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Terzo giorno

Andrea

Stavolta è diverso.

Stavolta non le dico dove andare, non le do mezze indicazioni aspettando che lei ci metta il suo e decida di seguirle e venire da me; stavolta non rimango a consumarmi nell'attesa di scoprire se accetterà, riconfermando per l'ennesima volta quella cosa forte che ci lega, o se ha riflettuto più del dovuto e ha cambiato idea; stavolta non me ne sto inchiodato nel timore di vedere se vuole ancora tenere fede al nostro patto dei quattro giorni oppure vuole abbandonare tutto come fosse una guerra già persa in partenza, una per cui non vale la pena, una di quelle che a pensarci bene si poteva anche combattere a tavolino, visto che una volta che vieni delusa magari la fiducia in quella persona non la riacquisti manco a scambiarla con un rene al mercato nero.

Magari, però, è la parola più importante di tutte. Perché magari invece non è vero, magari ne vale la pena eccome, magari le persone non cambiano dall'oggi al domani però ci pensano e ripensano così tanto da prosciugarli – i pensieri, dico – e capire cose di se stessi che prima non si sapevano. Tipo che io una vita senza di lei non la voglio, una domenica senza noi buttati a Villa Pamphili è come settembre senza il campionato, un'estate senza i suoi sorrisi sotto il sole il Tg1 che nell'unica settimana di ferie annuncia pioggia perenne mista all'afa portata dai monsoni africani o che so io. Chi nasce tondo non muore quadrato, quello no, ma magari può spezzare la linea continua della sua figura per inghiottirne un'altra – tipo un triangolo – poi richiudersi e tenerla stretta fortissimo dentro di lui, collimare lì dove la circonferenza tocca gli angoli, a volte modellarsi un po' attorno.
Chi nasce tondo non muore quadrato, ma magari può continuare a essere tondo in modo diverso.

E io voglio essere tondo con lei.

Stavolta faccio l'uomo perché lei si merita tutto me stesso – senza chiedermi se è abbastanza, ché già lo so che non lo è, spero solo che le vada sempre bene – e la vado ad aspettare sotto casa con un pezzo anni settanta suonato a palla dalla radio dell'auto mentre sto coi finestrini abbassati, uno di quelli che la gattara al piano di sopra si affaccia e si incazza, ma a me frega cazzi perché Bea si sta preparando e intanto dalla finestra mi sente e capisce che sono arrivato e aspetto solo lei e si fa bella per me. Non come non fosse successo niente prima, ma come a dire che è possibile che accada qualcosa dopo – e con dopo intendo tutta la vita. Come a dire che è ancora possibile costruire davvero qualcosa su queste ceneri e calcinacci che ho creato nella nostra vita e in me, io che dentro ho la devastazione, le rovine, ho i cumuli di polvere bianca che si alzano a frotte quando ci passi e ti avvelenano l'aria, ho le travi pericolanti e la puzza di sudore, piscio, sofferenza e tragedia che riempie l'aria dopo gli attentati.

Magari mi gioco Venditti, magari mi gioco Lando Fiorini e chiedo a Roma di nun fa la stupida stasera e magari a che ci sto lo chiedo anche a lei.

Non fare la stupida, Beatrice, non buttare all'aria tutto. Io sto qui apposta, modellato rispetto a prima e con la linea della circonferenza spezzata pronta ad accoglierti ché da quando ti ho visto ci sono ricascato con tutte e due le scarpe in te e in quanto bella sei – e mica solo fuori. Io felice come adesso non ci sono stato mai, nemmeno quando stavamo insieme, perché adesso sto qui con la certezza di quello che sono quando non stai accanto a me. E non mi piace. E non mi basta.

Roma è sempre Roma se i banchi di nebbia la soffocano giorno e notte? Se non puoi più vedere i sampietrini, se non puoi più guardare dall'isola Tiberina l'acqua del Tevere dipingersi di luce all'alba e dal Ponte Sisto dipingersi di lampioni di notte; se non puoi più osservare il tramonto sul Colosseo o dal Colosseo e vedere i fori imperiali colorarsi come in cielo ci fosse Picasso in persona; se sta lì, ma è invisibile, puoi ancora considerarla Roma?

È questo tutto quello che le voglio chiedere tra i gesti, le parole, gli abbracci e la voglia di mangiarmela a morsi che tengo ripiegata in tasca quando sto in giro e appallottolata nel comodino come fosse un sogno quando sto a casa. È questo quello a cui penso e ripenso mentre guido e canto ad alta voce che amici mai, per chi si cerca come noi, non è possibile, ma manco per un cazzo. Al semaforo quelli nelle macchine accanto mi imbruttiscono e mi sfottono con gli amici perché urlo troppo, come fossi pazzo, ma io sorrido e li saluto con la mano e li compiango perché i pazzi sono loro, perché se non hanno voglia di cantare e urlare allora un amore così non l'hanno provato mai.
La felicità di andare a prendere lei dopo il lavoro e la scuola, di correre tra le sue braccia dopo ore e ore di menate e rotture di coglioni, il rischio di prendere le multe perché i rossi ti stanno stretti e gli stop manco a parlarne – ti rubano tempo prezioso, qui scusi tanto ma i minuti li paghiamo oro signor vigile – la sensazione che come dice J-Ax qualunque cosa fai o hai fatto nella vita è per arrivare a lei a quelli che mi prendono in giro e scuotono la testa non gli è mai frizzata addosso, non gli è mai implosa nelle vene, non gli ha mai mandato in tilt i pochi neuroni buoni rimasti.

Ma a me sì. A me sì.

Ed è l'unica cosa che conta.

L'unica che mi fa sentire vivo.

Beatrice

Non l'ho sentito tutto il giorno e mi ha fatto rimanere ferma come l'ippopotamo – da non crederci, ci sono cascata anche io. Bloccata a metà proprio come lui, con un piede nella delusione cocente di chi ancora ci spera e l'altro nella perversa soddisfazione di sapere di avere ragione, di averlo previsto, che lo vedi che facevi bene a pensare di non potertici fidare? Che quello lì s'è scordato subito: ha fatto un cumulo di belle parole come fossero i panni sporchi quando cambi le lenzuola e le ha buttate via nella cesta nell'angolo, pronto a sostituirle con quelle pulite e nuove.

Ho ciondolato per casa come fossi fuori posto, un oggetto che si trovava lì per sbaglio e non sapeva dove collocarsi perché in ogni punto si sente inadeguato; ho perso tempo come se non avessi un esame da preparare, numeri da gestire, calcoli da affrontare ma anche amiche da incontrare, genitori da coccolare, fratelli da infastidire - cibo vero da mangiare soprattutto, prima di tornare alle scatolette di tonno di qualità direttamente proporzionale alla quantità di soldi durante il mese da fuorisede.

E invece niente. Cazzeggiavo, guardavo il telefono aspettavo sms e intanto me lo ripetevo.

Stupida, stupida, stupida.

Non impari mai, mai, mai.

Poi non era arrivato l'sms, ma la telefonata.

Dall'altro capo canzoni ad alto volume, una felicità così contagiosa da rimanerti appiccicata in faccia come la carta igienica sotto la scarpa nei bagni pubblici, un'allegria così vera, viva, vibrante ma soprattutto improvvisa, inaspettata, così tanto da essere capace di investirmi come uno tsunami e cancellare via cazzeggio e futuri inevitabili diciotto sul libretto.

"Preparati che tra dieci minuti son- CAZZO GUARDI, EH? VUOI L'AUTOGRAFO? A STRONZO! No Bì, dicevo, tra dieci minuti sono da te."
"Sì ma sei matto, ma che ti è preso? Per andare dove? Che mi metto, che facciamo?"
"Un vestitino, un jeans, vedi tu. Basta che non mi fai aspettare."
"Ti meriteresti attese di ere geologiche."
"Vero, ma tu non farlo. Magari ne vale la pena."
"Di che?"
"Niente." Il rumore di un sorriso accennato - quella piccola emissione di fiato seguita da un silenzio leggero. "Sono quasi lì."
"Avvisami quando arrivi."
"Non ce ne sarà bisogno."

Mica scherzava. Quando ha parcheggiato sotto casa aveva Squerez dei Lunapop inserito nel lettore e gridava con Cremonini, strepitava che c'è qualcosa di grande tra di noi, che non puoi scordare mai, nemmeno se lo vuoi; nonostante tutto il testo e il significato mezzo nascosto, ma manco troppo, a me è venuto su da ridere, perché era buffo, faceva i versi e imitava gli strumenti. E allora è scattato qualcosa, tipo un interruttore, una molla, non so. Per una volta dopo tanto tempo c'era solo leggerezza, c'erano i vent'anni che abbiamo davvero sulle spalle e non i cinquanta che mi sento addosso dopo le delusioni e la necessità di prendere decisioni radicali più grosse di me; per una volta c'era una matricola rientrata a Roma da poco per la prima volta dopo mesi che si cambia di fronte allo specchio e c'era un ragazzo che la corteggia che la aspetta giù e appena gli arriva di fronte le apre la portiera per farla accomodare – ultimo romantico - , poi si mette a guidare coi finestrini completamente abbassati anche se si ghiaccia e il vento lo scompiglia tutto, capelli e vestiti. Per una volta i brutti pensieri erano relegati nell'angolo.

Solo per una volta, solo per una si può.

E allora davvero, davvero, c'era una volta.

Come nelle favole.

Dopo tanto tanto tempo.

«A che pensi?»

Siamo fermi al rosso, lui è sudato, tutto in disordine.

A com'è bello respirare. All'eutanasia del cervello sempre troppo attivo.

«Mi sto chiedendo dove mi porterai.»

«E tu non chiedertelo. Vivi.»

Vivere. Viva.

Sotto di lui, con lui, per lui. Quante accezioni per una parola sola di quattro lettere.

Si può fare?

Check di tutti i sistemi: cuore ok, cervello a posto, pelle, polmoni, anima e tutto il resto dell'attrezzatura pure. Per una volta, per ora.

Sì, si può fare.

«Okay.»

«Okay» ripete Andrea e anche se è la stessa cosa che ho detto anche io, se esce dalla sua bocca è più bella è diversa. È come una promessa di felicità, insomma.

Forse.

Per una volta.

Forse, magari, crederci ne vale la pena.

E allora sì. Allora vivo.

*

«Ti avrei voluto portare in un posto bellissimo tipo quelli dei film americani: ruota panoramica, zucchero filato, tiro a segno a cui vincere orsi polari formato quasi naturale...»

«A gennaio?» chiedo scettica, mentre cerco di sollevare un sopracciglio solo e imitare la posa naturale di cui i libri sono pieni. Andrea mi rivolge uno sguardo interrogativo – uno sguardo che parla: "Ma che stai a fa'?" - mentre chiude lo sportello e quindi alla fine mi ritrovo a sperare di non aver assunto l'espressione di un procione stitico.

Lo sapevo che non dovevo provarci e che sarebbe bastato il tono.

«Che mo è illegale anda' al luna park a gennaio, scusa?»

«No, no, mica illegale. Però fa freddo!» Una nuvoletta di fiato caldo che fa a pugni con i trenta gradi sotto zero mi esce dalla bocca mentre mi lamento, la indico velocemente per rafforzare il concetto prima che scompaia. «Vedi?»

Andrea alza gli occhi al cielo mentre si muove attorno alla macchina per raggiungermi, poi mi prende sottobraccio e mi porta verso l'entrata del locale sulla Casilina – che, nemmeno a dirsi, non conosco. Tutti lui.

Ci mettiamo in fila per un po' e intanto parliamo di cose banali. Fino a ora farlo ci è risultato impossibile: un po' perché ero bloccata da tutto il risentimento, da tutto il rancore covato in questi mesi e ora messo in stand-by, un po' per l'imbarazzo generale e un po' per la consapevolezza che chiacchierare come se nulla fosse sarebbe parso un po' finto, vuoi perché quella dimestichezza, quella complicità sono sepolte sotto strati di polvere così intensi da chiedersi se è rimasto ancora qualcosa sotto vuoi perché avevamo la bocca piena di così tante cose non dette e pesanti e silenzi carichi di significato che per le frivolezze proprio non c'era posto. Eppure le frivolezze sono salutari, eppure anche se non l'avrei mai detto mi rendo conto che questo parlare del più e del meno è come se riallacciasse i fili, come se ci ricostituisse le esistenze perché ci muoviamo in campo quasi neutro. Bisogna evitare alcuni argomenti, certo, girarci attorno come mine pronte a esplodere perché anche se apparentemente poco interessanti potrebbero portarsi appresso implicazioni che è meglio lasciare seppellite per ora se voglio provarci davvero, ma è la prima volta in cui riusciamo a parlare per più di cinque minuti senza che io provi l'impulso irrefrenabile di saltargli al collo – se per strozzarlo o baciarlo non saprei e preferisco vivere nell'ignoranza.

Andrea mi racconta della scuola, dei ragazzi che ha conosciuto lì, di qualche professore antipatico e del suo primo sette in italiano; mi aggiorna sulla comitiva, su quella volta che Dario ha cercato di corrompere a forza di croccantini un randagio per portarlo con sé al parco così da rimorchiare facilmente e mi dice che è spuntato un nuovo bangladino a Monti e che il solito pizzettaro all'angolo ha fatto lievitare ancora di più i prezzi, «Roba che un trancio di margherita adesso costa ben quattro euro» esclama, concitato. «Gli si continua a essere fedeli solo perché è l'unico aperto anche alle cinque di mattina, insomma, sennò da mo' che ci saremmo serviti da un altro.»

Io a mia volta gli parlo di Milano, del freddo, del grigio, dei ritmi universitari – della Darsena no, quella è mia, quella una mina grossa quanto una casa – del caffè con la miscela forte dei bar, del Duomo, dell'arrivare a fine mese con pochissimi euro e aspettare il giorno del bonifico da papà come fosse la cometa di Halley e delle lavatrici malefiche che restringono vestiti e ingoiano calzini. Lui sghignazza, non mi spiega perché, dice che capirò.
Gli parlo delle serate che offre Milano, poi però ometto che non ci vado quasi mai perché mi ha svuotata, lascio intendere a lui quello che vuole. Se preferisce credere che trascorra tutte le serate come quella in cui l'ho chiamato è affar suo, non mi metto certo a dargli spiegazioni; tanto lui non mi chiederà mai come passo il tempo, con chi vado, che faccio, è un'altra mina. Eppure lo vedo che la domanda "hai conosciuto qualcuno?" se la ingoia a fatica, forse si trattiene perché pensa che se sono qui di certo non posso avere una storia fissa o forse se ne frega. Finché sono con lui gli basta così, del resto non gli importa, d'altronde lui vive l'attimo, è fatto così; dovrebbe saperlo che io non sono come lui, però, che io di certo non starei qui se avessi conosciuto qualcuno così da tradirlo e soprattutto tradire la sua fiduc-

Basta.

Per una volta.

Magari.

C'era una volta.

Prendo fiato, tanto, lo butto fuori e cerco di rilassarmi.

Gli racconto delle lunghe passeggiate che mi faccio la domenica e di quella volta che ho visto villa Invernizzi coi fenicotteri; lui mi prende in giro perché sa che ho il culo pesante, mi sorride bello da morire e mi lancia il gomito in alto come a dire "ma va, va, non me la bevo" e intanto siamo davanti ai buttafuori che ci fanno passare ed entrare nel cortile interno del locale.

Sembra di stare in un'altra dimensione: c'è un sacco di gente che incespica sulla brecciolina coi cocktail in mano e si affanna attorno a una macchina per lo zucchero filato, a un tizio che versa popcorn in contenitori di cartone colorati e a una ragazza addetta al trucco che disegna farfalle e linee colorate sul viso. Nel frattempo, un tizio altissimo passeggia sui trampoli come se niente fosse infastidendo la gente e rubando i cappellini di lana calcati sulla fronte. Un reticolo di lucine dorate e bianche si intreccia sulle nostre teste e illumina tutto, donando all'ambiente un'atmosfera magica, surreale. Fatata, forse? Si sta bene.

«Ti avrei voluto portare in un posto bellissimo tipo quelli dei film americani: ruota panoramica, zucchero filato, tiro a segno a cui vincere orsi polari formato quasi naturale» ripete, «ma trovandomi in seria difficoltà ho optato per questo.» Andrea guarda verso il cielo col naso per aria, ha le guance un po' arrossate per il freddo e se socchiudo gli occhi, se sogno a occhi mezzi aperti insomma, riesco a immaginare la neve che cade piano e gli si deposita sul naso e sui ricci, una situazione in cui attorno non c'è gente mezza ubriaca che barcolla ma persone felici coi pattini sulle piste di ghiaccio e una felicità così grossa che il cuore non la contiene tutta e inizia a venire fuori dalle cuciture con cui ho provato a rattoppare i buchi. E di nuovo scatta qualcosa e di colpo non ho nemmeno vent'anni, ma cinque: sono capace di meravigliarmi delle piccole cose ed essere felice per quelle semplici come un giorno in un posto che è a Roma ma è mille chilometri lontano da qui.

«Ma è bellissimo!» esclamo entusiasta, non potendo fare a meno di stringerlo forte.

«Tu lo sei» mi sussurra a voce così bassa da pensare di essermelo immaginato, portandomi una ciocca di capelli dietro all'orecchio; poi si allontana, perché siamo ancora troppo instabili per prendere decisioni affrettate e al tempo stesso giuste e sbagliate mentre siamo intrecciati in un abbraccio e il suo profumo mi riempie le braccia di pelle d'oca.

Andrea si schiarisce la voce, poi riprende a parlare. «Il tema della serata è il circo stasera. In realtà questo però è solo l'esterno, dentro ci sono due sale e soprattutto il bar. Mi concede questo ingresso?» scherza, porgendomi il braccio così che io possa agganciarmici di nuovo.

«Ingresso concesso.»

Nella prima sala è tutto buio, l'ammasso di corpi sudati che ballano letteralmente uno sull'altro è attraversato solo da dei fasci di luce gialla e rosa shocking provenienti dalla consolle del dj; la musica è techno, martellante e fastidiosa: basta un'occhiata per far capire ad Andrea che lì dentro non ci voglio stare un secondo di più. Quando passiamo all'altra sala la situazione cambia drasticamente: anche qui ci sono una miriade di persone appiccicate che saltano insieme, ma l'illuminazione è decisamente migliore e lo è soprattutto la musica: il dj seleziona una serie di pezzi capostipiti del rock 'n' roll e l'entusiasmo è a dir poco contagioso. Sorridendo e muovendo la testa su è giù gli faccio capire che sì, qui va bene, quindi molliamo i cappotti al guardaroba e ci avviciniamo al bar per prendere una birra approfittando del due a prezzo di una e mezzo.

«Come lo conosci?» gli urlo nell'orecchio, cercando di sovrastare la musica altissima e l'istinto di iniziare a saltellare a ritmo.

«Chi? Fabrizio?»

«Fabrizio?» forse non ho capito bene a causa del fracasso, ma che c'entra Fabrizio? Ma soprattutto, chi è Fabrizio?

«Sì, il cantante dei Bellatrix! Parli di lui?»

«Io... no?» Lo guardo ancora stralunata, ma di che parla? «Mi riferivo al posto, mi chiedevo se lo conoscessi perché ci eri già stato o se avessi suonato qui qualche volta, che so.»

«Ah, certo. In realtà ci vengo solo quando c'è qualche serata interessante, magari si esibisce qualcuno che mi interessa sentire. Solo una volta mi è capitato di suonarci e per l'appunto con Fabrizio, a sedici anni. Ci eravamo già beccati a qualche serata, qualcuno gli avrà dato il mio numero e una sera mi ha chiamato a buffo chiedendomi se avessi voglia di suonare qualche pezzo perché il suo chitarrista aveva preso la broncopolmotosse.»

«La che?» ridacchio.

«Quella» glissa, sventolando la mano come a farmi soprassedere sul dettaglio di scarsa importanza. «E così siamo diventati amici!»

«E come hai pensato che ti stessi chiedendo come conoscessi qualcuno che io non sapevo nemmeno esistesse?»

«Pensavo avessi letto il nome della band sulla locandina della serata.» Mi indica l'oggetto in questione e verso il basso, sotto la foto di una tizia in costume di scena dalle forme procaci piazzata davanti a un tendone da circo, leggo effettivamente il nome della band. «Prima facevano cover di canzoni, adesso hanno i loro pezzi, ma non disdegnano qualche bella reinterpretazione come ai vecchi tempi.»

«Oh, okay. Bellatrix? Come Harry Potter? Già sembra figo questo Fabrizio.»

«No, Bellatrix come Beatrice.»

Rido per la battuta perfetta, come al solito sa trovare sempre il modo di infilarci i suoi interessi, poi all'improvviso il sorriso mi scema perché lui mi guarda serio. Ma proprio serio serio. Serio come se avesse appena detto la vera verità.

«Ma che davero

«Giuro!»

«Croce sul cuore?»

«Croce sul cuore, ma senza morire, eh!»

«Pensa tu» asserisco assorta e anche un po' lusingata: mi piace il fatto che sembri fatta apposta per me.

«E chi è Beatrice?»

«Una ragazza» se n'esce, stringendosi nelle spalle.

Simpatico.

«Nello specifico il primo amore di Fabrizio, la sua musa. Non dico che ha messo su la band per lei, ci mancherebbe, però insomma è stata l'ispirazione per molte delle sue canzoni e alla fine ha deciso di chiamarla come lei. L'ha fatto anche nella speranza che lei si accorgesse di lui, che lo vedesse per davvero, che andasse oltre l'immagine di compagno di classe che si sentiva addosso come fosse uno stigma. L'ha amata in segreto per anni.»

«Perché in segreto?»

«Perché non se ne sentiva all'altezza. Evidentemente fate quest'effetto a chi vi frequenta.»

Gli lancio un'occhiataccia che sembra non cogliere e continua a raccontare.

«Alla fine ce l'ha fatta, ci è riuscito a far sì che Beatrice si accorgesse di lui, d'altronde con un nome così! Beatrix lascia spazio a poche congetture.»

«Beatrix? Ma...» mi volto per guardare la locandina e cercare la conferma che mi serve e il nome è effettivamente scritto come immaginavo. "Bellatrix".

Andrea deve avermi letto nel pensiero, perché si affretta a darmi spiegazioni. «Ti ho detto che è il suo primo amore, ma è anche la prima che gli ha spezzato il cuore. La rabbia fa fare cose stupide, sai? Come cambiare i nomi alle band da "Beatrix" a "Bellatrix" o decidere di lasciar perdere qualcosa che anche tu sei certa di volere con tutta te stessa e sarebbe sufficiente accogliere l'idea per far sì che accada.»

«Tu chi?»

«No, tu nessuno. Per dire. Un tu generico, ci mancherebbe.»

È il mio turno di far finta di nulla quando all'improvviso mi blocco e lo punto con lo sguardo più accusatorio che mi viene su, folgorata dall'illuminazione. «Ma mi ci hai portato apposta?»

«Forse» ridacchia, dando un sorso alla birra.

«Tu, bastardo sfruttatore traditore della patria impiccatore di buone impressioni, altro che ruota panoramica e bancarelle!» Poso il boccale sul bancone per prenderlo meglio a schiaffi sulle braccia, lui ride si scansa come può, finché stanco dei miei colpi non mi blocca i polsi e nella concitazione mi tira a sé. Sento ogni suo maledetto dito impresso nella carne, le sue impronte sfrigolano e mi marchiano; vedo i suoi occhi farsi improvvisamente scuri e liquidi, puntare verso il basso e fissarmi le labbra. Il tempo si cristallizza, in netto contrasto con me che invece sudo, spaccata a metà, come sempre. Perché lo voglio, lo voglio dalla prima volta che l'ho visto a San Lorenzo, lo voglio dalla prima volta che mi ha parlato e ancora di più lo voglio dalla prima volta che l'ho rivisto appena uscita da casa qualche giorno fa.

Voglio ancora disperatamente unirmi a lui per riprovare a incastrare i miei pezzi con i suoi, per provare a vedere se va ancora bene o i fini equilibri che compongono i puzzle si sono disallineati. È il mio corpo stesso a urlarmelo, è un bisogno viscerale, come se ci fosse un qualcosa di mio che gli è rimasto appiccicato addosso un giorno dopo l'altro e adesso cerca di riunirsi al resto, attirandomi verso di lui.

Il vocalist o che so io della serata interrompe il momento, la sua voce mentre presenta – appunto – i Bellatrix in procinto di suonare rompe l'attimo come fosse cristallo e sento le schegge taglienti spargersi ovunque e fare più male di quello che avrei potuto immaginare, riportandomi alla realtà. Il tempo riprende a scorrere normalmente, le voci delle persone attorno a noi tornano vivide, Andrea mi lascia andare a rallentatore e io senza dire una parola riprendo in mano la birra e prendo una lunga sorsata che spero possa rinfrescarmi e schiarirmi le idee.

Non diciamo una parola per tutto il tempo in cui la band suona i suoi pezzi, ognuno caratterizzato da una certa nota di malinconia, come una nota stonata che riesco a cogliere solo io, ma sono convinta ci sia. Rumore di fondo che alle mie orecchie grida come fosse una componente fondamentale.

All'improvviso Fabrizio annuncia una cover, mi sembra che faccia un cenno verso di noi ma forse l'ho solo immaginato, perché da quando io e Andrea siamo venuti a contatto poco fa non ci capisco più niente. Pensavo che le frivolezze riuscissero a risanare, ne ero certa, e forse in parte è davvero così ma ora mi è chiaro che è inutile che proviamo a parlare di altro, che proviamo a non pensarci e a ignorarlo: io e lui non siamo fatti per stare nella stessa stanza, meno che mai nello stesso punto, senza cercarci come fossimo l'uno una parte dell'altro. Non siamo fatti per fare gli amici, né per fare i frigidi che si stanno conoscendo ed esplorando: siamo fatti per saltarci addosso, sputarci su parole forti, prenderci alla gola e poi baciarci a sangue fino a rubarci il fiato. E se non lo facciamo ci pensiamo, ci pensiamo in continuazione, e la tensione che si crea aumenta sempre di più e si solidifica come fosse acciaio e pesa, pesa, pesa.

Nonostante tutto.

O questo o niente, non so chi voglio prendere in giro.

Le vie di mezzo, i per una volta, i c'era una volta non fanno per noi. Forse per gli altri, ma non per noi. Non ci stanno bene addosso, mi spiace, ci ho provato, ma no, grazie. Faccio il reso consapevole che la formula soddisfatti o rimborsati non c'è, qui nessuno ti dà indietro nulla.

O dimentico, ingoio e mi riempio di lui o divento pienamente consapevole di quello che mi ha fatto e mi rifaccio una vita il più lontano possibile.

È bene che capisca in fretta che fare.

Poi succede che Fabrizio inizia a cantare e se non ho sentito nulla del titolo che ha annunciato, troppo presa dalla compravendita dei sentimenti, riconosco alla perfezione note e parole. E tremo. Ché sembra fatta su misura e non capisco se è colpa di Andrea che piega sempre il destino a suo piacimento o del destino stesso che mi spinge verso la direzione che il cuore cerca.

I know you've suffered, but I don't want you to hide
It's cold and loveless, I won't let you be denied

Soothing
I'll make you feel pure
Trust me
You can be sure

I want to reconcile the violence in your heart

Andrea avvicina il suo volto al mio da dietro, mi si poggia addosso, mi sfiora la guancia con la punta del naso naso.

I want to recognize your beauty is not just a mask

Si porta verso l'orecchio, che tocca appena, poi continua la sua discesa sul mio collo, nella sua parte più laterale, e lo accarezza con dei movimenti a fior di pelle. Inarco la testa e chiudo gli occhi, immersa in un istintivo e straziante piacere contro cui non posso difendermi.

I want to exorcise the demons from your past

Si porta dietro e continua ad accarezzarmi la nuca, libera e disponibile a causa dei capelli legati.

I want to satisfy the undisclosed desires in your heart

Stiamo facendo l'amore in un locale pieno di gente toccandoci a malapena.

Sto impazzendo.

You trick your lovers that you're wicked and divine
You may be a sinner, but your innocence is mine

Andrea posa le labbra mia spina dorsale, bacia una vertebra che sporge un po', lo sento, lo lascio fare. È il suo posto, ci sta bene, lo so io, lo sa lui. La sua innocenza è mia, è un diritto che posso arrogarmi. Sempre.

Ma è sufficiente?

Please me
Show me how it's done
Tease me
You are the one

Che è l'unico lo sa, sono convinta che adesso lo percepisce in barba a quella domanda che non mi ha posto poco fa, e anche in questo lo lascio fare. Davanti a lui sono nuda, sempre, non ci ho mai potuto fare nulla. Posso solo cercare di limitare l'autodistruzione ogni volta che posso.

Chissà se è successo anche a Fabrizio. Se è sempre stato nudo di fronte a Beatrice e se è stata lei che non ha mai saputo vederlo, se poi non gli è piaciuto quello che ha visto o non ha saputo prendersene cura. Se l'ha maltrattato, se l'ha tradito. Chissà se esiste qualcosa del genere di cui vale la pena cantare. Chissà se esiste il lieto fine.

E allora mi faccio forza e glielo chiedo, con la voce che un po' si inceppa.

«Ma poi com'è finita tra Fabrizio e Beatrice?»

«Me lo devi dire tu» mi risponde e intanto con le labbra è sempre lì.

«Io?»

«Sì, tu. Com'è finita, secondo te? Come vuoi che sia finita? Cosa vuoi, Beatrice?»

Non lo so, Andrea.

Non lo so.

Ne parliamo domani.

Per domani spero di saperlo.

Ma quindi Giulia è ancora viva?

Sì.

Ma quindi Giulia è in ritardo con le sue promesse?

Sì, ma solo di tre giorni. Scusabile, no?
No?
RAGAZZI?

*balle di fieno random che non posso inserire perché sto scrivendo le note autrice dal cellulare*

Bentornata a me! 🎉
Ci avviciniamo agli ultimi due [o forse uno... farò un sondaggio su Instagram probabilmente (mi trovate come nowheregiuls ! Correte!)] capitoli previsti per questa prima parte per poi trasferirci sulla seconda. Non ho niente da dire se non di godervi la lettura di questa Bea parecchio confusa, ma prima di lasciarvi due appunti veloci veloci:

1. La canzone citata è Undisclosed Desires dei Muse. Chi non la conosce andasse a recuperare ADESSO u.u

2. Continuo a trafugare personaggi in giro per le opere altrui, stavolta è toccato a Fabrizio de La sindrome di Didone della sadica LabyrinthumEfp che con la scusa ringraziamo per avermi dato quel quid che mancava a quello che avevo immaginato per il terzo giorno, così da iniziare a scrivere. Grazie, Fabrizio. Ti si vuole bene, ma non come ad Adriano e Leo, niente di personale.

Grazie grazie grazie a chi aspetta i miei capitoli anche se latito peggio di Pablo Escobar e anche a chi aspetta le risposte ai miei commenti che GIURO ARRIVERANNO (è che ne ho tantissimi da recuperare da quando Wattpad aveva deciso di farmi muro).

Spero di non metterci altrettanto per il prossimo,

Baci come se piovesse ♥️
Giulia

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