darmi le mani? – bisbiglia.
Scuoto la testa, avvicinandomi di più a lui. Non so come lo guarderò domani in faccia, ma al momento non è la mia priorità. Se riesco a sopravvivere senza un serio attacco di panico mi ritengo fortunata.
- Va bene. Allora, dicevo, siamo io e te, e... siamo seduti sul divano, mi stai costringendo a vedere un'altra volta il Tempo delle Mele, perché per te è un film imperdibile e straordinario.
Ridi, e sei meravigliosa, Kenzie. Lo sei anche adesso, sai? Perché lo so che in questo momento, nonostante tutto, stai chiedendoti come potrai sopportare l'imbarazzo domani, ma non ti devi preoccupare. Perché non c'è niente di cui essere imbarazzata, okay? Dicevo, stiamo guardando il Tempo delle Mele, e hai fatto della cioccolata calda. Come oggi. Stai ripetendo le battute, in francese però, e io mi domando se debba prestare attenzione a te o al film. Perché tu mi sembri molto più interessante – bisbiglia, appoggiando la testa sopra la mia.
- Sì? – è un sussurro che mi esce a fatica, ma mi esce.
- Non sai quanto.
Sospiro, circondandogli la vita con le braccia. – Secondo te per cosa litigavano?
- Non ne ho idea, sai.
- Per me è perché papà ha detto che andiamo a Londra, domani. Avevo intuito che c'era qualcosa che non andasse, quando è rientrato.
- Non è il momento delle eccessive paranoie, okay? Cambiamo argomento, se vuoi. O puoi dormire.
- Che bello, dormire. Ho un sonno.
- E allora dormi – tentenno, davanti al suo tono perentorio. E perché, anche solo per poco, temo che possa andarsene non appena chiudo gli occhi. – Non ti preoccupare, resto qui – sbadiglia silenzioso, girandosi su un fianco per guardarmi. Alza una mano, lentamente, e mi scosta i capelli che, a causa delle lacrime, si sono appiccicati al viso.
- Grazie. Sei meraviglioso – mi stringo al suo petto, piegando le gambe.
- Da che pulpito – mi circonda la vita, il tocco più delicato del solito. Lo apprezzo, questo, perché mi sento come se fossi sul punto di rompermi in mille pezzi e lui fosse lì, a impedire che accada. Ed è così, sicuramente. Solo che a volte vorrei essere io a raccogliere i suoi, di pezzi. Così mi sembra solo di ricevere, non anche di dare.
- Ti voglio bene, Kenzie. Buona notte – sussurra, al mio orecchio, prima di appoggiare la testa sul cuscino accanto a me.
- Anche io – di più. – 'Notte. Se parlo ti autorizzo a buttarmi giù, va bene?
- Dipende dalla storia, se è interessante no.
Fisso il succo di frutta all'interno del bicchiere, non sapendo cosa dire. Appena mi sono svegliata sono letteralmente corsa via dalla stanza, catapultandomi in cucina. Solo che non avevo calcolato gli effetti collaterali: mamma e papà si scrutano in cagnesco, da un lato all'altro del tavolo. Una porta al bagno superiore si apre nell'attimo in cui papà si passa una mano sulla faccia e apre la bocca per parlare. Lo ignoro, scattando in piedi veloce come una molla.
- Vado in bagno – le mie parole si perdono, anche se papà sembrava aver rimesso i piedi per terra, e nessuno dei due ci fa caso.
Scrollo le spalle, correndo verso le scale. Le osservo sovrappensiero, prima di iniziare a salire i gradini lentamente. Dei passi riecheggiano nel corridoio e un'altra porta si apre, per poi richiudersi.
Salgo gli ultimi gradini, svoltando a destra e lanciando un'occhiata in direzione della mia camera e poi in quella della stanza di Oliver. Sono vuote entrambe; perciò non può che essere in bagno. Mi appoggio alla parete, fissando il vuoto. Forse il mio essere scappata non è stata una mossa geniale: potevo aspettare lì, effettivamente. Magari non nella stessa posizione in cui mi trovavo quando mi sono svegliata, ma potevo farlo. Una scusa, almeno una, un poco credibile... No, non è il caso: meglio la verità. Ma qual è, la verità? Se gli dicessi che mi sono vergognata per quello che è successo ieri sera non so come potrebbe reagire. Sospiro, coprendo il cigolio della porta del bagno che si apre. Oliver esce dalla stanza, lanciandomi appena uno sguardo. Lo sapevo. Abbasso la testa, raggiungendolo.
- Oliver! – gli prendo il polso, fermandolo. – Scusa.
- Per? – non mi guarda, staccando le mie dita dal suo polso.
- Essermene andata. Mi dispiace. Non volevo... non lo so, mi sono imbarazzata per ieri sera e... E' stato più forte di me.
Scuote la testa, fissando il pavimento. – Ancora? Quante volte te lo devo dire che è l'unica cosa che non devi fare? Non è un problema, per me, e ci sta che ogni tanto il panico prenda il sopravvento. E io sono qui per aiutarti. Per... farti stare meglio. Ma non devi sentirti imbarazzata per quelle che, alla fine, non sono nient'altro che quelle cose che ti caratterizzano. E sono bellissime, tra l'altro; sono un'altra delle cose che mi piacciono di te, forse è tra quelle che mi piacciono di più.
- Sì, ma... mi sento comunque in difetto – bisbiglio, il battito cardiaco inarrestabile. – Perché oltre a esser imbarazzata, mi sento come se fossi solo tu a fare qualcosa per me, e che io non faccia nulla per aiutarti.
Sorride, guardandomi, finalmente. Mi sembra quasi di affogare nei suo occhi, in questo momento. Il ché è preoccupante, perché dovrebbe essere il contrario.
- Su questo non devi affatto preoccuparti, va bene? Se ho bisogno lo saprai.
- Uhm – onestamente non so che cosa pensare. – Okay. Va bene. Però... fallo davvero. Ti prego. Non voglio che tu stia male, soprattutto se poi è per colpa mia.
- Non ti preoccupare – ripete, intrecciando le dita con le mie.
Sospiro e poi annuisco, lasciandomi convincere dal suo sguardo.
- Giù stavano facendo colazione, però ne ho approfittato quando ho sentito la porta aprirsi. Sono troppo arrabbiati tra loro: non li ho mai visti così – confido.
- Quindi non hai mangiato? – mi si avvicina, corrugando le sopracciglia.
- Già – confermo, passandomi una mano tra i capelli.
- E sei ancora viva?
- E dài! Piantala – lo rimbrotto, guardandolo mentre ride.
- Lo sai che mi diverte prenderti in giro – passa un braccio attorno alle mie spalle, mentre scendiamo le scale.
- Sì, ma non è molto bello – mi imbroncio, guardandolo.
Mi stringe a sé, divertito. – Più fai così più prenderti in giro è piacevole, dovresti saperlo – mi stuzzica.
Ha ragione, più dò corda più si diverte, ma è più forte di me.
- Non è giusto. Non puoi essere così cattivo con me! – ribatto, sospingendo la porta della cucina verso l'interno.
- E invece...
Papà alza la testa mentre entriamo. La mamma non c'è. Ci guarda, forzando un sorriso. – Su, sbrigatevi a fare colazione, ché tra un po' andiamo.
Londra.
Ancora non ci credo. E' troppo. Ho passato tutta la mia infanzia a sognare di scappare e girare per le città che, adesso, la possibilità di andare a Londra è troppo... surreale. Mi sembra di essere sul punto di esplodere, onestamente.
- Sei pronta, quindi? Londra ti aspetta – ha lasciato perdere il tono scherzoso che aveva prima, però lo spettro di una risata continua ad adombrargli la voce. Sta cercando di diminuire la tensione.
- No. Proprio no. Ho passato troppo tempo a sognare di andarci che adesso mi chiedo se sia sveglia o meno.
- Se vuoi verifichiamo – si avvicina, con tutta l'intenzione di... non lo so, ha un'espressione neutra in volto, non riesco a capire.
Alzo le spalle, indietreggiando appena. Le sue braccia mi cingono la vita; la sua fronte sfiora la mia, così come le sue labbra.
- Se stai per allontanarti per dimostrarmi che non è un sogno perché voglio che tu mi baci allora sei proprio matto.
Il suo petto è scosso da una risata, mentre mi sporgo in avanti. E se il contatto tra le nostre labbra è durato un attimo, vuoi la fame, vuoi i miei genitori, è stato uno degli attimi più belli della mia vita. Ed è sembrato durare molto di più.
Papà se n'è andato dopo averci lasciato una quantità di soldi assurda. Non so dove sia andato, ma credo di essere grata che l'abbia fatto.
Osservo lo spettro del Tamigi scorrere placido dall'altro lato della strada mentre, mano nella mano con Oliver, che ha appena preso quello che lui ha definito una cosa celestiale dal camion davanti al parco in cui è presente il New Palace Yard, stando a quando dice il cartello all'ingresso, attraverso la strada. Attualmente, il Big Ben è "fuori servizio", perciò ne abbiamo approfittato per fare un giro nel parco.
"E' un bel posto, te lo assicuro. E' pieno di gente, nessuno fa caso a nessuno."
Le parole di papà mi rimbombano in testa e se era un tentativo di rassicurarmi non è andato a buon fine. Anche perché, per quale motivo la gente dovrebbe fare caso a me?
Alzo le sopracciglia, passando davanti a una serie di alberi cresciuti tutti insieme in una posizione curiosa: stanno formando un cerchio.
Parecchi bambini giocano nel centro, tirando palloni e saltando la corda; qua e là, all'ombra delle chiome, ci sono dei ragazzi. Chissà com'è vivere in un solo mondo e basta. Potrei anche chiederlo a Oliver, dopotutto. Ma lui sa dell'esistenza di un altro mondo, loro no. Forse questa è la cosa migliore: non sapere di quella che probabilmente definirebbero "realtà parallela".
- Vuoi provare? – Oliver tende nella mia direzione il cartoccio che tiene in mano, pensieroso.
Arriccio il naso, osservando quello che c'è all'interno.
- Magari passo, grazie.
Si ferma, stupito. – Hai appena rifiutato del cibo? Sei sicura di star bene? Possiamo anche aspettare là davanti se ti mette ansia questa cosa.
- Quale cosa? Comunque sì, sto bene.
- Bah – alza le spalle, riprendendo a camminare. – Non me la racconti giusta, sai?
- E' che... questa cosa che papà ci ha lasciato in pace, andandosene per i fatti suoi, un po' mi puzza. C'è sotto qualcosa, ne sono certa.
- Se non te l'ha detto c'è un motivo, non ti preoccupare.
- No, sì, capisco. Solo che non vorrei che... Magari hanno litigato per colpa mia – sputo fuori, fissando i sassolini che ricoprono il sentiero.
- Non ci pensare nemmeno, Kenzie. Non è colpa tua, proprio no.
- Sì? – alzo la testa, cercando i suoi occhi. Ho bisogno che mi rassicuri. Ho bisogno di sentirmi dire che non è colpa mia, di nuovo, che andrà tutto bene, che non mi devo preoccupare.
- Sì. Stai tranquilla, non c'è nessun motivo per farsi prendere dall'ansia. E comunque sia, sono adulti, sanno gestirsi i loro problemi.
- Ne dubito fortemente – commento, facendo vagare lo sguardo in giro.
Delle altalene occupano un altro spazio circolare, accompagnate da uno scivolo. Molti bambini fanno a turno; sembrano divertirsi molto. Alcune panchine completano il quadretto, assieme a una fontanella lì vicino.
- Ci sediamo là? – indico la panchina più lontana dai giochi, sotto a un albero. Inspira sicurezza.
Annuisce, dirigendosi in quella direzione.
Socchiudo gli occhi, lasciandomi avvolgere da quello che succede. Il pianto di un bambino rompe l'aria, la voce preoccupata di una donna lo segue. Altre voce si sovrappongono, molte di esse sono felici. Immagino i bambini rincorrersi per il parco, schivare sassi e persone, e arrivare fino a qui, come se fosse la zona salva. Dei sassi scivolano gli uni sopra agli altri, un tonfo attutito e un "ahi" prorompe in giro.
- Posto interessante, eh – mi apostrofa Oliver, sedendosi divertito.
- Oh, andiamo. La prossima volta non faccio nulla.
- Ma era solo una constatazione – esclama.
Alzo le spalle, dubbiosa, e accavallo le gambe. Osservo i bimbi rincorrersi, fermarsi alle altalene e fare un giro, a turni. Un paio di ragazzi giocano a pallone, tirando calci alla palla troppo veloci per essere seguiti attentamente. – Vedi, quello è calcio.
Arriccia il naso, seguendo il mio dito. Stringe le labbra, cercando di mascherare la perplessità. – Qual è il senso? Corrono dietro a una palla e basta.
- Potrei dire lo stesso del Quidditch.
- Ne abbiamo già parlato, no? – sorride, passandomi un braccio attorno alle spalle.
- E si torna sempre alle stesse argomentazioni – concordo, guardandolo.
- Che ci vuoi fare, le cose non cambiano nel corso di due giorni. O quelli che siano.
Annuisco, continuando a guardare i ragazzi. Uno di loro si gira nella nostra direzione, per recuperare il pallone sul quale ha perso il controllo; sgrano gli occhi, riconoscendolo. Oh, no. Non finirà bene. Ma poi, cosa ci fa lui qui? Credevo fosse andato chissà dove in America. Si morde un labbro, guardandomi, poi abbozza un sorriso. Si gira verso il suo amico, dicendogli qualcosa.
- No, no, no. Oliver – gli stringo la mano, ricevendo nient'altro che un'espressione confusa. – Come faccio a evitare una persona?
- Chi devi evitare? – corruga le sopracciglia, ancora più confuso.
- Quel ragazzo. Non ci voglio parlare.
- Lo conosci?
- Già. Abitava accanto a casa mia, eravamo amici, poi si è trasferito. Credevo fosse andato in America.
- Ah – sembra riflettere per un attimo, prima di guardarmi. – Ci sono tre opzioni. O lo ignori, facendo finta di non averlo riconosciuto. O ce ne andiamo. O... non lo eviti. Purtroppo.
- Bello – gonfio le guance, sovrappensiero. Lancio un'occhiata all'orologio, facendo il conto. – Abbiamo dieci minuti prima di poter salire. Non so, o facciamo finta di essere in orario, oppure...
- Oppure lo saluti – stringe le labbra, lanciando un'occhiata ai due ragazzi sempre più vicini.
- Ti giuro che sarà la cosa più veloce del mondo.
- Fai pure – accartoccia la confezione vuota del cibo e si alza. – Vado a buttarlo, intanto.
Annuisco, stringendo le mani. Le unghie si infilano nei palmi e percepisco tutti i muscoli delle spalle irrigidirsi. Scorgo i ragazzi fermarsi davanti a me, e uno dei due si schiarisce la voce. Sospiro, alzando la testa. Forzo un sorriso, guardandolo. Non è cambiato di una virgola: i capelli rossi gli circondano il volto, donandogli un'aria enigmatica, gli occhi verdi mi scrutano curiosi e il sorriso divertito gli disegna il viso.
- Kenzie! – esclama, indeciso su come comportarsi.
- Ciao, Frank.
- Lui è Lucas – presenta il ragazzo al suo fianco, che alza una mano, imbarazzato.
- Mackenzie – ribatto, monocorde. – Non eri andato in America?
- Sì, ma sono tornato per le vacanze di Natale. Tu? Ancora bloccata in quel posto?
- Veramente no. Studio in Francia – questa volta la bugia mi esce bene, sarà perché non mi sento in colpa, mentendogli, e sarà pure perché non ci vediamo da sette anni, ma non mi fa né caldo né freddo.
- Sì? E com'è?
- Bella – alzo le spalle, guardandomi attorno alla ricerca di Oliver. E' appoggiato a un albero, e ci scruta, attento a non farsi vedere. Sorrido appena, poi alzo una mano, agitandola nella sua direzione. – Oliver! Peux-tu venir ? – gli faccio cenno di venire, tanto per farmi capire. Non è che posso dire di venire dalla Francia e non dire una parola di francese.
Lo immagino sospirare, poi si stacca dall'albero e ci viene incontro. Gli stringo la mano, tirandolo a me. – Reggimi il gioco. Cinque secondi e ce ne andiamo – bisbiglio. Arriccia di nuovo il naso, circondandomi le spalle con un braccio. – Lui è Oliver. Oliver, ils sont Frank et Lucas.
Fa un cenno con la testa, abbozzando un sorriso.
Frank alza una mano, imbarazzato. – Be', dimmi un po', come state tutti?
- Bene, dài. I tuoi?
- Divorziati. Ma sono felici, perciò non è che possa fare granché.
- Mi dispiace tanto. Erano così carini insieme – onestamente non mi ricordo neanche i loro nomi, ma non è necessario che lui lo sappia. Sospira, guardandomi curioso. La presa di Oliver si fa sempre più ferrea, come se volesse dimostrare qualcosa. Ridacchio sottovoce, sbirciando di nuovo verso l'orologio. – Oh. Frank, dobbiamo proprio andare. Dobbiamo incontrare delle amiche vicino al Big Ben, mi dispiace.
Scrolla le spalle, passandosi una mano tra i capelli. – Non ti preoccupare, vai. E' stato un piacere rivederti.
- Sì, anche per me.
- Posso darti il mio numero di telefono? Così magari ti faccio uno squillo, ogni tanto.
Ah. Che cosa divertente. – In collegio non me lo fanno usare, però il numero di casa è sempre lo stesso. Può chiamare lì, al massimo non risponde nessuno.
- Oh, va be', fa niente. Ci vediamo, allora.
- Sì. Ciao – trascino via Oliver il più velocemente possibile, e tiro un sospiro di sollievo non appena ci lasciamo alle spalle il giardinetto. – Era necessario. Scusa.
- Cosa? – tira via il braccio dalle mie spalle, intrecciando le dita con le mie.
- Fingere che parlassi francese. Se no ci avrebbe tenuto lì ancora di più.
- Uhm. Non mi piace, quel tipo.
Rido, mordendomi il labbro. – Tanto quando lo rivedrò lo Statuto di Segretezza non esisterà più.
Il cielo è dipinto con tinte che si mischiano tra loro in modo perfetto e il grave rintocco dell'orologio. Il Tamigi si colora appena con le stesse tinte del cielo, riflettendole sulle chiatte che l'attraversano placide. Qualche autobus rosso attraversa la strada, alla luce dei lampioni già accesi. Una cabina telefonica spicca all'angolo della strada, accanto a quello che sembra essere un bar molto famoso, data la folla. Un paio di ragazzi passeggiano lungo il ponte, schivando le bici.
- Lo sai, me lo aspettavo più... alto – dice Oliver, mettendo un freno alla mia curiosità. Mi giro verso di lui, stringendogli la mano.
- Io non ci trovo niente di male. E' un bel paesaggio. E poi ci sei tu, quindi non potevo chiedere di meglio.
Sorride, scostandomi i capelli dal viso.
- Sì? – sussurra, avvicinandosi.
- Ah ah. Credo che tu sia quasi diventato la mia persona preferita – lancio un'occhiata giù, tutte le persone non sembrano altro che piccoli puntini in movimento. E' strano.
- Che carina che sei – ridacchio appena, intrecciando le dita con le sue.
Accosta il viso al mio e cerco di concentrarmi su tutto tranne che sul mio battito cardiaco. Prima o poi dovrò dirglielo.
Fisso le sue labbra, perdendomi in quei dettagli che ho notato da poco, come il neo che ha accanto al labbro superiore. Appoggio una mano sulla sua guancia, sorridendo. E' felice, a giudicare dallo sguardo e dal battito del cuore. O ora o mai più.
- Oliver – lo chiamo.
- Ehi – mi guarda, in attesa, ma è troppo... complicato. Gli scocco un bacio sulle labbra, lasciando che sposti le sue braccia attorno ai miei fianchi.
Le sue labbra sono sulle mie, cercandole in un modo così... assiduo, che si direbbe ne abbia un disperato bisogno. Lascio schiudere le mie, indecisa. Non so quanto questa possa essere una buona idea, ma prima o poi dovrà succedere. Quando le nostre lingue si sfiorano è come se tutto quello che è successo con le mani e poi con le labbra riaccadesse: si cercano, si incontrano e scappano via, perplesse, timorose.
- Oliver – bisbiglio ancora, interrompendo il bacio.
- Uhm – lascia sfuggire dalle sue labbra, senza lasciarmi andare. Fissa il pavimento, in attesa di qualcosa.
- Ti amo – sospiro, un enorme peso che se ne va. Sgrana gli occhi, alzando la testa, di scatto.
- Cosa?
- Ehm... ti amo – ripeto, non tanto sicura di aver beccato il momento giusto per dirglielo.
- Oh. Sì. Certo.
Sbatto le palpebre, perplessa, e forse anche un po' ferita.
- E' tutto quello che hai da dire? Oh, sì, certo? – domando, la voce carica di risentimento.
- No. Aspetta, cos'è che mi hai detto?
Ah, fantastico. Io gli dico che lo amo e lui che si distrae.
- Niente. Non vale la pena ripeterlo – gli dò le spalle, ricominciando a guardare verso il basso.
Si accosta a me, circondandomi la vita con le braccia. Abbassa la testa, verso il mio orecchio.
- Ti amo anche io – sussurra, aumentando l'andamento del mio battito cardiaco.
- E dovrei crederti?
Stringo le labbra, offesa. Non credevo che sarebbe andata così.
- Sì? Senti, la prima volta ti ho chiesto "cosa" perché non riuscivo a crederci, la seconda volta ho detto "oh, sì, certo" perché speravo che lo ripetessi ancora.
- No, aspetta. In quale mondo, tu dici alla tua ragazza "oh, sì, certo" dopo che ti ha detto ti amo solo per sentirtelo ridire?
- Non lo so – alza le spalle, confuso.
Scoppio a ridere, appoggiando la testa al suo petto. – E' stata una liberazione, sai? Era troppo... complicato portarsi dietro questo peso.
- Quando te ne sei accorta?
- Ieri – ammetto, osservando il cielo. – Tu?
- Kenzie, io... quest'estate, te lo ricordi che a casa di Jo c'ero anche io? – chiede sottovoce.
Strizzo gli occhi, cercando di fare mente locale. – Uhm... no?
- Fantastico. Comunque... hai fatto colpo da lì e... non saprei dirti esattamente quando me ne sono reso conto.
- Cioè, mi stai dicendo che – provo a capire. – Quando ci siamo conosciuti al Paiolo Magico, tu già sapevi che fossi. E già ti piacevo?
- Più o meno.
- Wow. Be', è ammirevole.
- Da pazzi – mi corregge, stringendomi.
- Bah, fa lo stesso – minimizzo. – Almeno non è finita male. Guarda dove siamo arrivati.
- Non ci avrei mai sperato, sai? Soprattutto che ti saresti innamorata.
- A volte capita. Ma il fatto che io non mi ricordi assolutamente di te quest'estate non vuol dire che tu debba dubitare di quello che ho detto. Io ti amo davvero, Oliver.
- E io ti credo – dice con enfasi. – Non sto mentendo o cosa, è la verità.
Mi giro verso di lui, dando la schiena al paesaggio. Lo guardo, come se ci fosse solo lui, solo noi, e lo bacio, di nuovo. E mentre lo faccio, la consapevolezza di aver fatto un incredibile passo avanti mi colpisce, così come il fatto che alla fine io abbia messo da parte tutte le mie insicurezze solo per due misere parole che hanno un potere immenso. Ti amo. O, se proprio vogliamo essere in linea con il "personaggio": Je t'aime.
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