28 - Kay
Non mi dà il tempo di spiegare, va subito indietro e scuote la testa mormorando parole sconnesse. «Allora non avrò mai il suo perdono, Vinny continuerà a odiarmi per il resto della vita».
Divento freddo: «Dovrei sposarla, dunque, per compiacerti, Elis? E cosa siamo, io e te, due pedoni da sacrificare alla regina? È in questo modo che le concedi la vittoria?».
«Sei tu che l'hai scelta! Stai con lei da settimane!»
«Come ho scelto molte donne prima di lei, e nessuna per legarmi a vita!»
Strizza gli occhi, copre le orecchie come una bambina che fa i capricci: «Io non ti capisco, non ti capisco!».
«Io voglio te!», dichiaro. «Ho sempre voluto te.»
Adesso mi osserva stupita e con gli occhi arrossati dal pianto.
Confesso: «Quando ho capito che per te avrei provato sentimenti pericolosi ho cercato di proibirmeli, ma non sono stato capace di allontanarmi da te, per questo sono rimasto con lei».
«Che pensiero contorto, Moser!»
Rimane immobile per qualche istante e io vorrei accorciare la distanza e prenderla tra le braccia ma mi limito a rimanerle davanti in attesa che parli. E lei finalmente lo fa, per dire la più grossa delle sciocchezze.
«Io ho poco da vivere, che te ne fai di me?»
Purtroppo la mia natura analitica mi impedisce di provare tenerezza per un'idiozia. «Poco da vivere? Hai solo bisogno di un pacemaker, smettila di commiserarti!»
E la sua natura emotiva le impedisce di razionalizzare, infatti sbraita: «Tu non capisci! Non voglio mettere il pacemaker, non voglio che un aggeggio elettronico decida a che velocità deve andare il mio cuore, che ne determini i battiti, che scandisca il tempo, io voglio che il mio cuore impazzisca senza essere controllato da una macchina. Non sono come te che hai creato un software per scandire i battiti di un'automobile, io non lo voglio un tuning heart nel mio petto!».
Ricorda persino il nome del software che ha ascoltato in conferenza, la mia bimba stava attenta.
«Entri nel merito del mio lavoro, mein kind?», sorrido.
La vedo voltarsi e marciare fino alla scala che conduce alla camera.
«Vado a vestirmi, vorrei tornare a casa, se non ti dispiace.»
«Ci tornerai domattina, ora è tardi.»
Non mi ascolta, sta già salendo a grandi falcate. «Ci torno adesso.»
Ha ragione il suo patrigno: è una testarda.
Durante il tragitto provo a mostrarle il tuning della mia Ferrari ma lei fa resistenza, volta la faccia verso il vetro, chiude gli occhi, sbadiglia, mi ignora. Alla fine mi intestardisco anch'io e le spiego senza il suo permesso.
«Col mio software io non sono intervenuto sul look dell'auto, ma sulle prestazioni. Volevo che fossero personalizzate e non standard. Sai che significa, mein kind?»
Non replica.
«Te lo dico io: significa che chi pilota l'auto è in grado di decidere, non è un'auto convenzionale, la guida può essere dolce ma anche grintosa, questo rende il pilota un arbitro e non un giocatore. Ed è ciò che capiterà a te quando inserirai il tuo tunning, ovvero il pacemaker. Sarai tu a decidere se farne buon uso, non è lui che ti gestisce, lui è solo il tramite tra la tua anima e il tuo cuore.»
Ora mi osserva corrugata: « Me la incarti col linguaggio poetico perché pensi che io sia troppo stupida per un discorso scientifico?».
Ora comincio a perdere la pazienza. «Devi mettere il pacemaker, fine della questione.»
Mi tira un pugno contro il braccio. «Ma chi diavolo pensi di essere per parlarmi così?»
Agguanta la maniglia e prova ad aprire la portiera nonostante la velocità di crociera si aggiri intorno ai centoquaranta in curva. Non la trattengo, sorrido.
«Vuoi lanciarti fuori?»
Lei spinge con la spalla e si lamenta emettendo versi nervosi.
«Non puoi, kind, è bloccata. A questo servono i software.»
«A questo cosa? A impedire alle persone di scendere trattenendole contro la loro volontà?»
«A impedire a chi non ragiona di tuffarsi di testa tra le auto in movimento.»
Ricomincia con i pugni. « Voglio essere padrona di decidere da sola come morire, chiaro?»
Rido. «Finalmente! Ci sei arrivata», rallento e la guardo. «Senza il pacemaker non sarai padrona della tua vita, ma solo ostaggio della tua morte.»
«Ma che cosa ne sai, tu, sei un dottore per caso?»
« Se vuoi essere padrona di te stessa devi regolare il tuo cuore, perché non faccia come crede e non ti uccida contro il tuo volere. Sei tu che comandi, non lui. Io creo tuning di prestazione per le mie auto proprio per evitare che uccidano i miei piloti, devono essere loro a governare l'auto e non il contrario.»
Sono riuscito a zittirla. Non ammetterebbe mai la sconfitta e né mi darà ragione, ma tace e ci pensa, e lo ritengo un inizio.
Superato il bosco dei sospiri e degli ululati, parcheggio accanto alla sua Panda vecchia guardia, che sta qui come un cimelio impolverato a conferire a questa notte spettrale tra i rami intricati della boscaglia un sapore vintage da film horror di serie B.
«Arrivati interi anche stavolta, mein Kind. A questo punto dichiarerei l'anatema archiviato in via definitiva.»
Lei sbraita. «Cos'eri, in un'altra vita, un avvocato?»
«E tu cos'eri, una martire?»
«Ricominci?»
«Devi operarti!»
«Vattene!», afferra la leva della portiera.
«Non ti lascerò morire!», le blocco il braccio.
A motore spento la centralina con uno scatto sblocca le portiere e lei si libera della mia presa. Ci mette un attimo a balzare fuori dall'auto e io decido di seguirla contro la sua volontà.
Le cammino dietro mentre marcia sicura verso la porta d'ingresso.
«Ti decidi ad andartene?», si lamenta di spalle.
Sto già pregustando la faccia che farà quando capirà che...
«Cazzo! Sono senza borsa, senza chiavi!»
... che non può entrare in casa.
Ridacchio. «Ti avevo detto di restare da me, ma tu hai voluto tornare a casa del diavolo.»
«Arrivo adesso da casa del diavolo, Moser», mi sfida a braccia intrecciate sul petto e mento alto, occhi da impunita e tensione a mille giri.
Sospiro divertito. «E va bene, troviamo una soluzione.»
Prima che possa insultarmi o impedirmelo, mi sposto rapido verso la facciata laterale e trovo un grosso sasso tra le sterpaglie.
«Ma che fai?» urla.
Scaravento il sasso contro il vetro della finestra che si frantuma provocando un tonfo stridulo che fa scattare in volo uno stormo di uccelli che era nascosto tra i rami.
Lei borbotta isterica che la casa è in affitto e che dovrà ripagare i danni, io ripulisco il davanzale dai pezzi di vetro e mi arrampico.
Finisco in salone e metto un piede sui vetri e un altro su un pupazzo che strilla un suono acuto appena lo pesto. Arrivo sulla porta d'ingresso e la spalanco. «Prego, mein kind.»
Entra solerte e, senza ringraziarmi, si mette a mani sui fianchi e piede che sbatte a tempo e ringhia: «E ora secondo te dovrei dormire sola in mezzo al bosco con la finestra rotta col rischio che entri...».
«Cosa? Un ladro? E che si ruba, qui?»
«... un animale», finisce la frase. Poi fa un ghigno e mi guarda dall'alto in basso. «In effetti uno è già entrato.»
Rido. «Già, indossa dei ridicoli shorts da uomo, una maglietta sei taglie più grande di lei e dei calzettoni da montagna. È un animale raro e molto pericoloso, in grado di far perdere la pazienza a un tedesco.»
Non me lo aspettavo ma lei si avvicina e arriva a un palmo dal mio petto.
Per la prima volta mi osserva maliziosa. «Impossibile che tu perda la pazienza, la testa o qualunque altra cosa, super uomo, tu che crei aggeggi che regolano ogni cosa, comprese le emozioni. Non ti innamori, non ti lasci andare, tu sei il tunning di te stesso, e vivi come un automa. Esattamente quello che non voglio fare anch'io. Preferisco essere me stessa fino in fondo, piuttosto che farmi gestire da un aggeggio.» Ora mi fissa truce: «Preferisco lasciarmi andare, piuttosto che reprimere quello che sento!».
Mi scopro a parlarle col fiato rotto. «Stai cercando di dirmi qualcosa, mein kind?»
Lei si accorge della gaffe e fa un passo indietro.
Ora sono io a provocarla: «Che c'è, ti sei ricordata di non avere il coraggio di lasciarti andare esattamente come me?».
«Non è questo», abbassa la testa e chiude gli occhi. «Non si tratta di coraggio ma di correttezza. Tu vai a letto con mia sorella.»
Sospiro. «Come sei diretta, Kind.» Mi guardo intorno per un attimo. «Okay, ora devi dormire, è molto tardi, io resterò sul divano.»
Spalanca gli occhi. «Tu cosa?»
Vado a sedermi al centro del salone su questo divano grigio e gonfio che pare riempito di paglia. «Passerò la notte qui. Voglio assicurarmi che tu non venga rapita dagli alieni o aggredita dallo Yeti dei boschi.»
«No!», esclama decisa.
«Sì», dichiaro di rimando.
«No!»
«Sì! Vai a letto, è mezzanotte passata, alle otto devi ricoverarti.»
S'indigna, stringe i pugni come una bambina prepotente: «Prima di tutto non mi ricovero! E poi non capisco come tu faccia a non avere il minimo rimorso nei confronti di Vinny! Te ne stai qui a farmi la guardia del corpo lasciando la tua donna sola chissà dove...»
«Virginia non è la mia donna! Sono stato chiaro con lei fin dall'inizio: non l'avrei mai amata e il nostro sarebbe stato un rapporto platonico.»
È interdetta. «Che, che significa platonico?»
«Vai a letto, mein kind.»
Non mi ascolta, fa l'opposto, viene a sedersi accanto a me e fissa le sue mani premute sulle ginocchia unite. La vedo riflettere a lungo.
Alla fine mormora: «Se avete questo genere di rapporto, significa che lei sa di non poterti avere.» Fa un respiro profondo. «Sei sempre stato tu, non è vero? Sei tu che mi hai fatto confezionare gli abiti su misura, che hai mandato la limousine a prendermi, che hai organizzato la cena di Ferragosto. Eri tu quella notte nella mia stanza d'ospedale che mi parlavi mentre ero sedata. Vinny non c'entra niente, non ha motivo perdonarmi. Non smetterà mai di odiarmi.»
«Smetterà», le accarezzo i capelli.
Lei prende la mia mano e la stringe. «No, non lo farà. Soprattutto dopo questo», si avvicina e si stringe a me. Le sue labbra arrivano fino alla mia bocca, e prima che io possa prendere una decisione, le ha già premute contro le mie. Le schiude e io seguo i suoi movimenti incapace di fermarla, consapevole che tutto quello di cui ho bisogno è nella sua bocca: il sapore di desiderio, l'odore di fragola, i capelli di seta che mi accarezzano il collo. In un impeto che non so controllare la prendo per i fianchi e la metto a cavalcioni su di me. Stringo i suoi capelli in un pugno e con l'altra mano le accarezzo la schiena e la premo contro di me. Con la lingua avvolgo la sua, la assaporo piano, poi la divoro insaziabile, e sento il respiro farsi indiavolato e la pelle fremere e tremare come se vibrasse spinta al massimo su una strada senza ritorno. Il bacio è lungo e lento e famelico e lei, senza lasciare le mie labbra, un bottone alla volta mi apre la camicia.
Prima che lo faccia, prima che io possa commettere un errore fatale di cui poi mi pentirei, la fermo. Devo dare fondo a tutto il mio autocontrollo per impedirle di amarmi e per impedirmi di amarla, faccio appello al paradiso da cui proviene, perché mi aiuti a smettere di desiderarla come un folle, e a salvarla.
La mia mano prende la sua, le impedisce di muoversi su di me, e la voce è un sussurro amaro: «Devi riposare, mein kind».
Ha il viso a fuoco, la pelle che brucia, ma mi obbedisce, si arrende e mi osserva muta. Le leggo negli occhi la domanda. Vorrebbe chiedermi perché. Ma io la prendo in braccio, lei si stringe al mio collo, e la porto fino alla camera da letto. L'adagio sulle lenzuola e mi chino per baciarle la fronte: «Devi dormire, mein kind. Domani ti aspetta una giornata faticosa», e non sarò io a stancarti e a impedirti di guarire, amore mio. «Vado sul divano. Se arrivano i mostri li caccio via, promesso.» Mi sollevo e la sua mano mi afferra il polso.
«Resta. C'è posto per tutti e due.»
La osservo stordito, non so se riuscirei a restarle accanto senza toccarla. Non sono così forte.
Ma lei insiste: «Ti prego. Quel divano è molto scomodo e io ho tanto freddo».
Stavolta non le resisto, e mi sdraio accanto a lei, vestito, mentre si accuccia sul mio petto e il suo viso si incastra perfettamente nell'incavo del collo. Posso sentire il suo respiro caldo sulla bocca mentre dice: «Non so niente di te, Moser».
Le accarezzo i capelli, me la stringo addosso. «Cosa vuoi sapere, mein kind?»
Lei sorride. «Non lo so, il tuo gusto preferito di gelato, il tuo colore preferito, il film che hai amato di più...»
Sono in difficoltà, mi pare di essere tornato a tredici anni. Non ho mai pensato a un colore preferito. Se glielo dico magari ci rimane male.
«Rosso Ferrari», rispondo senza pensarci troppo. «Il film su Tazio Nuvolari e il gusto... è un odore... l'odore della nafta quando sale di giri.»
Alza il viso e mi osserva corrugata, ma sta ridendo.
«Okay, mi pare giusto.» Poi ci pensa e con gli occhi per aria dice, «Cioccolato fondente. Il blu del mare. E il film... vediamo se indovini.» Fa il vocione, per imitare il timbro maschile, e recita: «Nessuno può mettere Baby in un angolo».
Ci osserviamo occhi negli occhi, la premo contro di me, e insieme ci mettiamo a ridere. Lei è in imbarazzo, ficca il viso nel mio petto e quando riemerge sembra sul punto di dire qualcosa di scomodo, che le costa fatica.
Sussurra: «Devo chiederti un favore, Kay».
È la prima volta che mi chiama per nome. «Che favore, Elis?»
Lei avvicina il suo musetto impunito alla mia barba rada e parla con la voce da bimba: «Mi servirebbero autografo e dedica, uno tuo e uno di Ivan Battest, per il mio amico Marco.»
La osservo con un sorriso corrugato. «Chi sarebbe questo Marco?»
«Un vostro fan accanito.» Si mette a mani giunte. «Per favore, per favore.»
«A una condizione», le prendo il viso nelle mani. «Che adesso ti metti a dormire.»
Lei sorride e mi porge il mignolo. Lo guardo interdetto e per un momento non capisco cosa significhi. Poi torno a sentirmi un tredicenne e giro il mio intorno al suo. «Promesso, mein kind.»
Il sole di questa mattina di fine agosto mi sfiora la pelle e la brucia.
Apro gli occhi e avverto lo stesso mal di schiena dell'ultimo periodo sotto terapia, questo letto mi ha devastato. Poi la guardo dormire tra le mie braccia e penso che non sia stato solo il letto a devastarmi. Mi sento così diverso, stamattina. Mi sento un uomo libero, rinato. Per la prima volta felice.
Sussurro nel suo orecchio: «Elis? Mein kind, sveglia, bimba, è mattina.»
Le lascio una scia di baci sulla fronte, e torno a chiamarla piano. «Elis? Piccola, avanti, dobbiamo alzarci...». Osservandola mi rendo conto che non si muove. Che la sua pelle non è di seta come ieri sera, è di cera.
La scuoto in preda al panico: «Elisabetta! Ti prego! Bambina, ti prego!».
Ma lei non si sveglia più.
***
Per un momento ho pensato all'anatema, al fatto che nella sua vita le cose finiscano sempre per ripetersi. L'ho pensato nello sconforto assoluto, mentre la portavo in braccio nella mia auto e mi spingevo al massimo dei giri lungo la provinciale in una gara contro il tempo, col timore che morisse. Per un momento ho ripensato a quel giorno in cui le era successa la stessa cosa e suo padre e suo cognato avevano agito come me adesso. Loro però non erano piloti. O forse sono solo un diavolo più fortunato.
Fuori, nel cortile dell'ospedale, si è radunata la stampa.
Il mio spettacolo col Ferrari lanciato a duecento fino al Belcolle ha attirato polizia e giornalisti. Hollistar mi ha chiamato incazzato nero, dice che mi hanno attapirato e che presto riceverò la visita di Staffelli col suo Tapiro per aver usato la Tuscanese come una pista rischiando di ammazzare la gente. Così da mezz'ora mi nascondo, e sono rintanato nella sala medici a parlare col cardiochirurgo di turno, sembra uno in gamba ma quello che dice vorrei che fossero cazzate. Vorrei che non fosse in gamba. Un ciarlatano sarebbe l'ideale.
«È in piena crisi, abbiamo dovuto intubarla, resterà in terapia intensiva finché i suoi valori non si stabilizzeranno. Solo allora potremo pensare di inserire il pacemaker.»
«Che significa potremo pensare? Non è la prossima mossa da fare?»
«Non se il suo cuore è ridotto in questo stato. Ormai potrebbe essere troppo tardi.»
Bastardo. Parla come se la morte di Elis fosse prossima, e non ci fosse nulla di strano a morire a ventidue anni. Trattengo a stento la voglia che ho di malmenarlo davanti alle infermiere.
Una di loro è appena rientrata da una ricognizione in reparto, si è chiusa la porta alle spalle e ha detto trafelata: «Siamo sotto assedio. C'è pure il TG Cinque in collegamento con Barbara D'Urso.»
Credo di avere la nausea. Non mi intendo di gossip ma credo che stavolta il mentor della Hakkin sarà beffeggiato fino alla fine dei suoi giorni per aver fatto il pirata della strada invece che il pilota di Formula Uno.
Mentre lo penso, qualcuno finisce la mia frase: «Se racconti che hai fatto lo spericolato per salvare la donna che ami, ti riabiliteranno. In pochi secondi passerai da pirata a principe azzurro come la tua auto va da zero a cento.»
Mi volto e Virginia mi fissa torva, sul punto di esplodere.
«Quando sei arrivata?», domando indifferente.
«Fuori ci sono mamma e Rudolf, vorrebbero parlarti, capire che cazzo è successo! Avevi detto che l'avresti recuperata, poi siete spariti un giorno e una notte, e ora ce la riporti in fin di vita?»
Non capisco se fa la tragedia per dispetto, perché sta morendo di gelosia, o se sia davvero e per la prima volta preoccupata per Elis. Purtroppo credo nella prima ipotesi.
«Falli entrare, io non posso raggiungerli, mi assalirebbe la stampa.»
Ride di me. «Oh, ma certo, non sia mai che ti intervistassero, e cosa racconteresti? Che ti sei invaghito di una ragazzina cardiopatica a cui è scoppiato il cuore quando l'hai trascinata a duecento all'ora nella tua corsa all'ego?»
Smetto di guardarla in faccia e sposto il capo verso sinistra, a occhi bassi. «Spenga quell'affare o glielo spacco, giuro.»
L'infermiera alza le braccia e indietreggia, nella mano destra ha ancora il cellulare con la registrazione aperta. «Oh, io... io... mi scusi io...»
Virginia diventa rosso fuoco e si lancia sull'infermiera, le impugna mano e telefono e preme per farle aprire le dita e strapparglielo.
«Non ti permettere!», le urla. «Speculi sul nostro dolore, eh! Che vuoi fare, rivenderti il video? Oppure cosa, diventare virale così ti aumentano i follower? Adesso ti insegno io l'educazione», la prende per i capelli. Le colleghe si schierano con l'infermiera, ma Virginia le sovrasta tutte col suo fisico giunonico, e diventa una discussione urlata che senza dubbio è ascoltata dall'intero reparto.
Mentre litigano afferro camice e cuffia e mascherina chirurgica, e imballato come l'uomo mascherato esco di qui e vado a raggiungere il vetro che affaccia sul suo letto. Qui è tutto così surreale, qui si lotta per evitare di finire in un video su Tik Tok, mentre la mia bimba è lì che lotta per sopravvivere. La mia bimba cioccolato, che ama il blu del mare e che vuole qualcuno che la porti via dall'angolo in cui si è rifugiata.
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