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40. ...incubi tutto l'anno 2/2

Gennaio 2011

Nemmeno me le asciugo, le lacrime che mi appannano la vista mentre guido e mi fanno sbandare un po', lascio che sia il vento a portarsele via insieme a qualche briciola di questo dolore.

- Si fa presto a cantare che il tempo sistema le cose.

Faccio il giro lungo per arrivare nei pressi di Villa Torlonia, così magari cerco di schiarirmi le idee, così magari prego Dio di darmi tutta la forza che non sento di avere e la capacità di capire che cosa voglio davvero.

Se è più forte la repulsione o la voglia.
Lo schifo o il bello.
La testa o il cuore.

- Si fa un po' meno presto a convincersi che sia così.

Parcheggio di fronte al bar, con la confusione che da un piccolo seme che era, adesso è diventata grande, ha messo radici e come un rampicante, una pianta infestante che si infila dove può e dove trova, mi occupa ogni spazio vitale.

- Io non se è proprio amore,
faccio ancora confusione,
so che sei la più brava a non andarsene via.

Andrea se ne sta lì, appoggiato con le spalle al muro, con quel suo giubbotto di pelle che non so come fa a indossare ancora, ché è gennaio e ci sono zero gradi. Contro ogni regola, ragione, percorso logico, in tutto.
Mi fissa e io finalmente riesco a vederlo bene, come se lo stessi rivedendo dopo tanto tempo adesso per la prima volta, perché prima a casa è stato tutto sbagliato, è stato un agguato. Fuma e sbuffa il fiato nella mia direzione, mentre me lo mangio con gli occhi e a rallentatore sfilo il casco, chiudo il gancio e sistemo le mie cose.

I capelli arruffati, il naso schiacciato, i soliti occhi magnetici.
In bocca il sapore di una scena già vista,
già scritta.

Quanto male fa.

- Forse ti ricordi, ero roba tua.

Mi avvicino lentamente a lui, che intanto butta la cicca per terra e la schiaccia con la punta del piede, mentre si sporge per aprirmi la porta del locale.

«Scusa per prima, non ho resisito» mi sussurra nell'orecchio, fiato caldo su pelle d'oca, mentre tiene la porta e io gli passo accanto ed entro in uno dei miei posti preferiti al mondo, tutto legno, luci soffuse, tavoli colorati e sedie coi cuscini blu.

Ci sediamo a uno dei tavolini liberi, Andrea si mette a studiare il menù e io mi metto a studiare lui. Sembra molto più controllato adesso, anzi, sembra proprio uno diverso rispetto a prima.
Con diffidenza, penso che sembra uno che è tornato dalla battaglia e ha rivisto a tavolino i suoi piani per vincere la guerra. O forse non è vero niente, forse semplicemente sono io che ormai non fido nemmeno della sua ombra.

Però il cuore, quello no. Quello non ci pensa ai piani di guerra, alle mappe, alle armi, alle strategie; quello - bastardo traditore infame - pensa solo che mi è mancato, che è così bello quando è concentrato e strizza appena gli occhi e irrigidisce la mascella, con quelle mani che accarezzano il menù, poi, e quelle labbr-

«Bea?» sollevo lo sguardo di botto, arrossendo, colta in fallo mentre lui mi studia col sopracciglio destro appena alzato e un sorriso sghembo che urla "Beccata".

Ora glielo faccio ingoiare, 'sto meraviglioso sorriso strappamutande.

Cerco di riprendere un contegno e non pensare al fatto che anche io sembro una persona completamente diversa rispetto a prima: mi sono sgonfiata pigramente come un palloncino forato e sono in preda alla confusione più totale, oltre che alla stanchezza. Non una stanchezza fisica, ma una emotiva, una che mi scanala le ossa e me le rende vuote e leggere, facilmente vincibili dalla forza di gravità.

«Che prendi, Bì?»

«Un caffè macchiato.»

Andrea sorride e si gratta la testa, prima di sopirare appena. «Prima lo prendevi ristretto.»

«Quei tempi sono cambiati» rispondo, sorridendo forzatamente. «E anche noi.»

Mentre il cameriere si allontana e il sole, già nascosto per metà dietro le nuvole, si ritira ufficialmente a vita privata regalando a quello che mi circonda - già pesante di per sé - un'aura buia e scura, mi muovo a disagio sulla sedia, rigida, e non riesco a fare a meno di pensare che ritornare ad avere a che fare con lui è come fare fisioterapia dopo un incidente. Tutto quello che prima facevo con banalità, che mi sembrava scontato, naturale, ora mi sembra nuovo e forzato; faccio fatica a ingranare, devo imparare da zero a muovermi, parlare, ridere.

Fidarmi di lui.

«Sai» inizia a dire, guardando da tutt'altra parte «se tu non ti fossi fatta sentire, a Capodanno, l'avrei fatto io. Ti avevo dato dieci giorni di tempo, non uno di più, non uno di meno, poi ci avrei pensato io. Non ti avrei lasciata scappare di nuovo.»

«Per quello che ne potevi sapere, io sarei già potuta essere di nuovo a Milano. Mi avresti lasciata scappare eccome, Andrea: sono stata io ad avere il coraggio e la sventatezza di farmi sentire, seppure per uno scopo ben preciso.»

«Non importa, sarei venuto a prenderti anche in capo al mondo. Te l'ho detto: non l'avrei permesso.»

«E perché non prima? Perché non a luglio, quando avevo bisogno delle tue parole, quando avevo davvero bisogno che tu non permettessi che mi allontanassi da te, ma soprattutto che non mi allontanassi da me stessa? Perché hai permesso che passasse tutto questo tempo?»

«Perché non ti meritavo e...» tentenna, mentre riprende in mano il menù e inizia a giocarci. «E perché avevo bisogno di riflettere e metabolizzare.»

«Tu? Tu avevi bisogno di riflettere e metabolizzare?» dico, alzando il tono, senza riuscire a controllarmi; lo modulo immediatamente quando vedo una signora al tavolo affianco lanciarci un'occhiata incuriosita. «Io avevo bisogno di interiorizzare e non saltare a conclusioni affrettate, farmi idee sbagliate, o almeno non più di quelle che il tuo triste spettacolino mi aveva offerto davanti agli occhi. Mi hai lasciata andare alla deriva, sommersa dalla marea dello schifo che mi è piombato tra capo e collo e... Dio, ma quante cazzate mi hai detto?»

«Poche e superflue. Non ti ho mai mentito su di noi o su quello che provavo o s-»

Lo interrompo scuotendo velocemente la testa, non voglio sentire una parola, non una di più, sto soffrendo troppo. È come se qualcosa, dentro, qualcosa di pericolosamente simile a una bestiola, si stesse affilando gli artigli sul mio cuore e su qualunque altra cosa a sua disposizione, continuando a scavare e graffiare e ferire, ciclicamente, a ripetizione, e non si ferma più.

Il cameriere ci lascia i caffè di fronte, Andrea lo ringrazia con un cenno del capo ed entrambi ci fiondiamo sul contenitore con le bustine di zucchero, facendo scontrare le dita.

Stringimi ancora.
Allontanati da me.

Svuoto un'intera bustina nel caffè mentre lui se ne mette mezza e con un gesto spontaneo si avvicina per versare nella mia tazzina la restante metà. Si rende conto quando ormai è troppo tardi della familiarità di quel gesto - lo vedo bloccarsi a mezz'asta indeciso su come proseguire, mentre io non ho nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia - , ma alla fine decide di fare come se niente fosse.

Giro lentamente il cucchiaino nella tazzina. Il fragore di un tuono perfora il silenzio ovattato e carico di cose non dette che ci avvolge e ci riempie le orecchie, spingendo sui timpani.

«Non ho smesso di amarti nemmeno per un minuto della mia vita, mai.»

Piego la bocca in quello che potrebbe ricordare il cugino lontano di un sorriso. «Persino mentre stavi dentro quell'altra?»

Si strozza con la sua stessa saliva e mi guarda con gli occhi spalancati: forse non si aspettava una risposta così aperta e diretta, ma io sono troppo stanca, stanca delle mezze parole, delle mezze verità, dei filtri applicati con tanta premura su ogni cosa che ci esce dalla bocca. Cos'è, 'sta recita? Sembriamo due che dosano le parole come fossero sale e pepe della conversazione, due che si stanno conoscendo e studiando, praticamente. Come se fossero altre persone, quelle che fino a sei mesi fa si scambiavano fluidi corporei e promesse ingombranti.

«Perché, Andrea? Me lo devi dare un perché, a costo di starci fino alle due di notte, in questo bar.»

«Perché sono un coglione.»

«Troppo semplice.»

«Perché non avevo capito niente.»

«Non basta.»

Andrea sbatte il cucchiaino sul piattino coordinato alla tazzina, facendo un rumore intenso, orrendo, che fa voltare di nuovo la signora - ormai abbiamo tutta la sua attenzione - rompe il silenzio ovattato e rompe pure gli argini, perché come al solito lui o si sta fermo o fa un casino. «Non lo so, perché. Perché non ci pensavo, mi girava così: per tutta la vita ho sempre fatto quello che mi è andato di fare e in questo caso non vedevo differenza. Perché non sapevo cosa fosse l'amore, o quantomeno cosa fosse il mio: il tuo lo sapevo che era un posto sicuro e sapevo che qualunque cosa avrei fatto alla fine sarebbe andato tutto bene e persino alle brutte tu saresti rimasta con me.»

«Ecco perché.» Lo guardo fisso, vorrei piangere ma non riesco, sono come bloccata. «Scontata, prevedibile, sempre ferma lì, praticamente un soprammobile, un ninnolo da comodino. E hai ancora il coraggio di dire che mi amavi?»

«Ogni giorno più del primo. Non ci ho mai messo una briciola di sentimento, ogni volta che uscivo di casa, ogni volta che non ero con te.»

«Quasi quasi ci credo, sai? D'altronde non è che serva un grande arsenale di sentimenti per svuotarsi le palle.»

«Sei volgare, Bì.»

«E tu sei ridicolo.»

Si sporge dal tavolino, mi afferra il polso, mi stringe forte e io vorrei dirglielo che non ce n'è bisogno, ché tanto mi si è impresso addosso e dentro secoli fa. Non ha bisongo di cercare la mia attenzione, sono calamitata da tutto quello che gli esce dalla bocca. Anche dalle brutture.

Continua a toccarmi.
Toglimi quelle manacce di dosso.

«E io ti amo ancora.»

Stavolta è il mio turno di strozzarmi quasi, mentre mi viene da ridere. «Tu devi ancora capirlo, cosa cazzo è l'amore.»

«Senza dubbio, già te l'ho detto; però qualcosa la so e quanto è vero Dio so quanto ho sbagliato, quanto sei preziosa e quanto in un modo o nell'altro l'amore sei tu. Non ci vivo, senza di te. Ho fatto un milione di errori e altri mille potrei farne, mio malgrado, ma lasciarti andare sarebbe solo l'ennesimo da aggiungere alla lunga lista; lasciarti andare e butttare al cesso quello che abbiamo costruito insieme.»

«Tu hai butt-»

«Basta» la sua presa si fa ancora più salda, i suoi occhi bruciano, piombo fuso, sono l'inferno. «Non possiamo continuare a premere su questo punto. Ho fatto quello che ho fatto, un errore terribile, uno di quelli che non si limita a pesarti sulle spalle, te le martorizza, brucia e rovina e le lascia piene di cicatrici come se ti avessero versato una colata di calce viva addosso. Ma qui le spalle in gioco non sono solo le tue, sono anche le mie, perché semplicemente non è valsa la pena perderti per un paio di gambe qualunque; la differenza sta nel fatto che tu non te lo sei cercato e io invece me lo sono scelto, mi merito tutto, lo so bene. So bene che sono un coglione, so che non ti merito, nemmeno per un cazzo, e so che le cicatrici che ti ho fatto saranno lì per sempre. Ma continuare a parlarne, ora, che senso ha? Voglio solo andare avanti, provare a farti capire che tutto quello che dico è vero. Io ti amo, tu mi ami, che ci serve di più?»

Ha gli occhi lucidi, una lacrima si raccoglie pigramente nell'angolo interno dell'occhio, poi rotola giù fino al naso, scavando un solco traslucido fino alle labbra, dove si deposita prima di essere inghiottita.

Non soffrire, ci muoio a vederti così.
Devi piangerti pure il sangue.

«E chi te l'ha detto, che ti amo?» riesco solo a dire, cercando di non far trasparire nulla di quello che penso, neanche una briciola. Resto perfettamente immobile, ché mi viene più semplice.
In realtà vorrei dirgli anche che evidentemente serve molto di più - dell'amore, intendo - perché se lui mi amava come dice non è comunque stato sufficiente. Ma va bene, proviamo a schiodarci da questo punto.

Andrea fa un sospiro, slaccia gli occhi dai miei e si lascia cadere stancamente sulla sedia. Si passa la mano tra i ricci, arruffandoli sempre di più, poi rimane fermo e in silenzio. Ha due occhiaie che farebbero invidia a Dracula in persona e so che sono le stesse mie, gemelle, complementari, fatte di sonni rotti da rimpianti e dolori che non conoscono riposo, solo che io le copro con il correttore, lui è costretto a portarsi addosso le conseguenze delle sue azioni.

«Tu» sussurra, impercettibilmente. «Me l'hai detto tu, me l'hai detto al telefono tra gli insulti velenosi e le minacce di morte. Me l'hai detto tu che di giorno pensi a vivere e ti impegni a impegnarti e la notte invece poi molli le barriere e ti sembra sempre che il posto accanto a te sia vuoto e freddo. Che mi ami anche se non dovresti. Che hai bisogno di me anche se non vorresti.»

Gliel'ho detto io.
Io.
Io che oggi ho fatto tanto per vestirmi bene e a strati pur di nascondergli la mia persona consumata e poi in mezz'ora gli ho spiattellato mesi di tormento interiore.

E nemmeno mi stupisco troppo, alla fine ho avuto giorni per scendere a patto con le mie possibili parole, che altro non potevano essere che lo specchio dei miei pensieri; solo che adesso non voglio sapere più nulla, sono semplicemente stanca, sfibrata da questa conversazione, da questa storia, dalla costrizione di dover portare un peso che lui ha deciso di scaricarmi addosso, ma non me lo sono cercato io.

Ché tu mi hai cambiato la vita, Andrea.
Ma nessuno te l'ha chiesto.

«Quante volte?»

«Che?» Alza lo sguardo e lo poggia stranito su di me, sembra essersi risvegliato da un sogno.

«Quante volte mi hai mentito, quante volte l'hai toccata, quante volte hai lasciato che si prendesse un pezzo di te?»

«Quattro» risponde in un soffio, senza nemmeno cercare di protestare: forse ha capito che se non mi sputa tutta la verità, da qui non ci schiodiamo manco per sbaglio. E non parlo di questo caffè, che ormai, tra l'altro, si è fatto freddo. «Quattro volte.»

Quattro.

«E ti è piaciuto?»

Andrea

Un lampo illumina il cielo pomeridiano e si crea una specie di riverbero, un guizzo, come un gioco di luce, sulla pelle chiara della mano di Beatrice.

Se mi è piaciuto?

Ero lì con quella e vedevo solo pelle, labbra, passione e un corpo di pezza, come fosse una bambola, poi mentre tornavo in me pensavo solo che dovevo sentire Beatrice, vederla, stringerla, dirle che l'amavo. No, che non mi è piaciuto, ma manco m'ha fatto schifo, insomma. Semplicemente non pensavo, semplicemente m'accendevo, partivo in quarta, poi mi spegnevo.
Come si fa, a spiegare, una cosa così?

«No.» La fermo con un gesto della mano, quando vedo che sta per protestare. «No, ferma, non sono ipocrita, non voglio dire che mi pesava, sennò non l'avrei fatto. È che... mi veniva naturale. È come quando ti brontola lo stomaco e mangi una cosa qualunque, a caso, insapore solo per placare i morsi della fame. Una cosa fine a se stessa e utile solo lì per lì.»

La vedo indurire i lineamenti, quando parlo di fame, necessità e cose così, ma è così e io devo farglielo capire, tutto quanto, se la rivoglio con me.

Ce l'ho un pochino di coraggio, Bea, ce l'ho quel poco di coraggio necessario a provare a spiegarti tutto, ci ho pensato tanto in 'sti giorni che provavo a mangiarmi le mani e a farti decidere.

Ce l'avevo quando mi facevo le poste sotto casa tua, fermo a farmi consumare dal fumo e dall'ansia, ché mi ero imparato a memoria gli orari del Freccia Rossa e venivo da te a intervalli di ore e un giorno finalmente ti ho vista, che rientravi a casa con la valigia e la faccia da funerale e la mascella serrata e mi sono dovuto incollare i piedi all'asfalto per non correrti incontro.
Ce l'avevo quando ti vedevo girare dentro Monti come un'anima in pena, con i piedi che ti portavano ovunque tranne che verso casa mia.
Ce l'avevo a Capodanno quando sei uscita col vestito rosso e tacchi alti metri e io me ne sono tornato a casa a pensare che ti potevano corteggiare in qualche posto di Roma e potevano farlo senza che nessuno dicesse niente perché ero io, che gliel'avevo permesso.
Ce l'avevo e ce l'ho adesso, perché ti guardo ed è vero che io non ci capisco niente, ma so che rivedo una parte di me quando poggio gli occhi su di te, lo so perché le cose che vorrei dire e fare sono mille e ben diverse, ma tutte sbagliate, ché non ti posso saltare addosso come se niente fosse in un bar pieno di gente.

Non posso farti capire con la pelle quello che provo - non ancora, almeno - e di musica non voglio sentirne nemmeno parlare adesso.
Solo parole.
Solo per te.

Speriamo che mi vengano su bene.

«Ce ne sono state altre?»

«Mai.»

«E se non ti avessi scoperto?»

«E se non mi avessi scoperto sarei andato avanti a pensare che era naturale così, penso.»

«Ne è valsa la pena?»

Non mi guardare con quegli occhi brutti, scusami, ti prego, quanto male ti ho fatto?

«Nemmeno per un singolo istante, già te l'ho detto, non è valso la pena niente. L'averti conosciuta è valsa la pena, l'averti riavuta con me adesso è valsa la pena e io ci proverò con ogni mio respiro a fartelo capire.»

Beatrice rimane in silenzio per un tempo infinito. 'Sto tavolo che ci divide occupa troppo spazio, siamo divisi da tantissima aria e noi lontani non ci possiamo stare, non possiamo, io ce la metto tutta ma ora impazzisco. Sembra che siamo due che stanno facendo una conversazione di lavoro, tipo contrattano il prezzo di una casa, come se fossero altre persone, quelle che fino a sei mesi fa contrattavano il prezzo di una vita insieme.

Ed è tutta colpa mia, ma ora parla, parla cazzo, dimmi qualcosa che io ci sto mettendo tutta la pazienza e la calma del mondo per non spaccare tutto. A te invece quanto costa, questa prigione di rigidezza in cui ti sei rinchiusa?

Semplicemente, a un certo punto, punta i palmi sul bordo del tavolo e spinge forte, allontanandosi con la sedia e producendo un rumore terribile, uno stridio forzato; poi si fa forza sulle ginocchia e si alza, sovrastandomi e puntando quegli occhi di bosco nei miei, facendomi l'anima a brandelli, lasciandomi senza fiato per la potenza della sue bellezza, della forza del suo sguardo, della linea dolce degli zigomi e di quella marcata delle labbra.

«È solo tutto troppo. E io sono tanto stanca.»

Si piega appena per raccogliere la borsa da terra, così che le ciocche dei capelli le piovono in faccia nascondendo ai miei occhi qualunque cosa le attraversi il volto, poi si rialza ed esce.

Di punto in bianco.

Lasciandomi così, inebetito per un paio di minuti.

Come quella sera.

Ma stavolta col cazzo che finisce così.

Senza pensarci due volte, scatto in piedi, butto alla cassiera una banconota da dieci che trovo in tasca appallottolata e mi fiondo fuori, facendomi inzuppare dal diluvio scrosciante che si è scatenato nel frattempo. Come se il cielo lo sapesse, quello che è successo, e avesse deciso per rispetto di fare come noi: incazzarsi, scatenarsi, straripare... esagerare. Esagerare come è esagerato tutto quello che siamo e tutto quello che abbiamo, tutto quello che la gente non potrà mai anche solo arrivare a capire.

Non ci vedo niente, con tutta questa cascata d'acqua dentro gli occhi; come se non bastasse il traffico sembra impazzito e almeno due automobilisti mi hanno riversato un fiume di pioggia e terra addosso, ma ricordo dove Bea ha parcheggiato e vado verso quel punto, trovandola lì a litigare con il casco e con i pezzi di lei che sta cercando di tenere insieme.

Te li tengo tutti insieme io.

In un attimo me la stringo forte addosso e non me ne fotte un cazzo che si gela e che domani magari avremo la febbre a quaranta, penso solo al fatto che adesso ha bisogno di me e io ho bisogno di lei, che noi stiamo bene solo se ci scambiamo abbracci rotti con i vestiti inzuppati, che respiriamo solo con la pelle a contatto, uno attraverso l'altro. Lei non mi riesce a stringere, serra solo il colletto del mio giubbotto tra i pugni, lo serra così forte che mi sega la nuca ma può farlo, può fare tutto, basta che non mi lascia.

Mi incolla il viso al collo e tira forte e me la sento addosso, mentre mi dice che non dovevo, che faccio schifo, che ci aveva creduto, che l'ho rotta, l'ho rovinata per sempre, l'ho macchiata di qualcosa che ci ha provato in tutti i modi ,ma proprio non se ne va via. E allora me la stacco di dosso, le prendo il viso tra le mani - e ci sta giusto giusto, sembra fatto apposta - e la guardo annegare così, in questa sofferenza nera, e voglio solo farla smettere, ché la vedo che è stanca e non ce la fa più. Le accarezzo la guancia col naso, la annuso e sa di pioggia, dolore e rimpianto; la guardo per un istante, uno solo, ma lei ha gli occhi chiusi ed è inerme e abbandonata, è sfiancata e non ce la fa e nemmeno io ci resisto più e allora la bacio.

- E ci siamo mischiati la pelle, le anime e le ossa.

Non riesco a fare a meno di piangere anche io che adesso mi sento a casa tra le sue labbra.
Non ce la faccio proprio più, me la premo addosso, lei ricambia e a me forse scoppia il cuore di gioia e finalmente respiro e finalmente è lei tra questa acqua tra questo dolore è lei lei lei di nuovo come se potessimo riprovarci come se si potesse costruire ancora qualcosa insieme come se lo capisse anche lei che possiamo vivere solo così lottando con le lingue premendo forte sui denti mordendo incastrandoci dandoci 'sti baci voraci che fanno male e bene allo stesso momento che adesso ti consumo da quanto ti voglio che se potessi te lo farei capire quello che mi fai ma alla fine spero che lo sai a prescindere perché è la stessa cosa che ti faccio io.

E questa è la differenza tra il mangiare per placare lo stomaco che borbotta e mangiare per placare ogni organo che si acquatta su se stesso come fosse in astinenza.

- Ed appena finito ognuno ha ripreso le sue.

Non vorrei staccarmi mai da lei, ma me la sento tremare addosso, allora semplicemente la trascino verso la macchina, la faccio entrare e poi entro dal mio lato, sparo il riscaldamento a palla e me la riprendo sul petto: mi sa che adesso si è abbassata drasticamente la soglia di sopportazione del vuoto senza di lei.

Rimaniamo così, stretti, in silenzio, ma in fondo mica c'è bisogno di parlare per scambiarsi tutte le parole del mondo. Questo momento è così perfetto e lei è così bella che non riesco a pensare ad altro.

- Tu che dentro sei perfetta,
mentre io mi vado stretto.

«Portami a casa» biascica con la bocca impastata, un'imprecisata quantità di tempo dopo.

Giro la chiave nel quadro e metto in moto, guidando così, con lei ancora addosso. Che mi facessero pure la multa, nient'altro conta.
Solo lei.

In radio passa Ligabue - L'odore del sesso - e io non faccio che pensare a quanto sia perfetta in questo momento. Sorridendo, alzo il volume, magari la sente anche lei, la sente per davvero, parola per parola: magari capisce qualcosa, magari la mia buona stella mi ha dato una canzone anche quando ho provato a farglielo capire senza musica, quello che mi si agita dentro.

- So che sei la più brava a rimanere mania.

Arriviamo sotto casa sua in un lasso di tempo che pare la frazione di un secondo, un lasso di tempo in cui ero troppo impegnato a calamitare ogni pensiero su di lei per chiedermi cosa faremo adesso, arrivati a questo punto. Però la domanda mi nasce spontanea dallo stomaco e mi sboccia in bocca prima che possa anche solo pensare di fermarmi.

«Rimani con me, adesso?»

Perché ho ancora un sacco di cose da dirle e da farle e ho un bisogno nero di farlo dentro di lei.

«No.»

Boom.
Parole esplosive.
Più gelido e pungente di tutta la pioggia di gennaio che mi ha scavato la pelle una manciata di momenti fa.

«Non è così, che vanno le cose» continua «ce ne sono alcune che se cadono a terra e si rompono non basta rimetterle a posto sul proprio scaffale, per portarle allo stato originario. Anche se quello è il loro posto, lo è sempre stato e sempre lo sarà.»

Si allontana da me e fa malissimo, come se mi stessero strappando la carne di dosso e mi stessero lasciando esposto e agonizzante. Si risistema meglio sul sedile, afferra la maniglia dello sportello e

«Hai quattro giorni, uno per ogni maledetto numero sul calendario che hai strappato dalle mie mani e hai sporcato con le tue. Hai quattro giorni per convincermi che ne vale ancora la pena.»

dice, prima di uscire e sbattere lo sportello.

Sorrido.

Ho quattro giorni.

- Forse ti ricordi sono roba tua.

Anche voi? Vive? Felici? Incazzate?

Se non siete incazzate Andrea vi regala un cupcake e vi strimpella due note.

'Sto capitolo mi ha levato la vita, giusto per dirlo. La canzone all'inizio vi ha fatto fare pensieri strani, eh?

Ci tenevo a dire che mi è stata ispirata da un commento al capitolo precedente: l'ho sentita e ho immaginato il doppio PoV con il doppio modo di pensare le frasi. Uguale e complementare, come sempre, come loro. Ci tenevo a raccontarvelo per dirvi quanto voi siete importanti e determinanti per me e quello che scrivo, quindi per tutti semplicemente

GRAZIE.

Dato che questo papiro mi ha prosciugato le forze, non so quando ci risentiremo, spero presto.

Amate l'autrice a prescindere dall'eventuale contenuto,
bacini

Giulia. ♥️

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