21. E gli occhi del bambino, quelli non li danno proprio indietro mai
2010
Andrea
Seduto con i gomiti appoggiati al tavolo della cucina, mentre il fumo che si eleva dal tazzone bianco col cappuccino caldo mi solletica il naso, rifletto su quanto mia madre sia del tutto incapace di comprendere che, quando mi rode, non mi si deve rivolgere parola.
E oggi mi rode.
Oltremodo.
"Ma mi ascolti o no?" Con le mani sui fianchi, nonostante la vestaglia infeltrita di ciniglia blu e i bigodini in testa, ha un'aria indispettita che potrebbe incutermi quasi timore. Quasi.
"Sì."
"Embè?"
"Embè che? A scuola non ci vado nemmeno stamattina ma', no."
Si siede sulla sedia di fronte alla mia e punta gli occhi struccati e ancora appesantiti dal sonno nei miei.
"Ma che ho fatto di male, io, per avere un figlio scemo? Io dico, non mi capacito, proprio non riesco." Si passa una mano sul volto. "Ti manca un anno Andrea, a mamma, uno solo. Uno." Ribadisce il concetto piazzandomi davanti agli occhi un indice dritto come un fuso.
Sbocconcello un biscotto, mentre sostengo il suo sguardo accusatorio. "Già. So ancora contare."
"Non l'avrei detto, altrimenti ti saresti preso 'sto diploma. Perchè non lo fai?"
"Perchè non mi va."
"Ma che risposta è? Ma non la vedi a Flavia, tua cugina? Quella si è maturata al linguistico e ora fa lingue a Tor Vergata, parla un sacco bene l'inglese, può viaggiare quanto vuole e scoprire il mondo."
Il pressante mal di testa con cui mi sono alzato stamattina inizia a comprimermi le tempie, ma lei non demorde.
"Che so, poi magari finisce a fare la cameriera ma può stare in qualunque posto del mondo, tipo l'Inghilterra, la Germania, la Francia - sai che bella, la Francia? - , la Grecia. L'America, Andrè: ci pensi all'America? E' che l'inglese è la lingua del futuro, non l'hai sentito al TG?"
"A ma', e basta un po'!" Mi sollevo di scatto e sbatto i palmi delle mani sul tavolo, di fronte a lei. Quasi provo un singulto di pentimento, quando la vedo indietreggiare sgranando gli occhi, ma oggi mi girano, mi girano proprio. "M'hai rotto te, la scuola, Flavia e pure i giornalisti del TG Uno, sì! Pure quelli m'hanno rotto il cazzo, con quella musichetta di apertura sempre presente a ora di pranzo! Tutti con le loro carriere delineate, i sogni, le grandi aspirazioni di 'sto cazzo, sempre lui, e poi vedi come finisci? A fa' il lavapiatti in trattoria come papà, che gli hanno chiuso l'azienda e mo' non lo vuole assume' più nessuno, a cinquant'anni, senza capelli e con la pressione alta."
Ho tirato la corda, ma me ne accorgo troppo tardi, quando ormai il fiume in piena è ridotto a un rigagnolo. Mamma mi lancia un'occhiata di fuoco e si alza di scatto, stringendosi la vestaglia come per proteggersi dal peso delle mie parole.
"E te?" Mi chiede, con un tono monocorde, piatto. "Ti credi più furbo degli altri, te? Che se cammini fuori dal gregge ti riuscirai a salvare in qualche modo? Che se non ti fai toccare da niente allora la noia, la monotonia, l'incedere dei giorni non verrà a toccare te? Ma non ti vedi? A te la noia t'ha già toccato da un pezzo, te stai messo peggio pure di papà che lava i piatti e di me che faccio i doppi turni per permetterti 'sto cappuccino ogni mattina." Indica la mia tazza e io abbasso gli occhi, nascondendomi sotto la mia tenda di ricci come quando ero bambino e facevo finta di non esistere.
Ché se non potevo vedere nessuno allora manco gli altri potevano vedere me.
Invisibile.
"Datti una mossa" prosegue. "Prima che decida di buttarti fuori di casa e di farti capire come gira davvero il mondo."
Esce dalla cucina trascinando i passi sulle sue ciabatte vissute, diretta verso il bagno, ché tra venti minuti deve uscire per andare al lavoro.
Mentre in tv si susseguono le immagini di uno scontro armato da qualche parte nel mondo, provo a sorseggiare il cappuccino che è ormai freddo e fa schifo come quello che mi sento dentro.
A volte non riesco a capire se sono nato sbagliato o se negli anni mi sono così tanto convinto di questo, ormai, da esserlo diventato davvero.
Eppure la vita non dico che mi ha sorriso, no, ma insomma manco m'ha preso a pugni. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha amato come poche cose al mondo e mi ha fatto scoprire la musica.
Ogni domenica mattina, mamma, quando non aveva turno, si alzava alle 9 e metteva allo stereo le sue canzoni preferite: Battisti, De Gregori, De Andrè, Venditti, Finardi, Mina, la Mannoia. Si rifiutava di sentire canzoni straniere - "Chè io l'inglese non lo so e se non capisco che dice io non canto!" - , ma in compenso aveva un mobile pieno di cassette di cantanti italiani, che mi divertivo a mandare indietro arrotolando il nastro col posteriore delle penne quando volevo risentire qualcosa. La musica mi si infilava nel sonno ed era la sveglia migliore di tutte: con gli occhi ancora chiusi camminavo a piedi scalzi fino in cucina, mamma mi prendeva tra le braccia e tra i miei grugniti di disappunto mi faceva volteggiare cantando, mentre papà se la rideva e sorseggiava il caffè bevendo il giornale.
Poi, alle scuole medie, ho iniziato a comprare decine di cassette vuote, per crearmi la mia musica: accendevo la radio e quando sentivo qualcosa che mi piaceva premevo "Rec" e la imprimevo sul nastro. In particolare c'era un pezzo che suonava sempre in radio, in quel periodo, e mi faceva pensare a lei.
Eri bellissima, lasciatelo dire, e anche stavolta stavolta so che non mi crederai.
Giravo ovunque dentro Roma, in bicicletta, col walkman e le cassette, cantando a squarcia gola alle mura scrostate di questa città, infilando le ruote tra i sanpietrini e zigzagando per evitare i panni gocciolanti che le vecchie stendevano sui fili tesi tra un palazzo e l'altro.
A quindici anni, dopo milioni di pomeriggi passati col naso incollato al negozio di musica in via Merulana, il giorno di Natale ho scartato la mia chitarra: l'ho chiamata Matilde, come la compagna di classe a cui avevo intenzione di dedicare ogni singola nota strimpellata con quello strumento. Insieme alla chitarra, c'era un libro di accordi con le migliori canzoni esistenti, italiane, s'intende - "Chè se ti metti a suona' roba strana non la riconosco e non ti posso controllare!"
Ho imparato a suonare. Un po' da autodidatta, un po' grazie a un compagno di classe di mamma, un tipo con lunghi capelli grigi legati in un codino e un cerchio spesso e argenteo al lobo destro. Si chiamava Gaetano.
Gaetano aveva un modo tutto suo, di insegnare. Per ogni nota sbagliata mi bacchettava forte sulle dita confuse con una di quelle matite rosso - blu che la professoressa di italiano usava per correggermi i temi e guardava ogni cinque minuti la foto della figlia che la moglie gli aveva portato via, trasferendosi non so dove. Fumava come un turco e spesso mi offriva sigarette e spinelli, asserendo servissero a sviluppare la sintonia con le note.
Quando, due anni fa, l'hanno trovato a casa, seduto per terra con la schiena appoggiata al muro e l'aria satura di anidride carbonica, seduto sulla sua tomba al Verano ho pianto e gli ho suonato De Andrè.
Preghiera in gennaio.
Ho pregato che andasse in paradiso e che davvero non ci fosse l'inferno, nel mondo del buon Dio.
Mamma, solida, in carne ed ossa, mi aspettava ritta in piedi nel suo cappotto rosso 100 metri più avanti, tenendosi lontana, ma vicina, come un faro luminoso presente costantemente in quel mare di nero dolore.
Da quel momento in poi, ho suonato in ogni momento della mia vita, in ogni luogo che mi sono trovato ad attraversare, in memoria di Gaetano e delle sue dita ingiallite dal fumo.
Ho portato avanti il suo ricordo e piano piano sono entrato nelle note, come voleva lui.
Le ho fatte mie.
Ho imparato a giocarci e a chiudermi in me stesso quando lo facevo, conquistandomi quell'aria da tenebroso - che in realtà mica è mai stato vero: io mi sono solo sempre visto i cazzi miei, che preferisco avere l'opportunità di campare cent'anni.
E mamma è stata ogni volta lì, ferma, ad ascoltarmi, a braccia conserte, muovendo la testa e fissandomi come se mi riuscisse a leggere persino l'anima.
Con un rumore acuto, allontano la sedia dal tavolo e mi fiondo in camera da letto, dove mamma sta abbottonando la camicia azzurra, quella che abbiamo comprato a Porta Portese un paio di domeniche fa.
Faccio sbucare la testa dallo stipite della porta.
"Ma'?"
"Che vuoi?"
Mi vergogno un po', abbasso la testa. "A ma', mi perdoni? Sono un testa di cazzo."
"Vie' qua." Spalanca le braccia e io mi ci fiondo, non si è mai troppo piccoli per farlo.
Mi accarezza i ricci mentre mi stringe forte e io mi perdo in quel profumo che mi accompagna da vent'anni, dal giorno in cui sono venuto al mondo, tutto complicato e ingarbugliato.
O forse ho sempre solo creduto di esserlo, ché qui in questo posto sicuro io mi sento perfetto e unico al mondo.
Piccolo piccolo tra le sue braccia solide, non riesco a fare a meno di canticchiare tra me e me un ritmo antico, pregno d'amore.
Che a dire ti voglio bene non sono stato bravo mai, incapace a esprimermi a parole da molto prima che incontrassi Bea sulla mia strada, ma la musica arriva sempre lì dove io non riesco.
Ma adesso dimmi
Com'è andata?
Com'è stato il viaggio di una vita lì con te?
Io spero solo tutto bene
Tutto come progettavate voi da piccole.
Stai bene li con te?
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