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24 - Kay


Virginia mi precede per sedere nella limousine che ci riporterà in albergo, a Roma. Sono le due del mattino. I genitori si sono congedati con un'aria trasognata, ebbri, sbronzi. Ma io sto guardando Elis, ferma davanti all'ingresso che aspetta un taxi con suo fratello in braccio.

Virginia mi nota. «Non abitano nello stesso posto, per questo mia madre è andata via senza di loro».

«E non poteva accompagnarli?»

Lei si stranisce. «Gli ha pagato il taxi. Mia sorella villeggia in mezzo a un bosco, ci vorrebbero ore per fare avanti e indietro, e Rudolf è stanco e domani lavora.»

Il viso di Elis è piegato sul bambino, e il vento si è alzato inclemente.

Non posso togliermi dalla testa quel bacio, il sapore della sua lingua che mi ha fottuto. Non ho mai provato un impeto simile per nessuna donna. L'effetto che mi fa, il modo come mi fa sentire quella ragazzina ribelle...

Virginia si sporge sul sedile: «Avanti, Kay, andiamo, sali. Sa badare a se stessa».

«Mi pareva che avessi detto che tua sorella è piccola e che non sa affrontare le situazioni.»

Ammutolisce e continua a rivolgermi un'espressione preoccupata, incapace di spiegarsi il mio comportamento.

Porto il cellulare all'orecchio.

«Val? Hotel Riva. D'accordo, dieci minuti.»

Chiudo la comunicazione e adocchio il taxi che costeggia il viale d'ingresso. Faccio un cenno al parcheggiatore e quello annuisce da laggiù. Si avvicina al taxi e pochi secondi dopo l'auto riparte e si allontana.

«Che sta succedendo?», chiede Virginia, sporta tra i sedili e la portiera ancora spalancata in attesa che io salga.

«Loris», mi rivolgo al mio autista.

«Sì, signore?»

«Cambio di destinazione.» Allungo una mano all'interno dell'abitacolo. «Scendi, tesoro, prenderemo un'altra auto.»

Lei ancheggia per raggiungermi ed emette mormorii di lamento.

Quando è finalmente al mio fianco, faccio un cenno a Loris che immediatamente riparte e raggiunge Elis e suo fratello. Li vedo discutere, Elis guarda da questa parte, poi finalmente si decide a montare in auto.

«La nostra limousine sarà qui a breve», spiego alla mia compagna insofferente che sbatte il tacco a tempo.

Virginia sbraita di rimando: «Era quella, la nostra limousine».

Non la guardo, affondo le mani nelle tasche della giacca. «Non capisco, preferivi che un bambino di quattro anni restasse ancora in mezzo alla strada? Noi possiamo aspettare.»

«Era arrivato il loro taxi», ribatte.

Mi volto esasperato a osservarla con occhi severi: «Non è stata tua sorella a ucciderli, è stato il destino. Fattene una ragione, sei adulta».

La vedo gonfiarsi e stare per esplodere, diventa rossa in viso e ringhia: «Anche tu sei adulto. Fatti una ragione che in una relazione si scopa e che la tua amica è sottoterra, dimenticala e vai avanti».

Sono impassibile ma credo abbia capito che sta mettendo a dura prova i miei nervi già tesi.

Infatti prova a chiarire: «Te l'ho detto, Kay, noi siamo uguali. Due sopravvissuti che non riescono a ricominciare».

Oltre la sua spalla vedo sfilare via la limousine con Elis e suo fratello. Lei si volta un istante e i suoi occhi sembrano tristi, ma in poco l'auto vira e si fa sempre più piccola, fino a sparire nella notte.

«È vero. Non ci riesco», replico sottovoce stringendo le nocche fino a farle dolere. «Ma tu stai sconfinando, Virginia. E mi sto domandando perché te lo permetto.»

Impallidisce ma non ha modo di replicare, la nostra limousine è arrivata. Monta stizzita e non mi permette di aiutarla. Si fa più in là e tace durante il tragitto.

A metà strada tra Bolsena e Roma allunga una mano e la intreccia nella mia. L'abitacolo è silenzioso, le curve diventano rettilineo, una corsa muta e insonorizzata come la mia anima.

A un tratto spezza l'attesa e senza guardarmi dice flebile: «Va bene, starò alle tue regole. Rapporto platonico. Ma devi sposarmi».

Trasalgo.

«Oppure», continua lei sprezzante, «mi scopi e mi molli. Sono queste le tue regole, no?»

È abile a colpirmi con la mia stessa arma.

Mi indirizza uno sguardo tormentato: «Allora? Mi sposi o mi scopi?».

Il respiro accelera, le stringo la mano al punto che la sento gemere.

Il mio cellulare squilla sonoro e la fa sussultare.

Le lascio la mano e osservo il display. Divento insofferente appena leggo il nome di Loris, l'autista che sta trasportando Elis e suo fratello. Che ragione ha di chiamarmi?

Apro la comunicazione e non trattengo una voce che trasuda ansia: «Che succede?».

Dall'altra parte Loris spiega con voce costernata: «Signore, mi dispiace, abbiamo avuto un incidente. L'auto ha sbandato su una radice enorme, qui siamo in mezzo a un bosco. La ruota ha forato, ma è impossibile cambiarla, il cerchione si è piegato, e non esistono servizi di emergenza, sembra di essere nel deserto e...».

Lo interrompo: «State tutti bene?».

«Il bambino piange, si è spaventato, ma stiamo bene.»

«Inviami le coordinate GPS, sto arrivando.»

«Subito, signore.»

Attendo di visualizzare nel telefono le coordinate e mi rivolgo a Val: «Torniamo indietro fino al bivio. A sei chilometri a est c'è un'officina, il Box di Toro, portami lì più in fretta che puoi.»

«Sì, signore», devia e accelera.

Afferro la cintura di Virginia e gliela giro addosso, l'allaccio. L'auto è lanciata in velocità.

Agguanta la maniglia e si tiene con due mani. «Che cavolo sta succedendo, Kay?»

«L'altra auto ha avuto un incidente...»

M'interrompe come una furia: «Logico! Mia sorella è una calamità, te l'ho spiegato. È a causa sua che hanno avuto l'incidente, chiunque salga in macchina con lei è in pericolo. Ci manca che uccida pure Francesco, quella stronza!».

Non ho il tempo di arrabbiarmi, mi sto sfilando la giacca, arrotolo le maniche della camicia, afferro i guanti dal vano portaoggetti.

«Ma che stai facendo?», chiede isterica.

L'auto accosta e lampeggia verso la saracinesca. Due molossi imprigionati dietro a un cancello, attaccano un concerto di latrati, abbaiano, ringhiano, e poco dopo Toro esce fuori. Smonto dall'auto e lui non fa domande, si limita e far scorrere l'anta automatica che lentamente scopre la mia auto da corsa personale.

Virginia trasale: «Ma che cos'è? Una Ferrari?».

«Per essere esatti, una Ferrari F12», le impedisco di scendere bloccandone il movimento col palmo della mano aperta su di lei. «Val ti riporta in albergo. Io torno più tardi.»

«Non puoi farmi questo!», le richiudo lo sportello con forza e Val si muove subito, lasciando intendere di aver bloccato le sicure dell'auto. La vedo bussare contro il vetro mentre si allontanano.

Mi infilo nell'abitacolo scappottato e inserisco la chiave.

Toro mi arriva di fianco: «Coach, non so dove deve andare a quest'ora ma le sconsiglio di salire sopra i duecento, è Ferragosto e sulla Tuscanese è pieno di posti di blocco».

Con la mano gli rivolgo un cenno di saluto e quando l'auto inizia a ruggire potente, lui si fa indietro e io schizzo fuori dal box e mi immetto sulla provinciale al massimo dei giri, e sono già a cento dopo dieci secondi.

L'auto ruggisce a ogni cambio di marcia, faccio rombare i dodici cilindri attraverso i tornanti, supero i duecento, gli autovelox fleshano rapidi in un susseguirsi di scatti che mi lascio alle spalle alla velocità del suono. Quando il computer di bordo segnala la deviazione lungo la boscaglia devo rallentare, spaccherei gli ammortizzatori se planassi sul sentiero dissestato, l'assesto di quest'auto non permette scalate. Impiego comunque meno di mezz'ora a raggiungerli.

Tuono e sgaso e spengo l'eco a pochi metri dalla limousine impantanata. Loris è fuori dall'auto che mi saluta con un cenno della mano e mi viene incontro.

«Signore, sono addolorato.»

Gli assesto una pacca sulla spalla. «Non è stata colpa tua, non preoccuparti.»

«La ragazza dice che è lei la causa, sembra fuori di sé, io non riesco a capirla.»

Lo supero mesto e spalanco lo sportello della limousine.

Elis mi rivolge uno sguardo tristissimo, quegli occhi grandi e profondi ora brillano lacrime che vorrei bere per strapparle al viso d'angelo che stanno rigando. Suo fratello sta singhiozzando tra le sue braccia.

Le porgo la mano: «Vieni, andiamo a casa».

Si stringe al bambino e risponde disperata: «Non intendo montare su un'altra macchina. Da qui proseguiremo a piedi appena farà giorno».

«Non dire sciocchezze, all'alba mancano tre ore. E sei chilometri alla destinazione finale. Scendete, avanti, vi porto io.»

Elis urla: «Vuoi morire? Perché è questo che ti succederà se salirò in macchina con te!».

Tra le urla e i singhiozzi, Francesco alza la testa e osserva oltre il vetro posteriore. Poi tira su col naso e dice: «Ma è una macchina da corsa, quella? Come il modellino che mi ha regalato papà.» Si mette a scalciare. «Elis, Elis, andiamoci, ci voglio salire!»

Lei è immobile e lo fissa senza reagire.

Smetto di fare anticamera e tendo le mani, afferro il bambino e lo prendo in braccio.

«No! Lascialo!», urla Elis.

«Scendi, sto perdendo la pazienza», e mi incammino con la piccola peste che strepita e urla Sìììì, la macchina che corre, sì!

Elis ci arriva alle spalle e osserva l'auto. «Ha solo due posti!»

Le piazzo il bimbo tra le braccia.

«Tienilo sulle gambe, andrò pianissimo.» Le apro la portiera, e lei indietreggia.

«Non importa che tu vada piano, se mi farai salire succederà qualcosa lo stesso...»

Faccio un respiro lungo: «Succederà che ti infilerò qui dentro con la forza, se non ti decidi, mein kind.»

«Io ti ho investito, te lo ricordi?»

Mi volto verso Loris: «Torno tra poco».

La spingo, si china e si siede con Francesco che ora ride impazzito e straparla Che bello, che fico! È come stare su un'astronave!

Finalmente riesco a partire e lei stringe gli occhi, neanche stessimo per decollare.

Per tutto il tragitto il bambino urla euforico mentre Elisabetta tiene gli occhi serrati, non so come ci sono arrivato fino a questa villa in mezzo alle frasche senza farmi venire un attacco di nervi.

Accosto davanti a una Panda vecchio modello che sembra uscita da un film anni novanta.

Le do un buffetto sulla guancia e sorrido: «Siamo arrivati sani e salvi, kind. Puoi aprire gli occhi.»

Lei lo fa, li apre piano e si guarda intorno spaesata.

«Che c'è?», chiedo subito, «Ho sbagliato villa?».

«No, è questa», ammette la sconfitta e abbassa la testa.

Spalanco lo sportello con ritrovata energia. «Hai visto? Siamo vivi. Scendi.»

Smonta barcollante, come una bambina adottata da un incubo.

La seguo fino sulla soglia e lei mette giù la piccola peste e fruga nella borsetta per trovare la chiave.

«Non è un po' isolato, qui? Ci state da soli?»

Inizia a girare mandate fino alla fine della corsa e non replica.

Ho la sensazione che l'abbia punita la sua intera famiglia, non solo sua sorella.

Appena la porta si apre, Francesco sgattaiola dentro in velocità facendo il verso al motore Vrum vruuuum, e si lancia su due macchinine divelte sul pavimento, poi le fa camminare e urla: vai corri, più veloce!

Elis alza gli occhi e mi osserva nella semioscurità ma non dice niente, e io non riesco a interpretarne i pensieri.

Vorrei baciarla ma non siamo soli. Vorrei dirle la verità, spiegarle che sto bene solo quando lei è con me, ma sarebbe una follia e oggi ne ho già fatta una.

Mi volto verso la Panda. «Come mai non guidi?»

Fa una smorfia. «Mi prendi in giro? Mi pare di avertelo spiegato.»

Lei è la prima a punire se stessa.

«Finora ho sentito solo stupidaggini per superstiziosi e nulla di sensato.»

I nostri occhi restano immobili a contemplarsi in silenzio, un silenzio rotto solo dai versi sconclusionati del bambino che corre dietro alla macchinina lanciata contro il divano, le sedie, il tavolo. Avverto un magnetismo insano tra noi ma non riesco ad accettare l'impasse, devo fare dietrofront o non resisterò a lungo senza toccarla.

Le mie dita virano fino al suo viso. Lei indietreggia e la manco per un soffio. Mi dà le spalle e va verso il centro del salone.

Mi volto per andarmene, e la sento mormorare: «E così tu e Vinny vi sposate.»

Sono interdetto.

E se per salvarla da me fosse sufficiente confermare questa idiozia?

Lei si volta e fa un sorriso che sembra forzato. «Sono contenta per voi.»

I miei nervi si tendono, «Davvero?».

Lei si acciglia. «Sì. Davvero. Le ho ucciso un marito e gliene ho trovato un altro, sono contenta.»

Oh Cristo, smetti di punirti.

Con due falcate le sono davanti e stavolta le impedisco di muoversi, le prendo la mano. «Tu non hai ucciso nessuno, smetti di dirlo.»

Lei mi strattona, si libera della presa e va indietro scuotendo la testa. «Che ne sai tu? Non c'eri. Non sai come sono andate le cose.»

«Va bene, Elisabetta, dimmi, come sono andate le cose?»

Stringe gli occhi e sibila: «Adesso vattene», poi urla «Vattene, ti prego!».

Il bambino si ferma e ammutolisce. Ci osserva confuso.

Sospiro. «Ci diamo la colpa, ma la morte fa parte della vita, e ognuno ha il suo destino. E non spetta a noi cambiarlo, possiamo solo accettarlo. Buonanotte, Elisabetta.»

Mi richiudo la porta alle spalle e marcio svuotato fino alla mia auto. Non so nemmeno io perché le ho detto quelle cose, non le applico neanche su me stesso.

Guido come un pazzo col rischio di schiantarmi.

Sono come lei, mi punisco per la sorte di Sophie esattamente nello stesso modo.

Sbando in curva, la riprendo, le ruote gridano e grida il mio cuore. 

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