20. ...sulla cattiva strada 2/2
2010
«La compromissione delle mie già scarse facoltà mentali è evidente, Andrea, ma mi offende pensare che tu creda che io non capisca che questa decisamente non è una festa.»
Lo osservo a braccia incrociate con l'espressione più contrariata che riesco a stamparmi in volto, anche se mi viene un po' da ridere.
Ma solo un po'.
«Acuta osservazione, Raperonzolo, me ne compiaccio.» Andrea mi abbraccia stretta da dietro, mentre siamo in fila di fronte al bancone di un bar dall'aria non troppo lecita, immerso nella scarsa illuminazione che le fioche luci donano all'ambiente. L'età media della clientela, disposta per la maggior parte attorno alle slot machines, sembra attestarsi intorno ai trent'anni e apparentemente sono l'unica donna presente, nonchè l'unica che queste mura color blu notte abbiano mai visto nell'arco di almeno l'ultimo mese, a giudicare dalle fameliche occhiate che mi lanciano tutti. Rabbrividisco.
«Non esiste festa che sia degna di essere vissuta senza del buon vecchio alcool in corpo» continua lui. «Ora ci faremo dei patriottici shot e poi potremo dare inizio alle danze.»
«Patriottici, eh?»
«Non si dica che non ami la mia terra» sogghigna. «Vedrai.»
«Nando.» Andrea saluta l'uomo dietro il bancone, mentre mi posa le mani sulle spalle e mi bacia la tempia: non riesco a vederlo, essendo alle mie spalle, ma sono certa che se potessi lo troverei pericolosamente simile a uno di quei cani intenti a marcare il territorio.
«Andrea, da quanto tempo. Nuova pischella?» mi indica con un cenno del mento e intanto continua a strofinare i bicchieri con uno straccio dall'aria vissuta, a voler essere clementi.
«Nuova pischella» conferma, stringendo la presa.
«Mejo de l'artre» approva Nando, facendomi l'occhiolino.
Quali altre? Quante altre? Dove stanno 'ste altre? Ditemi subito i loro nomi e nessuno si farà del male.
«Soprattutto de quella co i capelli neri, lunghi fin qui, quella cor naso a forma de becco!» continua il simpaticone indicando con il dorso della mano un punto a metà torace.
«Chi, Nà? Quella col perizoma che spuntava sempre dai jeans?»
«Sì, lei! De Torpignattara!»
«C'aveva più capelli che cervello, come dimenticare!»
E giù a ridere.
Che divertimento.
Tossisco per attirare l'attenzione su di me, nonostante apprezzi davvero infinitamente il siparietto in cui rivanghiamo tutti in allegria le mille donne di Andrea.
Mi guardano entrambi imbarazzati nello stesso momento, quasi come si accorgessero solo adesso della mia presenza - sì, salve a tutti, chi l'avrebbe mai detto? Sono qui da un po' - e Nando riprende a strofinare i bicchieri, mentre Andrea mi schiocca un bacio sulla guancia.
Puoi anche evitare, tanto non ho con me i trenta denari.
«Facce un tricolore, Nà.»
«Arriva!»
Cinque minuti dopo ci troviamo di fronte tre shot ciascuno, tra cui uno con una sostanza molle che sembra galleggiare all'interno, più un plus per Andrea.
«Che roba è?» chiedo, abbassandomi a scrutare da vicino il tripudio di alcol.
«Il tricolore!» asserisce, con un tono che sottolinea l'ovvietà della cosa. «Il rosso è il cervelletto: granatina, cointreau e bayles; il bianco è semplicissima sambuca e il verde è il Mitsubishi: tequila, liquore al melone, zenzero, limone e sciroppo di zucchero.»
Ho già perso il conto degli ingredienti che mi ha snocciolato.
«Vomiterò.» Storco la bocca guardandoli.
«Non vomiterai, non lo permetterò, fosse anche per quello che rappresentano. Stasera ci beviamo il rosso delle tue labbra carnose» le sfiora, piano «il bianco della tua pelle morbida» mi accarezza la spina dorsale «il verde di prato dei tuoi occhi. Ma se te lo chiedono dì che mi bevo la nazione, ché queste sono cose solo nostre. Poi io berrò tutte le tue sfumature insieme, mandandole giù lisce, sentendole infuocarmi dentro. Ti presento Regalo da Amsterdam: triple sec, liquore alla menta, liquore al frutto della passione» conclude, indicandomi l'ultimo shot che ha solo lui.
L'ho sentito solo io, quel tono che ha usato quando ha detto passione?
Ingoio a vuoto con la gola secca, guardando il tripudio di alcool davanti a me. O la va o la spacca.
«Da dove inizio?»
«Occhi.» Andrea afferra il bicchierino ricolmo di liquido verde e mi invita a fare lo stesso. «Prima brindiamo, poi colpiamo il bancone col fondo dello shot e poi buttiamo giù.»
«Perchè battiamo il bicchere sul bancone?»
«Perchè chi non batte non...sai...» Tentenna, guardandomi malizioso.
«Non che?»
«Non scopa.» Sorride sornione.
«Oh.» Credo di diventare dello stesso colore del passion fruit di cui sono pieni i bicchieri. «Okay.»
«A noi?»
«A noi.»
Facciamo tintinnare il vetro senza distogliere lo sguardo, batto il bicchiere sul bancone - ché, a parte gli scherzi, non si sa mai - e mando giù. Un'altra volta ancora un fuoco mi accende, serpeggiando lungo la gola, l'esofago e ancora più giù e non riesco a fare a meno di pensare che avessi ragione a immaginare sarebbe stata una serata all'inferno.
Dopo qualche minuto di attesa, mi sprona a bere il resto senza perdere altro tempo: prima la mia pelle e per ultimo le mie labbra, che poi bacia raccogliendo l'ultima goccia del liquido rosso.
Si lecca le labbra con gli occhi accesi da mille scintille. «Sei buona, Beatrice.»
Sudo freddo al solo sentire come pronuncia il mio nome, facendo scontrare tra loro le labbra piene prima e la lingua coi denti poi, mentre il tono roco che usa solo con me gli gira in bocca ed esce come fiato bollente.
Mi sento carica, mi sento viva, mi sento pienamente io, bloccata in quell'attimo in cui sai che tutto l'alcol che hai bevuto salirà prima o poi, ma adesso è ancora presto.
Nando continua servire senza sosta i vari avventori e mezz'ora dopo sono diventata la sua migliore amica: mi racconta che l'amore della sua vita l'ha lasciato per andare a vivere a casa del panettiere - "Mi sa che quer coso je faceva trovà du' filoncini ogni vorta in panetteria, a qua zoccola de mi moje" - e che adesso lui spende le sue serate per lo più curvo su questo bancone, a vendere futili sogni a tanti, troppi.
A sentirlo fa anche il mestiere del prete, "Perchè 'a sincerità sta nei discorsi da ubriachi, signorì. C'è che ormai tutti ponno fa' tutto, 'a libertà ha rovinato er monno... e mo' tutti c'hanno quarcosa da nasconde. Vengono a beve, a dimentica', a racconta' lo schifo preso e dato. E io sto sempre qua, cor sole o co 'a pioggia, sissignore, a Nando ce 'o trovi sempre, ogni vorta che c'hai bisogno."
Sorrido, ebbra più di felicità che di altro, tra le braccia del mio uomo, in questo locale di sconosciuti che non sento bisogno di conoscere, perchè ho già l'universo alle mie spalle.
«Andre! Guarda!» Un tavolo da biliardo attira la mia attenzione, prima nascosto dalle spalle di quattro ragazzi che adesso si apprestano ad allontanarsi.
«Vuoi giocare?»
«Sì!»
«Non sei capace.» Mi guarda con una smorfia, come mi sottovalutasse.
Ti faccio vedere io.
«Mettimi alla prova.» Incrocio le braccia e lo guardo con sfida.
«Va bene. Però» mi mette l'indice a un palmo dal naso «se vinco io ti togli il reggiseno e me lo regali. Prendere o lasciare.»
«Ci sto!» Affermo a voce alta e un paio di persone si voltano a guardarci. «Ma se vinco io...» Ci penso bene su, abbassando la voce. «Se vinco io, allora uscirai da qui col rossetto rosso sulle labbra.»
Ride. «Mi sembra onesto! Dopo di lei, signorina.»
Mi avvio verso la direzione indicata dall'ampio gesto della mano di Andrea, cercando di sculettare per quanto la sbornia incipiente me lo renda possibile, mentre lui prende altre due birre al bancone.
Raggiungo il tavolo da biliardo posizionato in fondo al locale, accarezzo sensualmente con la punta delle dita le venature del noce scuro ed è mentre mi adagio morbidamente con un fianco al legno levigato che metto il piede d'appoggio in fallo e finisco carponi per terra battendo forte le ginocchia. Iniziamo bene.
«Tutto bene lì sotto?" Un paio di mocassini marroni mi scrutano, a diretto contatto con la mia faccia.
«Tutto benissimo. Sta con me." Andrea risponde duramente al signor mocassini intanto che mi offre la mano e quest'ultimo si allontana, strascicando i piedi sul pavimento umidiccio.
«La smetti di farti abbordare persino in situazioni imbarazzanti? Diventa difficoltoso gestirli tutti.»
«Compra un'agenda.» Gli riservo un'occhiataccia mentre mi rialzo con fatica, scrollando un po' di sporco dalle ginocchia. Bleah. Lo guardo, impaziente. «Iniziamo?»
«Iniziamo.» Recupera la sua stecca e mi osserva con quello sguardo, quello lì, quello da Piero Angela che si accinge a illustrare le abitudini dei mufloni nel periodo dell'accoppiamento.
«Lo scopo del gioco, il biliardo americano in questo caso, è mandare in buca il maggior numero di palle: vince chi realizza più di sessantuno. Fin qui ci sei?»
Annuisco, mentre muovo le mani nascoste sotto il tavolo al ritmo dell'Aria sulla quarta corda di Bach.
«Si colpisce la bilia col punteggio più basso presente sul tavolo. Fine delle regole.» Si muove veloce, sistemando le palle al loro posto e togliendo il triangolo. «Sei pronta, scricciolo?»
«Pronta» confermo. Ora che ci penso ci somiglia davvero un po', ad Alberto Angela però. Forse quei ricci, quello sguardo penetrante...
Sto delirando.
Decide deliberatamente di iniziare per primo: dopo aver colpito la uno mi cede il turno e io spingo la palla distrattamente, realizzando un colpo pessimo. Quando tocca nuovamente a lui manda in buca la uno e mi guarda mimando con le mani davanti al petto un reggiseno.
La metti così, eh? Va bene: quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare.
Prendo un sorso della mia birra e strofino il gessetto sulla punta della stecca, mi posiziono a debita distanza e con un breve colpo mando in buca la due.
«Banale. Ti avevo preparato il campo.»
Lo guardo con sufficienza e come un felino che bracca la sua preda inizio a girare attorno al tavolo, cercando di ignorare la sensazione che in realtà sia il tavolo a girare intorno a me. Cerco di delineare la traiettoria che la palla dovrebbe seguire e la migliore strategia d'azione, mi fermo e con misurata lentezza colpisco la tre, che va in buca.
«La fortuna del principiante.»
Sorrido: la quattro è proprio nella posizione che mi serve.
Mi piazzo davanti a lui e facendo aderire al suo corpo il mio di dietro fasciato dai jeans mi piego, lentamente, fino a trovarmi quasi in una posizione parallela al tavolo. Lo sento irrigidirsi, mentre muovo impercettibilmente i fianchi a ritmo di musica, prendendo più tempo del dovuto per decidere come tirare.
«Così mi uccidi. Non puoi comportarti in questo modo.»
«E chi l'ha deciso? L'hai detto tu stesso che non ci sono regole.»
Mi risollevo improvvisamente e mi volto verso di lui, fino a parlargli sulle labbra.
«Illuminami, in ogni caso: cosa sto facendo di strano? Valuto solo il movimento migliore da effettuare.»
Lo sento deglutire rumorosamente, mentre cede alla tentazione di posarmi una mano sul fianco. Non mi lascio distrarre e tornando alla posizione di prima con un colpo secco e deciso faccio sì che la bilia dopo aver colpito una, due, tre sponde vada in buca. Liscia.
Mi concedo di lanciare uno sguardo ad Andrea, che mi guarda a bocca aperta con la birra a mezz'aria.
Non parli adesso, eh?
Coglione.
«Questo va ben oltre il fattore C.» Un'indecifrabile quantità di tempo dopo, Andrea è seduto su di uno sgabello di fronte al bancone, mentre Nando ride e io scappuccio il mio rossetto Pupa rosso fuoco. Ho realizzato ben ottantanove punti.
«Già» ridacchio.
«Chi ti ha insegnato a giocare così?»
«Mio padre. Ha persino partecipato ai campionati europei di biliardo e mi ha tramandato tutto il suo sapere di quegli anni di gloria, quelli prima che conoscesse mia madre.»
«E perchè non me l'hai detto?»
«Perchè tu non me l'hai chiesto.» Coloro il labbro inferiore con un tratto deciso e anche intenzionalmente un po' sbavato. «Mi dai per scontata, Andre. Sei troppo impegnato a pensare che sono chiusa nei miei schemi statici: una ragazza un po' timida, un po' no, che va a scuola ogni giorno con regolarità e ama la semplicità delle sue consuetudini. Il fatto è che non esistono solo il bianco e il nero, ma mille milioni di sfumature tra questi due colori e io sono proprio questo, una sfumatura. In costante cambiamento, peraltro. Devi imparare a cogliere e apprezzare tutte le mie gradazioni.»
Finisco di colorare il labbro superiore e lo scruto a distanza. «Me - ra - vi - glio - so.»
«Smettila» ringhia Andrea. Nando non riesce più a contenere le risate dilaganti e si tiene il ventre gonfio mentre viene scosso dagli spasmi.
Mi colpisce un'idea, improvvisamente.
«Vado un attimo in bagno e torno.» Entro con uno scintillio di follia, forse dato dall'alcol, in bagno ed esco più leggera, con il corpo del reato in borsa.
Mi blocco non appena sento la voce cavernosa di Nando. «'E donne se conquistano co' 'a verità, i fiori lasciali nei campi. Dopo che la tiri troppo, la corda, se spezza. Senti a me, che c'ho quarche anno in più sur groppone.»
Svolto l'angolo appena in tempo per vedere Andrea che lo zittisce con un cenno della mano e mi accoglie subito tra le sue braccia.
Con uno sforzo non indifferente, faccio finta di non aver sentito nulla.
«Andiamo?» Andrea mi guarda piegando la testa di lato con espressione interrogativa.
«E la festa?»
Ride. «Ma hai visto che ore sono?» Scruto l'orologio. Le quattro.
Le quattro! I miei mi ammazzano.
Controllo velocemente il cellulare e trovo dieci chiamate perse e un messaggio in cui mia madre mi avvisa che ha preparato la palma del giardino come giaciglio per me, stanotte. Ops.
«Tranquilla Bea, è sempre festa dove siamo noi.» Mi fa l'occhiolino. «Torniamo a casa, Cenerentola.»
*
Sono ormai le quattro e mezza quando siamo fuori da casa mia e mi allaccia la zip del colletto del giubbotto fino al naso, per non prendere freddo. Poi, inaspettatamente, si piega e solleva giubotto e maglia, abbassa appena l'orlo dei jeans e mi bacia: quando si allontana, la forma di due grosse labbra mi osserva facendo capolino dalla mia cintura.
«Pensami. Per tutta la notte.»
Mi avvicino verso il portone di casa, lo apro e mi volto appena prima di entrare.
«Andre?»
«Mmh?»
Gli lancio qualcosa e lui afferra al volo. «Tu sognami. Per tutta la notte.»
Prima di chiudere la porta, faccio in tempo a vedere lo sgomento dipinto sul volto di Andrea, che osserva con occhi increduli il mio reggiseno tra le sue mani.
Non pensare mai di avermi inquadrata, perchè ti giuro che sarò sfumatura in continuo mutamento.
Sempre.
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