36. C'era una volta
2017
«C'era una volta una regina.»
«Ma tutte le favole iniziano con un re!»
«Questa è un po' diversa, questa inizia con una regina.»
«E il re dov'è?»
«Il re non c'è.»
Perché è così che succede, sai? Una persona pensa di avere bisogno di qualcuno al proprio fianco, persino una regina, una che si sente potente e completa già di suo. Allora si innamora e gli dona qualunque cosa le appartenga, persino se stessa, il suo corpo, la sua anima. Poi finisce che il re calpesta tutto sotto i piedi, lo polverizza e lo getta nelle onde del mare: le ceneri della loro storia, raccolte a piene mani dall'urna in cui sono contenute. E allora capisci - meglio tardi che mai - che una regina non ha mica bisogno di un re, per brillare.
Una regina si basta da sola.
Elisa, la bambina a cui faccio saltuariamente da babysitter, mi osserva con un cipiglio non troppo convinto stampato in faccia. Evidentemente si aspettava il re, quando mi ha chiesto di raccontarle una favola, ma se ne farà una ragione.
«Okay... e cosa fa questa regina?»
«Regna» dico, stringendomi nelle spalle.
«Bea.» Elisa mi punta un dito accusatorio contro la faccia. Sorrido debolmente, a disagio: sono decisamente una frana a inventare storie.
«Va bene, va bene. Cancella tutto, ti racconto una storia in cui c'è anche il re.»
Elisa si apre in un enorme sorriso e si siede di fronte a me a gambe incrociate, in attesa della sua storia.
«C'era una volta una regina - no Eli', non mi interrompere, inizierò sempre così - molto amata dal suo popolo. Lei regnava su una città meravigliosa, in Africa, che si affacciava su una vastissima distesa d'acqua ed era circondata da un muro fatto da pietre così bianche, ma così bianche, che sembrava brillare come una lampadina da cinquanta watt ed era visibile da chilometri e chilometri di distanza.»
«Cosa sono cinquanta watt?»
«La quantità di luce che fa una delle lampadine del lampadario in salotto.»
«Oh.» Elisa china appena la testa, fermandosi a riflettere, poi la solleva e mi guarda con gli occhi spalancati. «E la città brillava come il mio salotto?»
«Esatto.»
«Figo. Continua.»
«Questa regina - una donna bellissima, con i capelli dorati come il grano maturo e gli occhi azzurri come il cielo - aveva un marito, un tempo, solo che poi era schiat- era venuto a mancare» sorrido, melliflua, sperando che Elisa non abbia colto la nota stonata.
Devo imparare a moderare quel pelo di cinismo con cui condisco ogni discorso, quando sono con lei.
«Lei gli era così fedele» proseguo «che aveva giurato che mai, mai nella vita avrebbe amato un altro uomo. Era felice di farsi i fatti suoi, insomma: regnava un po' in giro, si divertiva, andava a fare shopping con le amiche, cose così.»
«E poi che è successo?»
«Non fare l'impaziente!» Le scompiglio appena i capelli e continuo a raccontare.
«Il mare le portava in dono, a riva, un sacco di cose: rifiuti, tesori, conchiglie e un giorno proprio il mare le regalò un principe, lasciandoglielo sulla costa. Era un tizio qualunque per quanto lei ne potesse sapere, in realtà: un tizio senza arte né parte, ma l'aveva capito subito, guardandolo, che quel naufrago sporco e puzzolente era un principe.»
L'aveva capito subito perché quello di lui era uno sguardo prepotente, uno a cui sarebbe stato meglio insegnare a chiedere "permesso", prima di investire le persone, visto che quel maledetto sguardo mica si era fermato solo al cuore, no: quello aveva travolto ogni organo, muscolo, osso. Impossibile trovare una sola parte di lei su cui non si fosse schiantato, riducendo tutto in mille pezzi e ricostruendolo a modo suo.
«E che ne ha fatto, del principe?»
«L'ha raccolto, ché mica poteva lasciarlo lì a seccare sotto il sole e a marcire tra i flutti, lei era stata abituata a essere una buona regina e a prendersi cura di tutte le cose, soprattutto di quelle belle, anche se grezze. E sporche.»
«E lui era bello?»
«Stupendo.»
«E com'era?»
«Aveva i capelli lunghi e neri,»
castani, con alcuni riflessi ramati, e ricci,
«due occhi verdi come la speranza,»
neri come l'abisso,
«ed era talmente bello che la costa non lo voleva lasciare andare: le onde lo accarezzavano con il loro vai e vieni e i granelli di sabbia gli si erano appiccicati addosso, non volendo separarsene.»
«Ma alla fine la regina l'ha preso.»
«Alla fine l'ha preso, sì. L'ha strappato alla costa e se l'è portato nel suo palazzo, l'ha nutrito, l'ha curato, l'ha persino portato a caccia, un sacco di volte, e una di queste sono stati sorpresi da un temporale.»
«Si sono fracicati?»
«Un po', ma poi si sono rifugiati in una grotta e il temporale è diventato un ricordo lontano, perché in quella grotta si sono innamorati.»
Lui stavolta ha chiesto permesso e lei è stata così scema da dirgli che sì, che poteva entrare, che il temporale fuori poteva pure raderlo al suolo, quel cazzo di paese di pescatori, andassero tutti a fanculo. In quel momento c'erano solo lei e lui.
«E poi vissero per sempre felici e contenti?»
«Ma nemmeno per un ca...ppero, tesoro mio. Poi la regina si è dimenticata di essere una regina, tanto era innamorata di lui, ma nonostante questo sembrava pure andare tutto bene, finché una notte lui si sveglia, dal bello e buono, e prende una nave, una di quelle della flotta della regina, per intenderci, per scappare. Tradisce lei e la sua fiducia.»
Carica tutto, su quella nave: sogni, progetti, momenti insieme e poi prova a salpare come un codardo, nel cuore della notte, perché non ha le palle di affrontare le sue azioni, no. Lui agisce d'impulso e lascia la regina col culo per terra, a strapparsi i capelli e a chiedersi perché si è dimenticata di essere una regina, per lui.
«Che stronzo.»
«Elisa! Chi ti ha insegnato queste parole? Non si dicono!»
«Che faccia di maiale, allora.»
«Molto meglio.»
«E la regina, poi? La regina che ha fatto?»
«La regina poco dopo si è svegliata e si è resa conto che il principe non era più accanto a lei...»
Se n'è resa conto perché andando via lui si era portato appresso una parte di lei, tipo un braccio, e come fai a non svegliarti se nel cuore della notte ti strappano un braccio e ti lasciano monca? Per non parlare della vita senza un braccio, poi, che sì, è ancora vita, ma una vita difficile, una vita un po' a metà. Una vita che puzza.
«... allora lo ha raggiunto sulla costa, quella su cui l'ha trovato, e gli ha chiesto che facesse, dove andasse, perché non avesse voglia di restare con lei, perché gli aveva dato tutto, lei, e ora non si poteva più riprendere nulla, ormai era fatta. Però se magari rimanevano insieme lei si sarebbe sentita ancora intera e non avrebbe avuto problemi. Ma il principe no, il principe aveva la sua missione: l'ha lasciata lì, sulla costa.»
Piegata in due dal dolore. Dilaniata dal risentimento. Spezzata dal peso della fiducia mal riposta.
«E lei che ha fatto?»
«Ha messo fuoco a tutto quello che apparteneva a lui, formando una catasta di roba così alta che il fumo si vedeva da lontanissimo, persino dalla barca del principe. E poi lo ha maledetto.»
«Che vuol dire?»
«Gli ha augurato di riuscire nella sua missione, quella per cui l'ha abbandonata, ma di riuscirci a costo di vivere male, dopo.»
Di strozzarsi con i ricordi di loro due, di ritrovare lei in ogni letto in cui si sarebbe sdraiato, in ogni paio di gambe in cui sarebbe annegato, in ogni istante della vita in cui si sarebbe sentito in pace.
«Non avrebbe dovuto perdonarlo, nonostante tutto?»
«Quella è la Bibbia, mica le favole.»
«E questa non è una favola, non c'è il vissero tutti felici e contenti.»
«Mi sa che è vero, Eli'. Ho toppato la favola.»
«Fa niente. Ma poi che è successo alla regina?»
È morta. Si è trafitta con la spada del principe, perché il dolore era troppo intenso e lei aveva riposto così tante cose sue in lui che si sentiva troppo vuota per andare avanti.
«Ha ripreso a regnare, ricostruendo poco a poco se stessa e la sua figura di regina, quella che si era dimenticata di essere.»
«E lui?»
«E' andato dritto per la sua missione.»
«Con la maledizione?»
«Non gliel'ha mai chiesto, sai? Se la maledizione fosse andata a buon fine, dico.»
Ogni volta che si sono visti erano troppo impegnati a consumarsi ancora un po', a strapparsi altri pezzi, tutti quelli rimasti, e poi a riattaccarseli addosso alla rinfusa, pescando qua e là dal mucchio e confondendo le cose dell'uno e dell'altro.
«Non mi piace tanto, questa storia, Bea.»
«Ti dirò... Nemmeno a me.»
Ma che ci vuoi fare? Nella vita mica ci scegliamo le storie e il narratore esterno e lo scrittore.
«Forse è meglio che andiamo di là a giocare con le barbie, Eli'. Non sono buona a raccontare le favole.»
E a viverle ancora peggio.
Alzi la mano chi ha capito quale "favola" ha raccontato Beatrice.
Prossima volta magari faciamo Cenerentola, pora Elisa.
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