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Capitolo 3

"And who by brave assent, who by accident
Who in solitude, who in this mirror
Who by his lady's command, who by his own hand
Who in mortal chains, who in power
And who shall I say is calling?"

Leonard Cohen - Who by fire

La testa è un unico fascio di dolore pulsante, che va da una tempia all'altra. Cerco un analgesico, ma non è nel solito armadietto del bagno.

L'unica stanza che rimane da controllare è quella di mia madre.

Il dolore è così lancinante da non permettermi di formulare dei pensieri coerenti. Con disperazione rovisto nella sua borsa, nel cassettone, sulla scrivania, nell'armadio, ma non riesco a trovare nulla che possa aiutare. Mi avvicino al comodino e apro il primo cassetto, ci sono solo un paio di libri e una custodia per occhiali.

Apro il secondo cassetto, pregando tutte le divinità esistenti di accorrere in mio soccorso; ed ecco la scatola di analgesici che cercava invano di nascondersi da me.

Le pupille puntano involontariamente su una lettera e, il nome del mittente, mi fa mancare un battito:

'Per Lucinda Hayes da William Hayes'.

La sua scrittura.

Rimetto tutto in ordine e, senza rimuginarci un attimo di più, prendo la scatola e la lettera con me. Torno nella mia stanza con passo fiacco, mi infilo una compressa in bocca e la inghiotto a fatica senz'acqua, questa rilascia subito una scia amara per tutta la gola. Con una smorfia poso la lettera sul comodino e mi sdraio sul letto, ad aspettare che il dolore pulsante mi dia tregua.

Mi risveglio nella mia camera, ormai è notte. Il mio sguardo scivola verso il comodino. La lettera è ancora al suo posto, ammicca come a sfidarmi a leggerla.

"Forse non dovrei impicciarmi negli affari di mia madre, e se fosse qualcosa di... privato?"

Il senso di colpa mi grava sulle spalle. Il pensiero della lettera mi tormenta anche a scuola, non riesco a fare a meno di pensarci.

Ho pensato di non dirlo a nessuno, nemmeno a Maira perché, molto probabilmente, mi spronerebbe a leggerla.

Passano esattamente quattro giorni prima che mi decida ad aprirla.

Sento il cuore pulsarmi nelle orecchie mentre apro la busta tutta spiegazzata, mia madre deve averla letta un centinaio di volte. 

Tiro fuori il foglio poco alla volta e si intravede subito una data:

- 26 giugno 2014, Canada-

È lo stesso anno in cui è morto. Prendo un profondo respiro e continuo la lettura.

- Cindy, credo di aver fatto una scoperta che cambierà le nostre vite.

Mi mancate tantissimo e, pensare che sono via solo da una settimana. Sei infuriata con me, lo so, non vuoi che nessuno metta in pericolo nostro figlio ma, Lucinda, è più importante di quello che credi.

Durante tutta la mia vita ho assistito a fenomeni a cui non so ancora dare spiegazione e lo sai bene anche tu.

È una cosa molto più grande di noi, una scelta che spetta solo al nostro Noel.

Pensaci bene, non possiamo tenerlo lontano dalla verità, ci resta poco tempo e lui deve essere preparato. Ne riparleremo quando torno, non vedo l'ora di stare al caldo con voi e di rivedervi soprattutto.

Ti amo tesoro, sempre.-

Raggelo all'istante.

Le mani sono scosse da tremiti incontrollabili. Metto quel foglio sbavato e macchiato di fianco a me, sul materasso.

"Ma che diamine significa?! Cosa mi stavano nascondendo? "

Le parole della lettera rimbombano nella mia testa.

Cosa c'entro io? Perché tutti questi segreti?

Non sono nemmeno sicuro che questa stessa lettera sia un'allucinazione. La stanza vortica pericolosamente attorno a me.

"Ok, calmati Noel. Respira."

Prendo la testa tra le mani e faccio dei respiri profondi ad occhi chiusi.

Uno...

...Due...

...Tre.

Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, qualcuno che mi dica che tutto questo non è reale.

Prendo il telefono e mentre scorro tra la lista dei contatti le mie dita tremano. Quando scorgo il suo nome clicco l'icona verde della chiamata, dopo due squilli arriva la risposta.

«Ehilà forestiero...»

La interrompo subito, «Maira puoi venire a casa? Devi darmi una mano con una... cosa» assumo un tono così piatto che impressiona perfino me.

«Ricevuto capitano, passo e chiudo.» Interrompe la chiamata, lasciandomi solo coi miei pensieri.

Nell'attesa rileggo di nuovo la lettera, per provare a capirci qualcosa in più. Magari ho mancato qualche passaggio.

Inutile, non trovo altre informazioni e il mio cervello si rifiuta di collaborare.

"Pericolo, una cosa molto più grande di noi, fenomeni a cui non so dare spiegazione..."

Che diavolo vuol dire tutto questo?

Perché mia madre non ne ha parlato con me?

Cosa ha trovato in Canada?

Il campanello suona, mi precipito di sotto prima che arrivi Chris e spalanco la porta d'ingresso con uno scatto.

«Eccomi, che succede? Hai la faccia tutta bia-»

La prendo per il polso, trascinandola nella mia stanza e chiudo a chiave la porta.

«Ok, Noel così mi spaventi, che stai combinando?»

Prendo la lettera da sopra il letto e gliela passo.

«Leggi questo.» le ordino, il tono completamente alterato, fuori di me.

Mi guarda un attimo interdetta, poi si siede sul letto e fa come le ho detto. Cammino avanti e indietro per la stanza mentre aspetto che finisca.

«Wow, roba tosta»

«Allora la vedi anche tu?» chiedo mentre sento salire un forte senso di panico.

Assume un'aria confusa, «Sì... sì, la vedo.» risponde lentamente.

Mi passo una mano tra i capelli, esasperato. Mi sento come un'animale in gabbia.

«Cosa ne pensi?» le chiedo, cercando di celare l'ansia crescente.

«Secondo me non devi essere troppo precipitoso. Forse, tuo padre intende... uhmm... la scelta del college?»

Impiego un po' di tempo prima di risponderle.

«No... no, c'è qualcosa sotto».

Ed è qualcosa di troppo grande, troppo intricato.

Ci riflette su mentre dà una seconda sbirciata alla lettera.

«Già, in effetti da come ne parla sembra qualcosa di grave... prova a chiedere a tua madre, no?» domanda ingenuamente.

Mi butto sul letto, il suo corpo sobbalza col materasso. Mi passo una mano sulla faccia mentre tiro un sospiro di rassegnazione.

«Ci ho pensato anche io, ma questa lettera l'ho trovata per caso. Lei non voleva che la leggessi... non posso fidarmi.»

Dirlo e anche solo pensarlo, mi fa provare una strana sensazione. Come uno spillo che preme sulla carne viva.

Stiamo seduti in silenzio a riflettere un po', poi mi viene in mente una cosa: lo studio di papà.

Ci deve essere per forza qualcosa lì. Deve avermi lasciato una qualunque cosa per spiegarmi che diavolo blaterava nella lettera.

L'unico problema, è che non riesco a stare in quella stanza per più di due minuti.

"Ok Noel, non sei un codardo, ce la devi fare. Devi farcela per forza."

Mi alzo e apro la porta della mia stanza con gesti meccanici.

«Aspetta! Dove vai?» mi urla dietro Maira.

Scendo le scale come in un sogno, ogni nervo è teso. Svolto l'angolo lentamente, fino allo studio. Fisso la porta per un'eternità, si ingrandisce, ondeggia, minaccia di inghiottirmi.

"Devo farlo prima che torni mia madre o che Chris mi scopra".

Metto la mano sulla maniglia, la stringo talmente forte da far sbiancare le nocche, prendo un respiro tremante e la abbasso. La porta si apre con uno scricchiolio, faccio un passo dentro. Resto lì, immobile, a guardarmi intorno; tutte le cose sono nella stessa posizione in cui lui le aveva lasciate.

Il mio sguardo, involontariamente, si blocca nel punto dove è successo.

C'è ancora una macchia scura. Mia madre ha provato a lavarla via dalla moquette, però è stato tutto inutile. Seguo con gli occhi il contorno scuro di quella chiazza.

Avverto dei passi felpati dietro di me, ma, continuo a guardare quel punto preciso con un'immobilità catatonica.

«Noel?» la voce allarmata di Maira mi fa sciogliere.

Mi volto a guardarla, in silenzio.  È strano vederla in questa stanza. 

Socchiude la porta dietro di se, poi si guarda attorno circospetta, stringe le braccia sul suo corpo artigliando con le dita i gomiti.

Ha l'aria tormentata.

«È qui che è successo, vero?» mormora lieve.

Contraggo la mandibola e strizzo gli occhi nella speranza che la stanza smetta di girarmi intorno.

"Respira."

«Sì» rispondo con un filo di voce.

Accorcia le distanze, con prudenza, come se potessi scappare da un momento all'altro. Mi prende il braccio sinistro, e smetto istantaneamente di respirare. Mi guarda negli occhi, i suoi esprimono una muta richiesta incagliata nel profondo delle sue pupille. Sta aspettando che le dia il consenso.

Invece sto zitto e continuo a guardare le sue mani, come se fossero due serpenti pronti ad attaccare. Sento la bocca secca, tento di deglutire il nodo di emozioni che mi chiude la gola.

Tira su la manica della maglia, molto lentamente dedicando tutta la sua attenzione a quel movimento. Osserva il mio braccio, le vene che creano un dedalo intricato di vie sotto la pelle. Poi, delicatamente, fa scorrere un dito per tutta la lunghezza della cicatrice.

Mi irrigidisco. Il suo tocco in quel preciso punto mi scuote dentro. Un brivido corre per tutta la colonna vertebrale, tutti i miei organi si stanno contorcendo, non riesco a staccare gli occhi dalle sue dita. Di riflesso vorrei divincolarmi, ma non ci riesco.

Sento il sapore metallico del sangue sulla punta della lingua, un velo di sudore freddo mi ricopre tutto il corpo.

Il mio cervello tenta freneticamente di scansare i ricordi che mi si ripropongono davanti agli occhi, inutilmente, perché lo vedo, vedo chiaramente quello che ho tentato di fare.

Non riesco a smettere di guardare.

Non riesco a smettere di vedere mia madre terrorizzata davanti a me, il mio nome invocato come una preghiera.

Mai come in questo momento, mi sono sentito tanto vulnerabile di fronte ad un altro essere umano, un guscio malleabile nelle mani di qualcun altro.

«Maira.» ringhio a denti stretti, un tono glaciale che nemmeno sapevo mi appartenesse.

Sussulta visibilmente, probabilmente per via della nota dura nella mia voce e solleva lentamente il suo sguardo nel mio.

«Vorrei solo aiutarti, questo... non sarebbe dovuto accadere.» sussurra accennando alla cicatrice.

Rimette la manica a posto e lascia andare il mio braccio. L'immobilità si spezza, l'aria fluisce di nuovo nei miei polmoni.

«Voglio che mi spieghi tutto» la risolutezza marca in profondità le sue parole e una strana luce brilla nei suoi occhi.

Mi trascina fuori dalla stanza, verso il giardino. I miei piedi sono di piombo, non riesco a stare al suo passo.

Non so se riuscirò a parlarne con lei.

Finalmente si ferma, si siede sull'altalena ormai preistorica e mi fa segno di sedermi sull'altra. Lo faccio, lentamente, lo stomaco ancora sottosopra.

Guardo il cielo, è grigio anche oggi, l'odore di pioggia impregna l'aria.

Sento le sue occhiate colme di aspettativa su di me solo che, non so cosa dire. Mi strofino il braccio, dove mi ha toccato poco fa, e riesco ancora a percepire la pressione delle sue dita sulla mia pelle, proprio in quel punto.

Rabbrividisco.

«Aiutami a capire cosa ti sta succedendo. Non mi hai mai parlato e non ti ho mai chiesto nulla riguardo a quello che avevi fatto. Tua madre mi aveva pregato di darti del tempo, perché non potevamo sapere come avresti reagito» rilascia le parole come un fiume in piena, «ora mi sembri pronto a parlarne, so che è difficile esternare le emozioni per te. Forse, invece di lasciare perdere, avrei dovuto spronarti.

Forse, se ti avessi fatto parlare di più, tu non...»

Aspetto che finisca la frase, ma non lo fa, guarda dall'altra parte.

"Siamo in due a non riuscire a dirlo allora".

«Ti stai dando colpe che non hai» dico in tono pacato.

Serra i pugni sulle catene dell'altalena, «Una parte di colpa è mia. Dovevo starti più vicina.» ribatte con convinzione.

La guardo incredulo, «Non sai cosa stai dicendo, non voglio che tu ti senta in questo modo».

Si dondola dolcemente spingendosi con le gambe, lasciando ricadere le sue mani in grembo. L'altalena produce un forte cigolio ogni volta che indietreggia.

«Però, è così che mi sento. Se vuoi che cambi idea allora devi parlarmi.» mi guarda da sotto le lunghe ciglia.

«Tu non vuoi sentirlo veramente.»

Mordo l'interno della guancia. Sono spaventato dall'idea di quello che può pensare di me.

Pianta i piedi a terra, di scatto.

«Invece sì! Tu non hai idea!» controbatte sgranando gli occhi verso di me, ed è subito furia.

Mi massaggio le tempie, cercando di mantenere la calma.

«Non alzare la voce, non sai di che parli e basta.» aggrotto le sopracciglia, esasperato.

«Sto solo cercando di proteggerti.» cerco di calmarla con queste parole, ma ottengo l'effetto contrario.

«Smetterò di gridare quando smetterai di trattarmi come una bambina! Basta fare l'egoista, parlami!».

A questo punto, perdo la pazienza e lascio andare finalmente le parole.

«Tu non vuoi sentire davvero che l'ho programmato per mesi, che ero insicuro su come e quando farlo. Lo programmavo addirittura quando ero in tua compagnia!

Tu non vuoi questo, e non è un peso che spetta portare a te!» le ringhio contro, con una fermezza quasi dolorosa.

Ha gli occhi lucidi a questo punto e subito mi pento di quello che ho detto.

«No che non voglio portare questo peso da sola, idiota!

Voglio solo dividerlo con te, così che non ti schiacci. E se sei così stupido da pensare che io sia troppo debole per sopportarlo, ti sbagli e ti sbagli di grosso!»

Mi sta gridando contro con tutta la sua rabbia, incolpando me e se stessa. Le lacrime scorrono copiose sulle sue guance proseguendo il loro tragitto fino al mento.

«Perché lo volevi fare? Perché volevi fare questo a me?

Sei l'ultima persona importante che mi sia rimasta in questo schifo di città e volevi abbandonarmi anche tu!

Sai come mi sono sentita quando l'ho saputo? Quando ho pensato il peggio?!

Sei stato un egoista e ora, voglio solo aiutarti affinché questo non accada più, ma tu... mi respingi.»

Ciò che dice mi coglie alla sprovvista.

Inumidisco le labbra secche.

"Non avevo idea".

Ci sono momenti in cui penso che le mie azioni influiscano solo su di me: il mio dolore è il mio e di nessun altro. Invece, questo si riflette sugli altri. E quando, ingenuamente, penso che abbia finito di mordere, ecco che trova altri modi e nuove forme per concretizzarsi, dilaniandomi dall'interno.

«Io non volevo... io... l'ho fatto solo pensando a me, non per abbandonarti Maira. Sai cosa sei tu per me, quanto vali.»

È giusto, è giusto che se la prenda con me, solo ora lo capisco. Avrei reagito allo stesso modo al suo posto.

È rimasta qui, ad aspettarmi per troppo tempo, ad aspettare una spiegazione, una risposta.

Risposta che indubbiamente merita.

Cerco di riprendere fiato prima di dirle tutto.

«Quando è morto mio padre, non volevo accettarlo... ci sono state le allucinazioni, le voci... poi, dopo tutto quello che è successo a te...» serro le palpebre per un momento, il mio modo per estraniarmi quando diventa pesante anche solo guardare il mondo.

«non volevo aggiungermi anche io coi miei problemi. Vedevo solo in bianco e nero, mi cibavo delle cose negative, forse... forse, per darmi la forza necessaria per farlo.» dico tutto questo mentre fisso le punte delle mie scarpe.

«Ho pensato di rinunciare.» la mia voce ora, non è più di un sussurro.

Rialzo la testa, fissando un punto in lontananza di fronte a me. Il vento si sta innalzando, una goccia mi cade sulla testa mentre aspetto che Maira interiorizzi ciò che le ho appena detto.

Mi viene in mente la mia prima seduta con la psichiatra, quando ero seduto nella sala d'attesa a sfogliare una rivista di ricette senza prestarle veramente attenzione.

«Noel Hayes?» chiamò la segretaria.

Poggiai immediatamente la rivista sul tavolino di vetro, feci un profondo respiro e raggiunsi la porta che la segretaria mi indicava. Era alle prese col suo computer e non mi degnava di uno sguardo, sarei anche potuto uscire dall'ingresso e forse mi avrebbe notato a malapena; ma, per mia madre, era davvero importante che affrontassi questa seduta, che almeno conoscessi la dottoressa per darle una possibilità.

Nello stesso momento in cui varcai la soglia, una donna si alzò da dietro la sua scrivania e venne a stringermi la mano.

«Noel, giusto? Molto piacere di conoscerti. Sono Pamela Collins.»

Mi fece cenno di accomodarmi su una poltrona in pelle dall'aria usurata, lo feci e mi guardai attorno. L'ufficio era asettico, nessun effetto personale. La libreria era piena di riviste di medicina e libri di farmacologia.

La dottoressa si appoggiò sullo spigolo della scrivania e mi sorrise con calore, aveva delle rughette attorno agli occhi, segno che fosse una persona allegra. Indossava un tailleur in stile professionale, era magra e sembrava molto più giovane di quanto mi aspettassi. Aspettò pazientemente che posassi nuovamente il mio sguardo su di lei prima di parlare.

«Allora, dimmi cosa ti ha portato qui oggi»

«Dovrebbe già conoscere la risposta» ribattei.

«Perché dovrei?» chiese con espressione genuinamente ignara.

«Non ha già parlato con mia madre?» strinsi gli occhi verso di lei.

«Mi ha accennato qualcosa, ma non abbiamo potuto parlare molto a lungo.»

«Va bene» risposi ancora dubbioso.

Ero entrato in quella stanza già prevenuto, col terrore che da un momento all'altro sarebbe arrivata una domanda trabocchetto a cui, se avessi risposto male, la psichiatra avrebbe premuto un'enorme bottone rosso con sopra scritto a caratteri cubitali: "Manicomio".

Anche se, la donna che avevo davanti non somigliava per niente a quella nel mio immaginario.

Sollevò le sopracciglia mentre la scrutavo, esortandomi a parlare.

Invece di farlo, tesi il braccio e alzai la manica.

«Lo hai fatto intenzionalmente?» chiese stringendosi le mani in grembo.

Non afferrai subito il senso della domanda. Per tutti era chiaro che lo avessi fatto io, ma lei, probabilmente, non si riferiva a quello.

«Penso di sì.» mi si seccò subito la bocca.

«Cosa vuol dire che pensi di sì?»

Mi presi un attimo prima di risponderle, «In realtà... non ricordo molto di quella notte»

«Capisco.» disse piano, prima di riprendere a parlare, «E ti era mai accaduto prima?» mi domandò apparentemente poco interessata.

«Mi sta chiedendo se tento di suicidarmi spesso?» le chiesi con un sorriso, sinceramente divertito da quella domanda.

Quella parola, in quel momento, mi uscì in modo facile.

Lei sorrise dolcemente, «No, ti sto chiedendo se ti succede frequentemente di non ricordare le tue azioni.»

«Ci sono stati degli episodi, sì.»

Annuì, una ciocca di capelli castana le ricadde sulla fronte. Non stava trascrivendo quello che le dicevo, cosa che mi incuriosì.

«Quando è accaduto?»

«Due giorni fa» risposi prontamente.

Aggrottò le sopracciglia per un momento, poi tornò a sorridere.

«Allora, raccontami solo quello che riesci a ricordare di quella sera.»

La sua domanda mi risuonò nella mente. Tante e tante volte, finché, non ricordai il soffitto dello studio di mio padre. Le travi di legno danzavano creando uno strano effetto, il braccio sinistro mollemente abbandonato sul mio grembo aveva perso completamente sensibilità, l'altra mano teneva stretto un coltello. Mi sentivo trascinare giù, ero così stanco da non riuscire a muovere niente, percepivo quel liquido caldo bagnarmi a poco a poco la maglia e i pantaloni, trapassare il tessuto e appiccicarsi alla mia pelle.

Poi, mia madre aprì la porta e mi trovò in quello stato, subito andò nel panico ma, i suoni erano come ovattati, mi sentivo leggero. 

Le immagini turbinavano di fronte a me: mio padre che mi parlava con pazienza, mia madre che con premura mi curava un ginocchio ferito, Chris che piagnucolava; Maira, che nonostante il marchio sanguinante impresso in profondità, continuava a sorridere. E, una chiamata nel pieno della notte, che portò mia madre ad entrare nella mia camera singhiozzando. Si sdraiò sul mio letto, mi abbracciò da dietro e mi sussurrò all'orecchio che papà se ne era andato, per sempre. Mi strinse forte contro sé mentre piangevo silenziosamente insieme a lei.

I miei occhi si bagnarono agli angoli, provavo a dirle di stare tranquilla, che tutto sarebbe andato per il meglio, ma rantolai soltanto. Poi, persi conoscenza.

E mi risvegliai in un ospedale.

«Va bene Noel, parliamo di altro.»

Non mi resi minimamente conto di quanto tempo doveva essere passato. Deglutii per sciogliere il nodo in gola.

«Tua madre mi ha accennato a delle allucinazioni.»

Ecco il pezzo forte.

«Sì» quella conferma mi uscì un po' strozzata.

«Vuoi parlarmene?» chiese sistemandosi una ciocca dietro l'orecchio.

Presi un respiro profondo, già preparato mentalmente a vederla schiacciare quel fatidico bottone rosso.

«Alcune volte capita che mi venga un mal di testa atroce, e spesso quello è il primo campanello d'allarme» aggrottai le sopracciglia, concentrato, «poco dopo vedo...»

Cercai di ripetere le parole che scorrevano nella mia testa, ma non volevano uscire. Serrai gli occhi e strinsi i braccioli della poltrona.

«Va tutto bene, Noel.» disse.

Subito mi calmai sentendo quel tono apprensivo.

«Generalmente, quando succedono queste cose provi un forte stress?» chiede piano, con la stessa tranquillità di prima.

Annuii, incapace di aprire bocca.

«Vedi Noel, è del tutto normale che tu veda o senta delle cose dopo quello che hai passato.» proseguì lei.

Le lanciai una lunga occhiata scettica, «Vuole dirmi che è normale vedere cose che non esistono?»

A quella domanda cinica sorrise con calore.

«Per chi ha subito un trauma, sì.»

Sbuffai, non riuscendo proprio a trattenermi.

«A tante persone è morto un genitore o anche entrambi. Eppure non vedo molti pazzi in giro.»

«Vedi Noel, il nostro cervello è molto complicato, reagisce nei modi più disparati nei confronti del lutto. La mia opinione è che stai solo cercando di elaborare tutto nel modo meno doloroso possibile. Inconsciamente, stai cercando di difenderti.» spiegò, gesticolando in modo professionale.

«Inoltre si può trattare anche di un accumulo di episodi traumatici. Il lutto di tuo padre, potrebbe essere una tra le tante cose che ti causano le allucinazioni.» sorrise rassicurante e strinse le mani in grembo.

Ci riflettei un momento, mentre lei attese che assimilassi ciò che aveva appena detto.

«Dimmi, ti è capitato di sentire anche delle voci?» proseguì.

«Delle volte, ma non capisco cosa dicono»

Feci girovagare lo sguardo fino alla finestra, quel giorno c'era il sole.

«In che senso non capisci che dicono?» domandò ancora, catturando nuovamente la mia attenzione.

«Sembra che parlino in una lingua che non conosco»

Per un istante le si dipinse sul volto un'aria confusa, corrugò le sopracciglia e i suoi tratti si tesero, l'attimo dopo quell'espressione sparì.

Fino a quel momento sembrava mi leggesse nel pensiero, ma dopo quell'espressione di confusione che tentò di nascondere, un misto di soddisfazione e paura si fece largo nel mio stomaco.

«Sei credente?»

Non me lo aspettai, e per poco non scoppiai a ridere.

«Non direi, no.»

Stette in silenzio per un attimo, semplicemente ad osservarmi.

«Quanto tempo fa tu e la tua famiglia vi siete trasferiti in America?» un lieve sorriso le incurvò gli angoli della bocca.

«Più o meno otto anni fa.»

«Ti trovi bene qui?»

«Non mi lamento.»

Sorrise alla mia risposta, continuando a scrutarmi in volto, poi, guardò l'orologio appeso alla parete dietro di lei, non lo avevo notato fino ad allora.

«La nostra ora è finita.» fece il giro della scrivania e prese a scrivere qualcosa su un foglio, lo strappò e me lo porse, io mi alzai e tesi il braccio verso di lei.

«Dallo a tua madre.»

Provai a leggere, ma non riuscii a decifrare la calligrafia della dottoressa.

«Cos'è?» le chiesi lanciandole uno sguardo interrogativo.

«Delle medicine che dovrebbero aiutarti col tuo problema. Potrebbero volerci dei giorni prima che facciano effetto, dipende sempre dal paziente.» disse continuando a sorridere, «Se vorrai prenderle saranno un grande aiuto. In più, vorrei organizzare altre sedute con te, per continuare questo percorso. Sempre se vuoi, sta a te decidere.»

Mi tese di nuovo la mano e dopo un attimo di esitazione, la strinsi.

«È stato davvero un piacere, Noel. Sono contenta che tu sia venuto.» mi disse con un grande sorriso.

«Grazie» risposi poco convinto.

«A che stai pensando?» mi domanda ora Maira, riportandomi al presente.

Scuoto la testa, «a niente».

Mi lancia un'occhiata scettica, ma non dice più nulla a riguardo.

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