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Capitolo 7

Il cassetto si apre scorrevolmente, senza intralci, come se non aspettasse altro che questo. All'interno, scorgo un qualcosa di bianco. Tiro il cassetto per i bordi con uno scatto, stanco di aspettare.

Dentro c'è una mappa scribacchiata e un oggetto rettangolare, lungo e di metallo, con vari motivi incisi e pietre rosse. Nient'altro.

Le spalle mi si afflosciano per la delusione.

Prendo lo strano aggeggio rettangolare e lo esamino. Le pietre scintillano sotto la luce della lampada, e in fondo, ha un manico dorato. Lo tengo fermo dall'estremità opposta, tirando dalla parte del manico, e ne esce un coltello. Osservo la lama sottile e affilata.

"Che cosa se ne faceva di questo?"

Maira nel frattempo sta osservando la cartina, «È una mappa dei pressi di Alberta, in Canada.» dice assorta nei suoi pensieri.

Rinfodero la lama e la appoggio a terra, il più lontano possibile da me. Sbircio da sopra la sua spalla il pezzo di carta ingiallita che ha tra le mani.

«Cosa dovrebbe segnare quella 'X'?» le chiedo perplesso.

«Non ne ho idea, non c'è una legenda.» me la passa con un sospiro afflitto.

Mi alzo, la poggio sulla scrivania e la esamino sotto la lampada. Ci sono varie 'X' a dire la verità, ma sono state cancellate facendo spiccare quella più marcata. Tiro su il foglio, mettendolo in controluce, cercando di scorgere quali punti aveva marcato sulla cartina e intravedo delle lettere dall'altro lato.

Il mio cuore fa un balzo nel petto.

Rigiro velocemente la mappa e nella sua calligrafia, c'è scribacchiato un indirizzo: 'Hopkins Street, 25'.

Sopra, c'è trascritto un nome che fatico a decifrare. Dopo un paio di tentativi riesco a leggerlo: 'Alaric Turner'.

Non suona per niente nuovo.

«Chi dovrebbe essere?» chiede lei, facendomi sobbalzare. 

Non mi ero accorto che si era alzata e messa al mio fianco. Il suo respiro mi solletica l'orecchio.

«Non lo so, ma, penso sia qualcuno che conosceva mio padre.» osservo di nuovo il nome e poi riprendo a parlare più determinato, «Quindi, potrebbe darci delle risposte».

---

Sto guardando Chris che gioca seduto sul divano, mentre scuote il Joystick con entrambe le mani, un ciuffo ribelle gli ricade sulla fronte. Il suo personaggio sta sparando da un elicottero in volo su un'orda di zombie. Mi rendo conto che passo sempre meno tempo con lui, e mi manca.

«Come sta andando a scuola?» gli chiedo, voltandomi verso il suo viso concentrato.

«Bene, mi hanno preso nella squadra di calcio» dice tirando fuori la lingua di lato, il tipico gesto di quando si concentra su qualcosa. I suoi occhi rimangono incollati allo schermo.

«Non entusiasmarti troppo, mi raccomando.» gli dico ironicamente.

Lui scaglia il Joystick su uno dei cuscini del divano e butta indietro la testa con fare esasperato, «Perdo sempre a questo dannato livello, non riesco mai a superarlo!» si lamenta, mentre sullo schermo appare la scritta 'game over' in rosso.

«Quindi non sei felice di essere entrato nella squadra di calcio?» insisto io, voltandomi di nuovo verso di lui.

«Certo che sono contento!» sbotta accigliato, lanciando le mani in aria per poi lasciarle ricadere sul divano.

Prende uno dei cuscini beige e se lo stringe contro il petto, «Solo che, delle volte mi sento così solo. Non lo so... è come se mi mancasse un pezzo.»

Si gira a guardare il mobile, e capisco subito che il suo sguardo cade su una foto di papà.

Il mio viso si rabbuia all'istante. La cosa più esasperante? Sono arrabbiato, costantemente.

Ma, non so proprio con chi prendermela per questo. Guardo mio fratello e mi chiedo come sia possibile che gli sia stata negata la possibilità di crescere con un padre al suo fianco.

Non è giusto.

«Sì, manca anche a me» faccio un sorriso sghembo. Gli strofino la testa, alla disperata ricerca di alleggerire almeno un po' l'atmosfera, «dobbiamo tagliarli questi capelli, si sono allungati parecchio.»

«Se non smetti di fare quello che hai appena fatto, ti taglierò io qualcosa. Però non avrà a che fare con i capelli.» minaccia con uno sguardo furibondo, che se potesse mi trapasserebbe da parte a parte

Scoppio in una risata, «Intendi il-»

«Ehi voi due, di che state parlando?» mia madre spunta all'improvviso.

Passa una mano sulla guancia di Chris e affonda sul divano al suo fianco.

«Di un bel taglio di capelli, per lui» dico facendo cenno con la testa ai suoi capelli.

Lo esamina, mantenendo un'espressione seria. Prende una ciocca dei suoi capelli tra le dita, «Be', effettivamente, ti servirebbe una spuntata»

Mio fratello assottiglia lo sguardo e scansa la sua mano, infastidito. Poi, si alza con uno slancio.

«Non mi farò tagliare proprio nulla.» borbotta indignato.

Io e mia madre ci scambiamo un'occhiata complice, poi scoppiamo a ridere mentre lui sbraita contro di noi e ci lancia il cuscino addosso. Dopodiché, sentendosi accerchiato, si ritira in camera sua continuando a borbottare. Rimaniamo seduti sul divano, continuando a ridere. 

Tuttavia, il suo interesse ricade su di me poco dopo.

Poggia un gomito sullo schienale del divano, «Vedo che sei più assente ultimamente».

Cerco di mantenere un'espressione poco interessata, «La scuola. Mi prende troppo tempo.»

«Capito, ricorda che puoi ritirarti quando vuoi, la Dottoressa Collins disse che ti avrebbe fatto bene... potresti sempre riprendere il prossimo anno.»

«Non voglio diplomarmi in ritardo» ribatto io.

«Ma se ti procura troppo stress-» inizia lei preoccupata.

«Mamma, io sto bene. Sto prendendo le dannate medicine, ho buoni voti a scuola. Secondo me, il problema lo hai tu.» controbatto infastidito.

Lei annuisce e basta, dispiaciuta. «Sto facendo tutto questo per te. Non voglio metterti sotto pressione, lo sai.» spiega flebile.

«Sì, lo so.» provo ad assumere il tipico tono da adolescente annoiato. 

«Vado di sopra» concludo.

Forse, non dovevo trattarla in quel modo. Mi sento un po' in colpa, ma è l'unico modo che ho per scrollarmela di dosso mentre cerco delle risposte.

---

Ci fermiamo davanti a un'enorme villa tutta bianca, ornata da delle sfarzose colonne di marmo. Fili d'erba color smeraldo ricoprono l'intero giardino.

Guardo alternativamente dalla mappa sul telefono, alla costruzione davanti a me.

"È impossibile."

Maira sbuffa avvolgendosi il cappotto intorno al corpo e rabbrividendo dal freddo.

«Allora?» chiede stizzita.

Continuo a guardare l'enorme e magnifica villa, «È questo il posto.» rispondo con la bocca completamente asciutta.

Subito prosegue sul vialetto di mattonelle. Deglutisco, riflettendo sul da farsi.

«Aspetta...» la trattengo per un braccio.

Si gira verso di me con aria interrogativa, «Aspettare cosa, esattamente?» mi scruta negli occhi, e finalmente, coglie il mio disagio. «Noel, siamo qui proprio per questo, ok? Vuoi delle risposte, giusto? Be', oltre quell'enorme porta lucida le troverai.»

Annuisco, cercando di infondermi coraggio.

«Allora andiamo» prosegue dritta verso le scalinate per poi fermarsi sotto al portico.

Guardo la balaustra di marmo, bianca anch'essa, mentre Maira suona il campanello.

"Tutto questo bianco mi fa venire la nausea."

Mi posiziono al suo fianco mentre aspettiamo che qualcuno venga ad aprire.

«Forse non c'è nessuno in casa» suggerisce, dando una sbirciata da una delle grandi e lussuose finestre.

«O forse abbiamo sbagliato indirizzo» obbietto.

La porta si apre facendomi scattare indietro, e ne fa capolino un viso.

«Chi siete?» chiede il tizio dall'altra parte, squadrando me e Maira coi suoi occhi scuri.

«I-io sono Noel Hayes, e lei è Maira Parrish.»

Un secondo di silenzio, mentre le sue pupille si alternano tra la mia figura e quella di Maira.

«Ah sì, adesso si spiega proprio tutto.» dice continuando a squadrarci divertito, «Ora, se volete scusarmi.» fa per chiudere la porta, ritirando dentro la testa.

Io la blocco appena in tempo, senza sapere nemmeno da dove mi esce tutto quel coraggio.

«Aspetta» lo richiamo con un tono un po' più alto del normale. Deglutisco vistosamente.

Il ragazzo torna a fare capolino con espressione annoiata.

«Stiamo cercando Alaric, Alaric Turner.» l'urgenza prevale nella mia voce.

Il suo sguardo si assottiglia mentre ci esamina, «Potevate dirlo subito! Avanti, entrate» spalanca la porta e ci fa cenno di entrare.

Io e Maira ci scambiamo un'occhiata insicura.

«Non ho tutto il giorno» dice spazientito.

Ci affrettiamo ad entrare.

«Grazie» gli sussurra lei, intimidita, mentre lui richiude la porta dietro di noi.

Mi guardo attorno strabuzzando gli occhi. Un gigantesco scalone dalle ringhiere di quercia lucida elegantemente intagliata si erge davanti a noi. Sopra le nostre teste pende un lampadario con gocce di cristallo, che deve costare a occhio e croce la mia intera stanza. Sulla destra uno stravagante arco nel muro conduce in quello che somiglia ad un salone. Dei dipinti dalle sottili cornici in ottone brunito sono appesi alle pareti color pesca. Guardo le mie scarpe, che spiccano logore sull'immacolato pavimento di marmo.

Il ragazzo ha l'aria di uno che si sta divertendo un mondo constatando il nostro sbigottimento.

«Io sono Matt Clennon.» si presenta.

Ha i capelli di un castano scuro, sparati qua e là, come se si fosse appena svegliato. Gli occhi scuri dal taglio sottile tradiscono un animo bonario. Ha gli zigomi alti e il viso squadrato, il naso è leggermente aquilino. Indossa una canottiera rovinata, che lascia intravedere degli accenni di muscoli, un tatuaggio sbuca dallo scollo. Porta un pantalone a vita bassa color cachi e ai piedi, ha degli stivali rigidi e neri.

Sembra quasi che sia pronto per andare a caccia.

«Cosa volevate da Alaric?» chiede incrociando le braccia al petto, appoggiandosi di schiena contro il muro.

Quell'aria colma di sarcasmo sembra non lasciarlo mai.

«Vorremmo fargli un paio di domande» è Maira a rispondere, con mia grande sorpresa. Deve aver accantonato la timidezza.

Lui socchiude gli occhi verso di lei, «Al momento ha delle mansioni importanti da svolgere, se volete potete passare-»

«Matt, che stai combinando?» una voce rigida, femminile, risuona sopra di noi, facendo sobbalzare Maira e zittendo Matt.

Una ragazza si affaccia al di sopra della scala. Spalanco la bocca.

È quella ragazza.

Mi fa un sorriso compiaciuto mentre scende le scale e si piazza proprio a una spanna dal mio naso.

I suoi occhi azzurri e severi mi scrutano divertiti. I capelli corvini e lisci con qualche dreadlock, le ricadono sulla spalla sinistra. Ha un naso dritto e minuto, le sue labbra carnose e rosee si schiudono come se volesse dirmi qualcosa. Noto che indossa un abito succinto nero e degli stivali rigidi col tacco che la fanno torreggiare su chiunque. Sulle sue braccia candide, spicca l'inchiostro nero di alcuni tatuaggi.

Mentre mi esamina con quel sorrisino ancora sulle labbra, poso lo sguardo su una cicatrice che le attraversa orizzontalmente la guancia sinistra.

"Sono... mercenari?"

«Ti stavamo aspettando» dice improvvisamente.

Scorgo un bagliore argentato provenire dall'interno della sua bocca. Deve essere un piercing alla lingua.

Fa scivolare i suoi occhi su Matt, un ammonimento velato impresso nelle iridi celesti.

«Che ho fatto ora?!» risponde alla sua occhiata, buttando le braccia in aria.

«Perché hai detto che Alaric era occupato?» ringhia rivolgendosi al ragazzo, posando le mani sui fianchi.

La sua bocca si increspa in un ghigno ribelle, «Volevo solo divertirmi un po', guastafeste

Gli occhi della ragazza si alzano al cielo, indispettita. Poi, si rivolge di nuovo a noi.

«Seguitemi».

Guardo Maira al mio fianco, che sta guardando a sua volta la ragazza misteriosa con occhi sospetti.

Sale le scale e io le sto dietro, seguito da Maira e Matt. Ha dei tatuaggi anche sulla schiena noto. Quella che sembra una scritta sulla spalla, e un altro che non riesco a vedere perché la spallina del vestito lo copre.

«Mi chiamo Ariadne» si presenta senza voltarsi, continuando ad ancheggiare mentre ci conduce attraverso un corridoio lunghissimo.

«Io sono-»

«So perfettamente chi sei.» mi anticipa lei.

«Già, a proposito di ciò volevo chiederti una cosa...»

Si blocca improvvisamente davanti una delle tante porte intagliate.

«Possiamo parlarne dopo, Noel.»

Pronuncia inaspettatamente il mio nome. Di solito, si attiva un lieve moto di fastidio quando viene pronunciato rendendo la "e" completamente muta. Eppure, quando esce dalle sue labbra, sono costretto a ricredermi.

Maira sbuffa infastidita, e se Ariadne l'ha notato, non lo dà minimamente a vedere.

«Entra ora, Alaric ti sta aspettando.»

Rimango un attimo intontito.

"In cosa mi sono cacciato, esattamente?" penso tra me e me.

Ariadne bussa alla porta e mi fa cenno di entrare con un sorriso caloroso che non raggiunge i suoi occhi. Sto per farlo quando, improvvisamente, blocca Maira che mi stava seguendo all'interno.

«Tu no, non dovresti nemmeno essere qui.» le dice in un tono che non ammette repliche.

Maira la guarda con astio e le spinge via il braccio. Apre la bocca per ribattere qualcosa, ma la fermo.

«Maira» si gira a guardarmi, lentamente.

«È tutto a posto.» 

 "E dopo ti dirò tutto".

Sembra cogliere quell'ultimo pensiero perché si ferma e lascia che la ragazza la conduca lontano da quella porta. Anche se, un po' controvoglia.

Ariadne si ferma per schioccare le dita davanti agli occhi di Matt, che era appoggiato al muro più in fondo e si stava rigirando qualcosa tra le mani.

«E lo stesso vale anche per te» ringhia, torreggiando sopra di lui.

Quest'ultimo mi fa un largo sorriso sornione e, prima di seguirle, mi mima un 'buona fortuna' con le labbra, alzando i pollici nella mia direzione.

Prendo un profondo respiro, per infondermi un po' di coraggio ed entro chiudendomi la porta della stanza dietro.

«Ho detto che sono occupato» tuona una voce.

Dietro ad una grande scrivania colma di carte e libri, scorgo un signore palesemente irritato mentre consulta qualcosa davanti a sé. Alza lo sguardo verso di me socchiudendo gli occhi. Cerca di fretta qualcosa sulla scrivania e nei cassetti, tirandone fuori degli occhiali da vista.

«Santo cielo! Tu devi essere il figlio di William.» esclama dopo averli indossati.

Sobbalzo quando sento il nome di mio padre.

«Quanto tempo!» distende le labbra in un sorriso, «Prego prego, accomodati pure dove trovi spazio.» aggiunge dopo un po', aprendo le braccia in un gesto che abbraccia tutta la stanza.

Io, che ero rimasto impalato davanti all'ingresso, mi guardo attorno con aria spaesata.

C'è una sedia di fronte alla sua scrivania, ma è completamente occupata da una pila di libri che sembra stia per cadere da un momento all'altro. Sposto lo sguardo verso un camino dall'aria antica, davanti, a qualche metro di distanza, si trova un divanetto, anch'esso occupato da documenti e libri. Ha tre librerie e sono tutte stracolme, sfido io che non trovi spazio per gli altri libri. Due sono disposte ai lati della scrivania, contro le pareti, l'altra è di fianco al divanetto antiquato.

Noto un mobiletto più piccolo e rovinato rispetto al resto dei mobili. Impilati sopra le assi ricurve dal peso, ci sono delle pile di barattoli contenenti quelle che sembrano delle erbe essiccate, tutte etichettate in una lingua che non riconosco.

"Dove dovrei sedermi?" penso perplesso.

«Credo che resterò in piedi» gli rispondo.

«Avvicinati pure allora, non mordo.» dice sempre sorridendomi.

Mi faccio avanti e lo esamino.

Ha lo stesso colore degli occhi di Ariadne, ma non il suo sguardo. Le sue folte sopracciglia gli donano un'aria rigida. I capelli sono brizzolati, porta dei lunghi baffi ed è vestito di tutto punto, da quanto posso vedere. Dovrebbe avere sulla cinquantina d'anni.

Caccio il sottile senso di familiarità che mi pervade e mi decido a presentarmi.

«Sono Noel Hayes, il figlio di William, come ha già detto lei.» dico in tono formale, «Avrei un paio di domande da farle.»

«Sì, immagino immagino.» ribatte lui pensieroso.

«Come conosce mio padre? E come fa a conoscere me?» gli chiedo subito.

«Mi chiamo Alaric Turner, ed ero un grande amico di tuo padre.» dice alzandosi in piedi, scrutando fuori dalla grande finestra dietro la scrivania.

Emette un lungo sospiro malinconico.

«Facevamo spesso i nostri viaggi insieme. Quante escursioni e quante scoperte...» prosegue in tono nostalgico.

Si volta verso di me, con espressione addolorata, «Rispondendo alla tua seconda domanda: io ero al suo funerale.» fissa i suoi occhi sulla scrivania.

«Sono molto dispiaciuto per la vostra perdita. William era un uomo che si poteva definire tale. Un'intelligenza unica e uno spiccato senso di ciò che è giusto o sbagliato.»

Stringo forte i pugni. 

Odio i sorrisi e le frasi di circostanza. Nel periodo in cui mio padre morì, ne avevo sentite fin troppe.

Eppure, quest'uomo, pare davvero sincero.

«Grazie, signore» rispondo meccanicamente.

«Suvvia, non chiamarmi 'signore', chiamami pure Alaric.» mi sorride di nuovo con gentilezza, facendo increspare gli occhi ai lati.

«Va bene, Alaric.» acconsento.

Sembra un uomo dai modi eleganti. Non riesco a immaginarlo mentre fa escursioni con mio padre, ma d'altronde, nemmeno lui era un tipo rozzo.

«Sorvolando i convenevoli, ti starai chiedendo chi siamo e cosa facciamo qui.» riprende lui in tono pragmatico. Le sue lenti scintillano mentre solleva il mento.

«A dire la verità, volevo che mi spiegassi queste.»

Estraggo dalla tasca la cartina e la lettera di mio padre.

Guarda quello che ho tra le mani incuriosito, così gliele tendo. Me le prende delicatamente dalla mano, poi si siede di nuovo sull'enorme poltrona girevole e legge, mormorando cose incomprensibili tra sé e sé.

Aspetto pazientemente e decido di lanciare altre occhiate intorno a me. I libri che piano piano stanno inghiottendo l'intera stanza, hanno perlopiù titoli in una lingua che non riconosco. Sembrano antichi e usurati, la pelle che ne ricopre i dorsi è rovinata in alcuni punti.

«Ricordo molto bene quell'anno...» sussurra improvvisamente.

«Quale anno?» chiedo, preso alla sprovvista per un attimo.

«Il monte Edith Cavell» precisa guardandomi fisso negli occhi.

Il mio stomaco si contorce. «Q-quindi, sai di cosa parlava nella lettera?» gli chiedo speranzoso e impaziente.

Lui aggrotta la fronte in un'espressione pensierosa, «Certo... Lucinda è ancora contro di noi, vero?» fa sventolare la lettera.

«Io, credo di sì.» faccio spallucce, «Ma, a cosa si riferiva mio padre?» insisto.

«È molto semplice Noel.» dice lui alzandosi improvvisamente in piedi. Viene a grandi passi verso di me, «Una leggenda risalente al 13.000 a.c. parla di una grande pietra sacra situata all'interno del monte. Questa roccia era venerata da tutte le tribù che ne erano a conoscenza.»

Sono sempre più perplesso.

«Vedi, io e William siamo andati ad esplorare i dintorni di quel monte e gli anfratti. Abbiamo scoperto per caso una nuova caverna, l'entrata è praticamente invisibile ad occhio nudo... sto divagando, scusa.» fa una breve risata, «Quello che voglio dire, Noel, è che l'abbiamo trovata. La grande pietra esiste.» annuncia esaltato.

Aggrotto la fronte, «Ma... tutto questo, cosa ha a che fare con me?» chiedo confuso.

Mi fa un gesto con la mano, spronandomi a tacere e a fargli finire il racconto.

«Vedi, si dice che uno Shaman delle tribù degli Algonchini, abbia toccato tale pietra durante un rito tribale, ed ebbe una visione riguardante il futuro. Secondo questa visione, il mondo sarebbe finito.» si ferma per un attimo, «e... che ci sarebbe stato un ragazzo nelle generazioni a venire, che avrebbe salvato l'umanità.» conclude.

"Non capisco", lo guardo interrogativamente.

I suoi occhi scintillano sotto le lenti.

«Quel ragazzo, sei tu.» 

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