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25. Come sul capo al naufrago l'onda s'avvolve e pesa

2010

Dolore.
Totalizzante.
Derivato dall'incomprensione degli schemi secondo cui gli ingranaggi dei suoi pensieri vanno a muoversi, innescando azioni che sono incapace di gestire e di fronte a cui mi sento inerme e priva di forza come una bambola di pezza.
Derivato dal fatto che non so dove sia o cosa faccia. Io sono qui a fare le sei di mattina, insonne, e a tirare pugni al muro della mia frustrazione, osservando le nocche spaccarsi e ricoprirsi di tutti i miei sogni che poco a poco fluiscono dagli squarci della pelle; tu, invece, con chi sei?
Derivato dalla rabbia che mi fa il fatto che non mi arrabbio. Dovrei? Credo di sì. Dovrei essere indignata, dare in escandescenze, fare una di quelle scenate da primadonna come nei film.
E invece sono qui ad avvertire solo il vuoto. A fare a pugni solo dentro di me.

Dovrei urlare e voglio solo il silenzio.
Dovrei andarmene e voglio solo rimanere immobile, con i piedi ben piantati per terra.
Dovrei lanciare i piatti e invece voglio solo che le mani mi cadano lungo i fianchi, vinte dalla forza di gravità.

Pazienza.
Quella che mi concedo e gli concedo, legandola a doppio nodo con il tempo che mi do e il tempo che gli do.
Tempo necessario per capire, per riflettere, per apprendere dall'errore e non ripeterlo mai più.
Per fare ordine tra tutte le cianfrusaglie che nel corso degli anni gli si sono depositate sui bordi dell'anima, come rifiuti sospinti dalla marea sulla riva della spiaggia, lambiti da piccole onde schiumose, ricoperti di salsedine incrostata e vegliati dai gabbiani.
La pazienza di sopportare questa solitudine che mi ha imposto, ma che io gli concederei comunque, se sapessi che fosse atta a capire.

Dedizione.
Perchè io sono con te, Andrea, mentre vestito di una tuta arancione catarinfrangente raccogli sulla spiaggia le lattine di birra, le buste di plastica, i cocci di materiale vario. E poi: lo sai che i pezzi di vetro, quando sono levigati dal mare, diventano pietre preziose di tutti i colori?

Consapevolezza.
La più pericolosa, di tutto il resto delle mie sensazioni. Quella da nascondere sotto il tappeto, come la polvere che spazzi via dal pavimento; e proprio come fuliggine, questa mi piove addosso e mi ricopre interamente di una patina umidiccia di vergogna.
La consapevolezza che, seppure sia trascorso solo poco tempo secondo quanto mi rivela il calendario e l'orologio, le mie cellule, che si portano avanti impazzite con un ritmo circadiano tutto loro, sono così tanto intrise di lui che potrei anche arrivare non a capirlo, ma a perdonarlo per sempre.
E questo mi spaventa.

*

È il 5 maggio. Il cielo, fuori, è ricoperto da uno strato uniforme di nuvole plumbee, che creano come un mantello a questa giornata, una cappa umida che fa aumentare la temperatura percepita. Mi chiedo se Manzoni abbia dedicato la sua poesia al clima, piuttosto che a Napoleone, ché oggi l'aria è immobile e noi stiamo tutti dando l'ultimo mortal sospiro.

I secondi sembrano camminare in tondo, pigri e satolli, la stessa voglia di vivere dei commensali alla fine del pranzo di Natale in una tipica famiglia del sud.

Mi guardo intorno, annoiata e distratta: le pareti intonacate di bianco e vergate dai piccoli segni di penne e matite da chi, nel corso degli anni, è cresciuto tra queste mura; la cattedra di legno su cui troneggia il registro blu, fonte di terrore nero; i banchi traballanti dal guscio verde o beige, diversi, ammassati alla rinfusa nell'aula come calzini spaiati nel cestello della lavatrice; l'orologio bordato di rosso con le lancette di ferro che scandiscono i nostri minuti, secondi ,ore da reclusi.

Apro l'astuccio che ho sul banco e tiro fuori il piccolo specchio che mi porto sempre dietro, dando un'occhiata alla mia faccia provata e alle occhiaie che sembrano voler raggiungere il mento. Sono stati giorni difficili, si sono susseguiti uno dietro l'altro come condannati a morte che vanno incontro al patibolo.

Andrea, dopo la sfuriata a cena dai suoi, mi ha lasciata a crogliolarmi nel mio bozzolo di sofferenza per una marea di ore consecutive, una dietro l'altra, finché il giorno dopo, verso ora di pranzo, non ha risposto a uno dei milioni di sms che gli ho mandato con un laconico, quanto lapidario "Buongiorno".

Buongiorno un cazzo.

Peccato non aver saputo esprimere anche a lui questo aulico concetto. Mi sono sforzata, davvero, ma alla fine è uscito fuori solo un patetico "Quando ci vediamo? Voglio parlarti."

Non fosse stato per Noemi, che, accorsa da me al primo segnale di pericolo, mi ha trattenuta con le unghie e con i denti e se fosse stato necessario persino legandomi alla sedia con i lacci delle scarpe, sarei corsa da lui, smaniosa, tre secondi dopo averlo sentito.
"Non ti azzardare a perdere la dignità. Altro che verginità: la cosa più importante da non dare via è proprio quella! Rimani seduta. Senza fare storie."
Mi seguiva a vista persino se andavo in bagno, bussando insistentemente se ci trascorrevo un tempo troppo lungo secondo i suoi canoni.

Tesa come una corda di violino, alternando crisi isteriche a crisi di pianto a crisi di fame in cui ho trangugiato intere cucchiaiate ricolme di gelato alla vaniglia, sono riuscita a sopravvivere fino a sera, quando si è palesato sotto casa mia.

Senza fiori o cioccolatini.

E nemmeno in ginocchio.

Solo con un sms: "Esci".

Senza dire una sola parola, mi ha portato a Piazza Bologna, ha salutato un gruppo di amici che non conoscevo e che non mi ha presentato e si è seduto sulle scale dell'edificio delle poste centrali con la chitarra in mano.
I suoi amici hanno comprato le birre dal bar di fronte, le hanno stappate con l'accendino e distribuite in giro, mentre Andrea e un suo amico hanno iniziato a suonare e tutti noi, a poco a poco, a cantare.

Il malto, la compagnia, la musica, l'aria frizzantina della sera hanno fatto quello che lui non è riuscito a fare a parole: distendermi i nervi, creare calore, riallacciare i fili.

E a mano a mano mi perdi e ti perdo
E quello che è stato mi sembra più assurdo
Di quando la notte eri sempre più vera
E non come adesso nei sabato sera
Ma, dammi la mano e torna vicino
Può nascere un fiore nel nostro giardino
Che neanche l'inverno potrà mai gelare
Può crescere un fiore da questo mio amore per te

In un impulso repentino, nel mezzo della canzone, mi ha preso la mano e mi ha portato via, lasciando tutti lì a guardarci straniti e continuare la serata come meglio credevano: abbiamo fatto vento*, come dopo una cena.
Complice il buio della notte, ci siamo schermati agli occhi del mondo in una via nascosta, non illuminata, e, arrendendoci a qualcosa di più grosso di ogni umana comprensione, almeno per me, contro il muro ci siamo baciati, accarezzati, toccati. Sembra tutto così giusto, tutto così al suo posto.

Ma i baci non risolvono i problemi e la realtà sa giocare a nascondino meglio di tutti noi messi insieme.
Riesce a scovarti anche nelle vie nascoste, non illuminate.

Il sospetto, la delusione, la frustrazione, l'indignazione, mi si posano sulle spalle come strati su strati di armature. Pesanti, cigolanti e arrugginite.

Immobile contro il suo petto, gli ho fatto la domanda più difficile di tutte.
"Dove sei stato, ieri?"
"In giro."
"In giro dove?"
"Con Dario. Due birre, una canna, cose così."
"Era così difficile scrivermi un messaggio?"
"No, ma ho voluto tenermi lontano dalla tastiera, prima di dire cose che non pensavo realmente. Quand'è così, preferisco calmarmi."

"Hai..." mi muoiono le parole in gola, al solo pensiero. "Sei stato con altre?"
Mi afferra il mento e mi spinge a guardarlo negli occhi. Neri. Bui.
"Non potrei mai, qualunque cosa accada. Non sostituirei mai il sole con delle lampadine."
"Ma che metafora è?" Sorrido.

No, Bea, non sorridere. Non c'è niente da sorridere.

"Boh, ma ci sta."

Sono rimasta in silenzio per un po', il tempo necessario a rimettere insieme i cocci.

"Perché noi non sappiamo parlare delle cose?"
"Perché viviamo con l'istinto sottobraccio."
"Tu vivi con l'istinto sottobraccio, Andrea, io no. Io affronto gli argomenti."
"Ma lo affronteremo, infatti, domani. Lo faremo domani."

E in questi giorni in cui ho cercato di riabilitare i miei sentimenti verso di lui, non ho mai smesso di aspettare domani.


Il mio flusso di coscienza viene interrotto dal bidello che spalanca la porta e porge una circolare al professore di arte, che interrompe la lezione per leggere il testo da sopra gli occhialetti a mezza luna.
"A causa delle condizioni di salute della preside e della sua impossibilità a presiedere qui per il resto dell'anno scolastico, bla bla bla, per quest'anno non si terrà il consueto viaggio d'istruzione."

Ci guarda tutti da sopra quelle sue maledette lenti, accarezzando la testa pelata con la sua mano grande e ruvida.
"Avete sentito, marmaglia? Quest'anno non si parte. Potremo dedicare più tempo a Bernini e Borromini!"

Così percossa, attonita, la terra al nunzio sta.
Muta.

Vanessa mi guarda con gli occhi sgranati, mentre rischia quasi di piangere. Sono tutti sconvolti, increduli, li sento bisbigliare.

Ma il viaggio di quinto anno!
Ma siamo pazzi!
Ma io protesto, è un'ingiustizia!
Mio zio lavora alla polizia postale, aspetta che glielo dica!

Più di tutti, io, rimango atterrita dalla notizia. Mi accascio sulle braccia incrociate sul banco, chiudo gli occhi e tiro un respiro profondissimo.

La gita non si farà.

La vita ha deciso di dargliela vinta.

E lui sfuggirà abilmente a domani , che verrà chiuso a doppia mandata in un cassetto.
Fino al prossimo problema.

*Fare vento: espressione in romanesco che indica l'andarsene da un posto senza aver pagato il conto.

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