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11 - Elis


«Basta, io lo chiamo.»

«Mamma, no!», le sfilo di mano il telefono. «Non ci provare.»

Lei si agita nel suo saio indiano, e si muove isterica: «Ori Lumi è l'unico in grado di sovvertire il fato nefasto che ti avvolge l'aura!».

«Ori Lumi è un buddista esaltato che predica bene e razzola male, e in paese lo sanno tutti che dorme al bordello ed è un tossico che i suoi demoni se li inventa sotto acidi.»

Lei impazzisce e apre le braccia a una mossa plateale: «Ma non lo vedi dove siamo finite? Abbiamo bucato in mezzo alla marrana! Ogni volta che tu sei in un'auto succede qualcosa, bisogna intervenire prima che sia tardi. Bisogna chiamare Ori Lumi!».

«Bisogna chiamare un carro attrezzi, mamma.»

All'imbrunire siamo ancora sedute sul ciglio della strada in attesa che arrivi Rudolf, l'unico in grado di cambiare la ruota, e quando un lungo carro funebre lampeggia a poca distanza e accosta, ho un sussulto.

«Ci hanno già preparato la bara?», dico incredula.

Mamma sbuffa. «Ma cosa vai a pensare, quella è una Limousine.» Poi ci ripensa: «Che ci fa qui una Limousine?».

«Mi sa che è la macchina che mi ha mandato Moser», spiego nervosa e senza muovermi dal terreno in cui sono affondata.

Lei mi spinge afferrandomi per i fianchi: «Alzati, figlia imbecille, vai, muoviti, quel casanova milionario ti manda a prendere da un'auto che costa più di casa nostra e tu te ne stai qui impalata a sbuffare. Ma come mi sei uscita fuori, dico io!».

Sbraito: «Oh, mamma, basta, smettila. Non hai paura che se monto in quell'auto finisce che uccido l'autista di Moser?».

Si blocca e ci riflette. Ora sta facendo preoccupare anche me che facevo una battuta.

Poi si fa cospiratoria: «Oh, beh, correremo il rischio. Vai, bambina, muoviti o ti ci porto con la forza.»

Dopo avermi sbatacchiata, alza il culone dall'asfalto e si mette a correre verso l'auto scura dondolando i fianchi con le braccia per aria. «Ehilà! Siamo noi! Eccola, sta arrivando, aspetti, non se ne vada, la ragazza sta arrivando, grazie!».

Dio, che figura di merda.

Barcollo in avanti, mi ha costretta a indossare un vestitino fasciante perché dice che a una serata di gala non si va in jeans, e adesso non sono nemmeno in grado di camminare dritta, dopo un'ora trascorsa col culo sull'asfalto. Ormai puzzo come un tubo di scappamento. Forse andrò a genio al Re dei motori e mi farà avere uno sconto di pena se mi passo anche uno strato di grasso sulla faccia.

Arrivo al finestrino dell'autista che mi sta già guardando in cagnesco. Alzo il palmo della mano: «Salve, la manda Moser?».

Fa scattare la sicura, e mentre spalanca la portiera finisco tre passi indietro e per poco non precipito. Mi fa strada con un cenno della mano e un mezzo inchino, apre lo sportello e mi fa salire dietro.

Per un attimo osservo mia madre che saluta elettrizzata con due dita. È pazza come Vinny. Non mi piace l'idea di mollarla in mezzo alla strada da sola, spero solo che Rudolf si muova.

Mi accomodo, o almeno ci provo, in questo sedile imbottito che odora di concessionario, e oltre il vetro osservo la strada che subito sfreccia nella sera. Quando ho modo di notare il meganavigatore supersonico che troneggia sul lato guida, capisco come abbia fatto questo tizio a individuarci in mezzo alle campagne che costeggiano l'alternativa agreste alla civilizzata autostrada A1: sarà stato dotato di un satellite personalizzato.

Ancheggio lungo il sedile chilometrico e provo ad allungare l'orlo del vestito di pizzo tirandolo a due mani, - quando mi siedo diventa inguinale e non voglio sembrare a caccia - , ma rischio di strapparlo, non è elasticizzato, più di così non si allunga.

A un tratto l'auto sbanda e sento le ruote fischiare forte. Finisco sbalzata con la spalla contro il vetro. Mi tappo le orecchie e strizzo gli occhi.

«Oh, il karma, lo sapevo!»

Sudo freddo e immagino la fine: un dirupo che ci ingoia, una montagna che ci frana in testa, un orso selvaggio lanciato su di noi.

Poco dopo non sento più niente, l'abitacolo è tornato silenzioso e solo un ipnotico ronzio di fondo accompagna una marcia veloce ma fluida.

«Scusi», dice l'autista, «un istrice ci ha tagliato la strada, sono riuscito a evitarlo per un pelo.»

Qualcosa mi dice che se non avesse dovuto portare me, nessun animale sarebbe sbucato all'improvviso.

Mi fa scendere davanti a una scala imponente che conduce all'ingresso a una villa stratosferica, di quelle che avevo visto solo in gita scolastica o nei parchi pubblici di Roma. L'autista mi scorta fino all'entrata dove tre tipi vestiti di nero con tanti muscoli e l'auricolare gli arrivano davanti: «Chi è? Non vedo il pass. La conferenza è quasi finita, non possiamo più far entrare nessuno».

L'autista si avvicina a lui e gli parla nell'orecchio. Si scambiano un'occhiata divertita e annuiscono come ebeti, poi l'energumeno torna serio e muove una mano verso di me: «Prego, venga, l'accompagno».

Che diavolo gli avrà raccontato, che sono la carnefice del suo capo? Testosterone, odio quello e la dopamina.

Camminiamo all'infinito lungo un salone con i soffitti alti almeno quattro metri e mezzo da cui pendono sontuosi lampadari di cristallo, fino a che non arriviamo davanti a una smisurata portafinestra che affaccia su un parco. Un parco a picco sul lago. Da qui la vista è mozzafiato, soprattutto adesso che è buio e Capodimonte sembra la cartolina di un presepe.

A duecento metri adocchio un palco, e sul pulpito intravedo un uomo seduto che parla a una folla.

L'energumeno mi fa cenno di proseguire da sola.

Avanzo nel buio, stando attenta a non farmi illuminare dalle lampade sistemate tra i tavoli imbanditi e dalle torce crepitanti infilzate nel terreno a delineare percorsi, e mi viene subito un languore quando noto tartine di ogni genere sulla destra, ma sono costretta a proseguire. Mamma non ha voluto che cenassi, secondo lei senza cena si è più magre. Io dico che senza cena si è solo affamate.

Quando finalmente raggiungo la piccola folla, tra flash che scattano e brusii di fondo, metto a fuoco l'uomo che parla sul pulpito e mi manca il respiro: non è un uomo seduto, è Kay Moser su una sedia a rotelle. Dio, l'ho ridotto così male? Mi sento morire. Ora capisco perché ha insistito tanto per vedermi, probabilmente voleva che mi rendessi conto di quello che gli ho fatto.

Lui però parla a fiume e non riprende fiato. È entusiasta, mostra un grafico, spiega numeri, cita performance, alla fine dice: «E questo, sognori, è il nostro ultimo gioiello. Un software per Tuning da me progettato che permetterà all'automobile di personalizzare la spinta e la potenza, e solo un cuore forte potrà sopportarla, per questo l'ho chiamato: Turning Heart. La velocità massima sarà stabilita da un computer di bordo di ultima generazione vigilato da un satellite, ma sarà il pilota a inserirla o resettarla, certo... in base alle palle che avrà.»

Un coro di risate precede il lungo e scrosciante applauso.

Capirai, mi dico, dipendesse da gente come me, il suo aggeggio elettronico fallirebbe prima di arrivare sul mercato. Con le mie pulsazioni al massimo potrei accendere una sigaretta, figuriamoci un motore supersonico.

Alzano la mano per prendere la parola e fare domande, scattano foto.

Dopo che due giornalisti hanno chiesto spiegazioni sul software, è stata data la parola a una donna dall'aria incazzata che ha domandato a bruciapelo: «Come ci si sente a correre alla velocità del suono e poi a farsi investire da una ragazzina su una curva deserta?».

Il brusio intorno aumenta e io sento che il mio cuore ha preso a pulsare oltre il sopportabile. Non dovrei essere qui, ora me ne rendo conto, forse è la sua vendetta: vuole che mi riconoscano, che mi mettano in croce.

Starà gongolando su quel palco.

E invece no, perché la sua voce nel microfono s'incrina e fissa la luce che lo illumina con uno sguardo cupo. «No comment.»

Alcuni giornalisti insorgono: «Non puoi fare così, Moser. Avanti, dicci com'è andata!»; «Dài, chi era la ragazza?»; «Sembra sia la stessa che è sopravvissuta all'incidente del lago!».

Sanno tutto di me, potrebbero anche riconoscermi.

Vado indietro, inciampo, mi rimetto dritta, ho il fiato corto e le ginocchia che tremano, ma è il mio cuore a fare le bizze, mi sto sentendo male, devo scappare via subito, se svengo qui divento lo zimbello di tutti i quotidiani della provincia.

Moser agguanta il microfono con un gesto di stizza, e il fischio acuto che emette assorda tutti zittendoli all'istante.

«Non sono qui per parlare dell'incidente.»

Le luci dei riflettori si scagliano sul pubblico che si lamenta e continua ad alzare la mano e il fascio mi colpisce due volte mentre indietreggio.

Moser guarda da questa parte, spero solo che non mi abbia notata, ma non potrebbe mai riconoscermi. Continuo a indietreggiare e dal palco Moser fa un cenno a un uomo elegante e un po' grassoccio con il ciuffo a schiaffo sulla fronte che è fermo al suo fianco, quello si china e ascolta, poi come colpito da un razzo nel sedere scatta giù dal palco e si mette a marciare per entrare nella folla.

Non vorrei che stesse per scoppiare una rissa.

Non ho soldi per tornare indietro, ma qui non voglio restare un minuto di più.

Smetto di incespicare all'indietro, mi volto e marcio in rapidità acquistando sempre più terreno, finché la mia diventa una corsa.

«Signorina Elisabetta, signorina! Elis, Elisabetta, per l'amor del cielo, si fermi!»

Ma chi è che mi chiama?

Rallento e mi volto, e l'uomo che mi ha raggiunta mi finisce addosso e col suo peso mi scaraventa sul prato finendo per schiacciarmi.

Travolgo la gente anche a piedi, non è possibile.

Non riesco a respirare, e me lo scrollo di dosso facendolo rotolare più in là.

Mi parla nel fiato: «Non se ne vada, la prego, Kay è buono e caro ma diventa una furia se le cose non vanno come dice lui».

Mi tiro su col busto e resto seduta in mezzo all'erba col cuore che pulsa in gola e il fiato spezzato. «Riconosco il suo timbro fonetico, lei è quello che al telefono mi ha derisa.»

Lo vedo impallidire e arrivarmi vicino a carponi. «Riconosce il mio... il mio cosa? Come, come, cioè, no, non è vero, io non l'ho mai ... .»

«Le sue risatine erano chiare.»

Alza le mani: «La supplico, mi permetta di accompagnarla da Kay, la prego», finisce inginocchiato a mani giunte. «Per raggiungerla sarebbe saltato lui da quel palco, se non fosse inchiodato alla sedia.»

Cazzo. Ora fa leva sul mio senso di colpa. Un momento, sarebbe saltato lui? Come ha fatto a riconoscermi?

«Va bene», barcollo in piedi, «sono impresentabile, puzzo di asfalto e diserbante per piante, ma dato che il suo amico, capo o quello che è, ha così premura di vendicarsi di me, eccomi, basta che non mi dia in pasto alla stampa, non me lo merito. Non ho preso la mira, sia chiaro, è stato un cazzo di incidente.»

«Lo so, Elisabetta, non c'è bisogno di ribadirlo.»

Intuisco agghiacciata a chi appartiene la voce che è sopraggiunta alle mie spalle. Mi volto piano e la sedia a rotelle è a un passo da me e dalla mia vergogna. Possibile che quest'uomo riesca a sembrare alto pure da seduto?

Il mio cuore malandato sta arrancando.

Il suo socio si chiama Hollistar, dice, e scorta Kay Moser e me verso un gazebo riservato, ma dopo pochi metri Moser viene travolto da un drappello di giornalisti, e per evitare che mi riconoscano e che facciano due più due chiede a Hollistar di farmi sedere e di offrirmi da bere mentre lui se la sbriga, e finisco sotto il controllo di due bodyguard che stanno a gambe divaricate e braccia intrecciate al petto, fermi ai bordi del perimetro delimitato dalle torce.

Hollistar mi versa Champagne di colore rosa e mi prepara un piatto di tartine misto pesce dicendo che quelle all'aragosta sono eccezionali. Non mi piace l'dea di fare anticamera a cielo aperto col rischio di essere riconosciuta dai giornalisti, ma le tartine sono così invitanti che mi si apre lo stomaco e dimentico tutto pur di divorarle.

Mi lascia qui in mezzo al giardino in questa zona off limit e si dilegua per andare incontro al suo socio in difficoltà, travolto da tutti quei flash. Moser un po' mi fa pena, scattano foto alle sue ruote più che a lui. Sembrano morbosamente divertiti dal suo punto debole, come se godessero a vedere una star tracollare.

«E tu chi saresti?»

Un ragazzo belloccio, dall'accento nordico, magro e alto con i capelli dritti sulla testa, si siede accanto a me e mi sorride.

Ingoio il salmone e mi pulisco le labbra dalla maionese con un dito. «Io sono Elis.»

Allunga una mano: «Piacere, Ivan Battest». Dopo averlo dichiarato mi scruta curioso per alcuni istanti, e davanti al mio mutismo aggiunge: «Che ci fai qui, Elis? Tu non sei una giornalista, non hai la minima idea di chi io sia, giusto?».

Scuoto la testa.

«Sono un pilota.»

Annuisco fingendo un interesse che in effetti non provo, anche se una parte di me lo invidia, dico la parte con la fobia per la guida.

Mi studia, i suoi occhi virano tra le mie gambe e il mio bacino.

«Sei una ballerina?», domanda sorridente.

«Come hai fatto...»

«Ivan!», la voce di Moser ci tuona addosso.

Il pilota si alza con uno scatto e quasi s'inchina. «Coach.»

La sedia a rotelle converge su di noi e fa una mezza manovra per piazzarsi di fronte a me. Parla a lui ma guarda fisso me. «Stavi importunando la mia amica?»

Io sarei sua amica?

Il ragazzo arrossisce e diventa reverenziale. «Ma quando mai, coach, ero solo curioso, anche lei è una ballerina come la mia Susy.»

Lo sguardo di Moser muta da sospettoso a meravigliato, e non la smette di analizzarmi con un guizzo strano negli occhi che non so interpretare.

«Lasciaci», tuona solenne.

Il ragazzo pilota reagisce all'ordine con un movimento immediato e si defila senza aggiungere un saluto alla fuga.

Ora che ho davanti Moser non riesco più a mangiare, mi si è chiuso lo stomaco, sono in soggezione. Quest'uomo è imperioso, trasmette intransigenza, uno a cui non si può dire di no.

Eppure sorride calmo, e la sua voce è molto fonogenica e calda: «Così sei una ballerina?».

Non capisco perché sia un argomento interessante, ma annuisco a occhi bassi. «Lo ero. Non lo sono più.»

Lui non domanda il motivo ma il suo sguardo cala sul mio petto, e ho come l'impressione che non lo stia facendo per guardarmi le tette.

Cerco di spostare l'attenzione dalla mia sorte cardiaca avversa alla realtà: «Sono una speaker di audiolibri, leggo favole per bambini, un mestiere tremendamente più sedentario del ballo».

Le sue labbra morbide si aprono a un sorriso dolcissimo che mostra denti bianchi e perfettamente allineati.

«Le leggi anche a tuo figlio?»

Ancora con questa storia della ragazza madre?

«Signor Moser, io non ho figli. E gradirei che ci dessimo del lei.»

Ora mi fissa torbido come se volesse afferrarmi al collo, un animale affamato e vinto da una strana frenesia, e la cosa mi mette in imbarazzo e allo stesso tempo, per qualche ragione incomprensibile, muove qualcosa dentro di me.

Solo adesso capisco cos'è uno sguardo; è quando gli occhi di qualcuno ti leggono dentro così a fondo da farti sentire nuda. È come essere attraversata e ritrovarsi a un tratto stregata da quello sguardo al punto da domandarti: appartengo ancora a me stessa?  

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