Non credo ai suoi occhi
12
Due ore prima.
L'agente Adele Quaglietta sostò con l'auto di servizio nel parcheggio adiacente all'ospedale. Diede un'occhiata allo specchietto retrovisore e incrociò il proprio sguardo; sembrava stesse invecchiando di minuto in minuto e istintivamente portò le mani al viso, come se fosse bastato un piccolo sfregamento per cancellare la stanchezza dal suo volto.
A quell'ora della notte il parcheggio dell'ospedale di Sant'Omero era l'emblema della desolazione, scese velocemente dalla macchina e si diresse verso l'ingresso principale; era passata un'ora dal momento in cui l'ambulanza aveva lasciato la villa con a bordo la maggiore delle tre sorelle e Adele, che aveva fatto in tempo a vedere trasportare via Jennyfer per accertarsi delle sue condizioni, non aveva dubbi che in quel momento la ragazza fosse in sala operatoria. Prima di raggiungere quel posto, aveva fatto un salto in centrale per prelevare l'oggetto che ora premeva sulla tasca interna della sua divisa.
Mentre percorreva la hall principale, diretta al reparto chirurgia del terzo piano, sentiva crescere l'ansia per le condizioni di quella povera ragazza e per la sorella Noemi, consapevole del fatto che le ore successive ad un rapimento erano cruciali per il ritrovamento e che se non ci fossero stati significativi risvolti in quella faccenda, anche lei come Giorgia sarebbe svanita nell'oblio.
Uscita dell'ascensore imboccò un breve corridoio illuminato dalla luce tenue di alcune appliques. Superò un distributore che emanava un fastidioso ronzio e intravide la reception, composta da un bancone circolare sul quale era poggiato un Pc. Dei raccoglitori erano collocati ordinatamente su degli scaffali in legno che dividevano in due semicerchi la struttura lasciando un passaggio al centro, dal quale sbucò l'infermiera in turno quella notte.
Fu piuttosto sbrigativa e, tesserino identificativo alla mano, le rivolse poche essenziali domande: da quanto tempo la paziente fosse in sala operatoria, se avesse notato la presenza di qualcun altro in quel piano e quale fosse la stanza dove avrebbero portato la ragazza ad operazione terminata. L'infermiera riuscì a infastidirla rispondendo con voce atonica, masticando chewing gum e parole. In tutti i casi ottenne le risposte e si voltò verso la porta alle sue spalle.
La stanza era di circa quindici metri quadri, il letto era posizionato di fronte all'ingresso, al centro di una vetrata che ricopriva l'intera parete e che rifletteva le luci fredde delle lampade al neon.
Adele si accostò al mobile alla propria destra ed estrasse dalla tasca interna la scatoletta grigia. Ne aveva parlato con il suo capo e ovviamente lui non era stato d'accordo:
- Per quale motivo un giudice dovrebbe acconsentire a piazzare una telecamera nascosta nella stanza di una ragazzina in quelle condizioni?-, aveva obiettato il comandante Malnero.
- Non lo farebbe, infatti.
Il suo comandante l'aveva osservata con sguardo severo, attendendo che proseguisse.
- Non mi fido delle parole - aveva ripreso, - ... è come due anni fa, nessuno "sa di preciso", nessuno "ricorda", nessuno "ha visto niente". Allora sa cosa? Io non ascolto, io osservo. C'è qualcosa che accade ma che non viene raccontato intorno a queste tre sorelle. Questo figlio di puttana non rapisce a caso, ce l'ha con questa famiglia, se la prende con queste ragazze. E con Jennyfer non ha finito. E che Dio mi fulmini, non finirà quello che ha iniziato.
Uscì dalla stanza e si incamminò in direzione del distributore automatico; aveva saltato la cena e aveva voglia di caffè ma vide le poltroncine in sala d'attesa e preferì sedersi un attimo, per chiudere gli occhi e lenire il mal di testa che iniziava ad aumentare. Di Noemi si stava occupando il resto della sua squadra, non c'era altro che potesse fare in quel momento. Si chiese come mai le sedie di una sala d'attesa dovessero essere per forza così scomode, si domandò anche come mai gli ospedali fossero sempre dedicati a santi o altre figure religiose piuttosto che a luminari o uomini, ai quali ci si affida quando la propria vita o quella dei propri cari è appesa a un filo.
Prima che se ne rendesse conto, la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò.
***
Jennyfer si alzò da terra, come se quel corpo astrale avesse recuperato inspiegabilmente una sorta di consistenza. Il primo istinto fu quello di indietreggiare verso la porta e scappare, ma la tentazione di osservare se stessa, stesa su quel letto d'ospedale, ebbe il sopravvento.
Si aspettava di rivedere gli occhi sgranati e risentire quella voce orrenda uscire dal corpo che le era stato sottratto. Non accadde niente. Sembrava stesse dormendo e allungò la mano in direzione di un volto familiare ma nel contempo estraneo.
Avvertì quel tocco, poteva sentire sia la carezza leggera che le veniva fatta sulla guancia destra, che la sensazione sulle dita a seguito del contatto cercato con la pelle vellutata di un viso inerte.
- Se mai ne avrai modo, questa devi proprio raccontarla a Noemi - disse appoggiando una mano sulla fronte avvolta da una benda.
Quel pensiero servì a destarla e si ricordò delle ultime parole che le erano state rivolte e che avevano il sapore di una condanna definitiva.
Guardò la lancetta dell'orologio, non doveva essere passato neppure un minuto e dunque, se era vero quello che le era stato crudelmente riferito, aveva ancora poco più di mezz'ora, dopodiché avrebbe dovuto dire addio per sempre alla vita così come la conosceva.
Tuttavia quel pensiero non la spaventava, così come non era stata la paura la prima sensazione provata quando, pur non essendone ancora consapevole, aveva ripreso coscienza sospesa nel vuoto.
Forse era così che funzionava la morte, pensò; la paura dell'ignoto, della separazione dai nostri cari, del dolore che ci lasciamo alle spalle, sono fragilità legate alla condizione umana. Eppure...
Eppure non poteva abbandonare le sue sorelle con la stessa naturalezza con la quale, in quel momento estatico, sentiva di poter abbandonare la vita.
Quella smorfia, quando l'infermiera aveva inavvertitamente fatto vibrare quei fili di luce provocandole quelle visioni, la rabbia che quel mostro non era riuscito a contenere nonostante ormai l'avesse in pugno; dovevano nascondere qualcosa.
Allungò la mano verso quelle estensioni luminose che uscivano dal suo petto, con un dito sfiorò il flebile filo color cremesi e lo fece vibrare. La stanza intera cominciò a ondeggiare, con la stessa lenta intensità che aveva impresso sulla corda tesa. La fermò trattenendola tra il pollice e l'indice e la stanza smise di vibrare di conseguenza. Allora la tirò verso di se e quando avvertì la tensione al limite, la liberò.
La vibrazione fu così intensa da farle perdere l'equilibrio, la stanza riprese a sussultare violentemente: per un attimo era la camera d'ospedale, nell'attimo successivo era la casa abbandonata del Signor Chi.
Vide sua sorella Noemi, era terrorizzata, si stava allontanando da un ragazzino che sembrava spaventato quanto lei. Gli faceva cenno di starle lontana e mentre indietreggiava la vide voltarsi e correre in direzione delle scale, le stesse scale che aveva percorso Jennyfer, prima dell'incontro con quell'altro essere dalla forma umana, che l'aveva successivamente scaraventata da una finestra.
Jennyfer fece per seguirla ma si arrestò al suono della voce di quel ragazzino.
- Chi siete?
Jennyfer si voltò, sorpresa dal fatto che lui potesse vederla, ma subito riprese la sua corsa perché doveva raggiungere Noemi, doveva proteggerla dal Signor Chi.
Mentre percorreva quelle scale, si rese conto che lo scenario non era identico a quello che aveva visto quella stessa notte. C'era qualcosa di strano anche nel ragazzo che aveva appena lasciato alle proprie spalle, il suo corpo non era una proiezione astrale come lo era la sua, ma non sembrava neppure del tutto reale, non sapeva come spiegarlo. Anche il corpo di Noemi, che aveva potuto osservare per pochi concitati momenti, aveva qualcosa di innaturale.
Le scale cominciarono a sobbalzare, si appoggiò sulla ringhiera ma questa sparì nel nulla e cadde a terra sul pavimento in linoleum dell'ospedale.
La vibrazione era cessata, la corda color cremesi aveva smesso di oscillare. Si rialzò di scatto e si gettò sulla corda, la trattenne, la accostò a sé, la lasciò andare.
Dopo un attimo di vertigini si ritrovò di nuovo su quelle scale, si voltò verso il punto dove sapeva di aver lasciato il ragazzo ma questi non c'era più. Sentì un urlo, la voce di Noemi che squarciava quel silenzio irreale.
Raggiunse di corsa il piano superiore e la sua mente impiegò del tempo ad accettare che la scena a cui stava assistendo fosse reale.
Noemi a terra, sull'ultimo gradino di quella scalinata, stava vivendo inorridita il momento in cui il Signor Chi afferrava Jennyfer per scaraventarla con violenza oltre la finestra chiusa.
Non avrebbe mai voluto rivivere quel momento ma, ancor meno, avrebbe voluto far provare quel dolore a Noemi.
Tentò di abbracciarla, di proteggerla, la sua più grande paura era legata all'attimo immediatamente successivo a quel tragico istante perché neppure lei sapeva cosa sarebbe accaduto.
Quando realizzò di non riuscire a interagire con Noemi in alcuna maniera, si scagliò contro il Signor Chi.
Era a un passo dalla collisione, da quello scontro che aveva cercato sin dal giorno in cui si era portato via Giorgia. Ma, di nuovo, tutta quella rabbia venne racchiusa nell'urlo di dolore e frustrazione che le morì in gola. Quel non ora, che riecheggiò nella fredda stanza d'ospedale in cui era imprigionata e che nessuno ascoltò all'infuori di lei.
In quel frangente, in un'altra stanza di quello stesso edificio, l'agente Quaglietta era sveglia ormai da qualche minuto. Erano passate quasi due ore. Aveva preso quel caffè che era stato l'ultimo pensiero prima di addormentarsi.
Lo reggeva ancora in mano mentre, distrattamente, osservava la registrazione al fine di assicurarsi che la connessione fosse andata a buon fine.
Ci soffiò sopra e lo accostò alle labbra, quando la sua attenzione venne catturata dalla scena che stava osservando.
Non poteva credere ai propri occhi. Non poteva credere a quegl'occhi, spalancati, a quel sorriso inquietante che spuntava da delle labbra incolore.
Ingrandì l'immagine con un gesto delle dita sullo schermo: si muovevano, stava parlando.
Quando l'infermiera del filmato entrò nella stanza quel viso tornò immobile. Era un'interruzione intenzionale, non poteva essere una coincidenza. Ne ebbe la riprova quando l'infermiera fu nuovamente fuori dall'inquadratura.
Gli occhi spalancati con rabbia e le labbra, messe bene a fuoco al centro dello schermo, sembravano stessero rivolgendo proprio a lei quelle parole. Non sapeva leggere il labiale, ma quella domanda era la stessa che riecheggiava nella sua testa, era impossibile non afferrarla:
Dimmi cosa hai visto.
Fece per appoggiare il bicchiere di plastica contenente quel liquido caldo e fumante sul tavolino quando vide l'immagine muoversi e lo lasciò cadere sbadatamente, per diminuire l'ingrandimento e assistere al momento in cui il corpo di Jennyfer iniziò a torcersi e la sua bocca a spalancarsi in maniera disumana.
Corse verso la stanza della ragazza ma quello che avrebbe davvero voluto fare era svegliarsi. Perché, ne era certa, ciò a cui andava incontro in quel momento, era solo l'inizio di un incubo spietato.
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