15. un altro cane
Scusate l'attesa, spero ne valga la pena.
La prima volta in cui ho avuto paura di perderti sapeva di piscio rancido. Io avevo tirato la corda tutta la sera, eppure tu sembravi pronta a mettermi le ginocchiere non appena rischiavo di cadere.
Mi guardavi da lontano, cercando di conoscermi meglio, mentre le sigarette di Barbara ti facevano la corte. Io ero attenta a dove mettere i piedi per fare una buona impressione su di te, finché la corda s'è sfilacciata e tu, che non ci avevi davvero pensato, ti sei sbucciata le ginocchia al posto mio.
Se ci ripenso meglio, di quella sera ricordo solo gli odori: il tuo, buono, e quello stomachevole delle pareti del bagno. Poi l'odore sterile del vuoto allo stomaco mentre ti scorgevo andare via dietro i ricci di Barb. L'idea di averti persa era rimasta ad accarezzarmi la guancia per un po', come fanno le mani dei passanti con i cani che gli si avvicinano. Io ho accoccolato lo zigomo contro di lei e prima che potessi farci l'abitudine, quella era già andata a far felice un altro cane.
-L
Giovedí, 23 Luglio
Il ventilatore fa un rumore piacevole mentre agita le pale. Somiglia tanto a quel ronzio che sento prima di addormentarmi e non ha niente a che vedere con il baccano che fanno le zanzare.
"Ti lascio l'ultimo pezzo?"
Sbatto le ciglia come se fossero ali e mi accorgo di aver lasciato la stanza da qualche minuto. Federico sorride sotto i baffi alla francese e allunga la lingua per ficcarsi la punta della fetta in bocca. Mentre mastica, il pomodoro gli esce un po' dagli angoli delle labbra.
"Ci stai ancora pensando." dice con tono compiaciuto. Adesso vorrei che me lo avesse chiesto, invece di esserne così sicuro.
"Forse."
Mi accoccolo contro il palmo della mano e lascio sprofondare la testa sul cuscino. Federico si pulisce i polpastrelli con alcuni tovagliolini di carta, beve dalla lattina e sposta il sedere un po' più avanti sulla poltrona.
"Beh, io ti avevo detto di evitarla e tu torni dicendomi che avete avuto il tempo di limonare e di dirvi addio." -incastra le mani tra gli spazi delle dita- "Non vorrei dire te l'avevo detto, ma.."
Alzo gli occhi al cielo, chiedendogli se stia facendo sul serio, se la paternale è tutto ciò che può offrirmi ora, e lui allarga le braccia dopo essersi cacciato un altro pezzo di bufala in bocca. Le pale del ventilatore gli smuovono i capelli sulla fronte e gli appiccicano una metà della camicia contro il fianco, mentre l'altra cerca di volare via.
Che strano, Blu.
Sembriamo io e te.
Tu che mi rincorrevi, io che scappavo.
E adesso, forse, abbiamo invertito la corsa.
Affondo il viso sulla fodera a pois del cuscino, prendendo coscienza del fatto che non riesco a smettere di pensare a che sapore aveva l'ultima sigaretta che le ho fumato di fronte. Il vapore le entrava negli occhi facendoli lacrimare quel poco che bastava per farmici specchiare sopra e io mi vedevo bella, come non lo ero mai stata. Lei, invece, era bellissima.
"Ascolta, Ludo." -mi richiama- "Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che ti ripeta quanto sei stata brava a non lasciarti incantare da lei o vuoi che ti dica la verità? Perché non credo di essere qui per questo."
Rimango tesa mentre respiro ogni sua lettera, fino a scoprire una metà del viso alla luce per dire: "Sei qui perché mi fa piacere stare con te."
Federico allunga il collo mentre finisce l'ultimo sorso di birra. Il pomo d'Adamo gli va su e giù.
"Sai che ascolto solo quello che voglio ascoltare, Ludo, ma le voci girano da un po' e io non posso continuare a fare finta di niente, specie se tutti pensano che non so tenerlo nei pantaloni." -inspira- "E penso che pur di passare per la troia di turno, saresti uscita con il tuo peggior nemico, ma tu non hai nemmeno quelli qui. Quindi non venirmi a dire che preferisci una serata con un vecchio che puzza di carta stampata piuttosto che uscire con qualche ragazzo."
Alzo un sopracciglio e trattengo una risata mentre lui boccheggia e diventa tutto rosso.
"O-o ragazza. Insomma.."
Federico s'alza in piedi gesticolando in maniera confusionaria e mi dá la schiena per nascondere le gote arrossate. Da qui vedo che i muscoli gli tirano i fili della camicia mentre lui porta una mano alla fronte e respira per far uscire il caldo dalla pelle. Quando rilascia un soffio profondo, gli torna la gobba.
"Mi ci devo ancora abituare, scusa."
"Non fare il cretino, Fede. Non devi chiedermi scusa."
Lui, per il momento, non sembra volersi girare e mentre aspetto che si pulisca le lenti sull'orlo della camicia, ritorno con la guancia contro il cuscino. Adesso, che lo guardo per orizzontale, le sue gambe sono ancora più magre e i piedi più lunghi dentro le Saucony un po' sbiadite. Mentre si affaccia alla portafinestra, capisco che non ha più voglia di parlare, perché i brutti pensieri gli hanno avvelenato la mente: so che si sta sentendo in colpa. In colpa per aver tradito mio padre e aver preso il suo posto.
"Pensi che abbia sbagliato?" -gli domando ancora, anche se in realtà prima avevo solo usato uno sguardo- "Sii sincero, non voglio fare pena a nessuno."
Federico infila le mani in tasca e allarga un po' le gambe, assorbendo tutto il sole delle che passa tra le tende.
"Non lo so. Pensi ancora che lei sia un modo per allontanare la Ludovica che ha creato tuo padre?"
Sei incazzato, Fede?
Incazzato per non avere una famiglia ed essere finito al posto di Sergio?
O mi stai solo aprendo gli occhi con la punta delle dita?
"Perché me lo chiedi?"
Lui alza le spalle e spinge la montatura lungo il naso. Decido che tutto questo ingoiare la foglia mi stanca e verso un po' della sua birra sulla conca che crea la mia lingua.
"Sai, nessuno si guarda molto addosso e sono sempre gli altri che devono farci capire come siamo." -mormora grattandosi la nuca nel punto in cui ha una vertigine- "Tu tiri sempre la corda, Ludo. Quando qualcosa comincia a piacerti, o pensi che dovrebbe farlo, la cacci via, le chiudi la porta in faccia a prescindere, perché ti ricorda che un tempo anche a te piaceva essere come ti voleva lui."
C'è un attimo di silenzio e io lo riempio versandomi un intero bicchiere di schiuma. La lattina goccia a testa in giù le sue ultime bollicine e io immagino d'essere al mare, lontano da tutto questo.
"È come se pensassi che tutto quello che ti piace, in realtà piaccia all'ombra che lui ti ha lasciato dentro."
"Smettila di parlare come un libro, Fede."
Lui tira fuori una mano dalle tasche per accendersi una sigaretta e a me viene da svuotare lo stomaco sopra i piedi nudi che poggiano sul linoleum. Sono giorni che non riesco a fumare del vero tabacco, nè a sentirne l'odore, ma Federico questo non lo sa. Così aspetto che quel pezzo di carta diventi rosso per ficcare le narici dentro il bicchiere e impregnarle di malto.
"Sei tu, Ludo, fai così da sempre. Perché diavolo non dovresti avere degli amici decenti, mh? Che ti manca?" - appanna il vetro parlandoci contro- "Perché sei sempre sola? E perché cazzo passi le serate con un Federico qualunque?"
Aspetto finchè la vena del collo non smette di pulsargli in superficie. Ogni volta è la stessa storia: lui che si arrabbia cercando di farmi capire come gira il mondo e io che volto la testa dall'altra parte, come se per me tutto, in realtà, rimanesse fermo. Federico soffia dalle narici.
"Non sei una brutta persona, Ludo. E' solo che lo fai inconsapevolmente." dice come se stesse pregando.
Io non riesco a fare altro se non ricordare che era stata lei la prima a dirlo.
"Quindi sono una brutta persona, ma inconsapevolmente?"
Incrocio le gambe sopra il sofà e sposto i capelli dai lati del collo. La sua sagoma, da dietro, scuote la testa in maniera meccanica, con i muscoli sciolti come cera.
Forse hai sfibrato anche lui.
Forse sei una brutta persona e basta.
Sento il cuore che accelera a colpi di tamburo, governati dai miei sensi di colpa che arrivano con la stessa periodicità delle mestruazioni. Federico pulisce ancora gli occhiali e io mi chiedo cosa voglia vedere da quella finestra che dà sui cassonetti del ristorante indiano sotto casa. Lo studio mentre ripete ogni mossa due, tre volte, calzando sul bordo rotondo delle lenti, come se volesse fare attenzione a quello che sta ai margini della vista, a quello che si nasconde.
Solo ora ripenso che lui ha quasi vent'anni più di me, che ho i fantasmini infilati male e un caschetto che mi fa schifo, che voglio correre sui tacchi e mettere il rossetto senza sbafare mentre puzzo ancora di latte.
Dovresti rispondermi, sai?
Dire che non dovrei metterti in bocca parole che non dici, cose che non pensi.
Ma ormai hai perso le forze a combattere con chi non ha il coraggio di essere tua figlia a tutti gli effetti.
Lo so, lo so. Tu scuoti la testa e sospiri come se mi stessi parlando e io stessi capendo. E un po' lo faccio, giurin giurello.
Mi faccio aiutare dalla birra a pensare meglio, che sa di cose che hanno avuto il tempo necessario per fermentare e maturare. Mando giù un sorso e ripenso a Davide: non ne ho mai parlato a Federico, ma anche con lui avevo tirato il freno a mano prima di accendere l'auto.
"Mi piace." -pigolo con tono strozzato- "Davvero."
"E cosa ti piace?"
Aspetto che lui si rinfili gli occhiali e torni a scrutare la strada. Non ha mai guardato il cielo da quando è lì a riflettere la sua ombra sul parquet e le mie pupille si stanno incominciando ad adattare a quel filo di luce che rimane.
"Non lo so, com'è fatta. Ti innamori degli occhi, del modo in cui una persona sorride." -dico, senza davvero pensarci- "E poi è vera, Fede. Molto più di quanto possa esserlo io."
Federico si stiracchia un po' e alla fine poggia le mani sui fianchi. Io aspetto una risposta con il piede che fa su e giù, ma so già che lui ha i suoi prolungati tempi di pensiero. So anche che dovrei imitarlo più spesso, ma le pale del ventilatore continuano a distrarmi come se avessi quindici anni e fossi ancora a lezione.
Inizio a sudare, forse lo stavo già facendo, e la lingua non smette di bagnare le labbra che si seccano. Allungo la mano verso il tavolino, afferro il pacchetto. Poi lo rimetto a posto.
"Allora credo che ti stai attaccando a qualcosa di forte, Ludo."
"E cosa?"
Federico solo adesso alza il naso verso il sole. E' ancora girato, non riesco nemmeno a vedere se tiene gli occhi aperti o chiusi, ma so per certo che sta sorridendo a labbra unite.
"Il perdono." sussurra.
Ci penso, sento le orecchie che fischiano. Il pacchetto è ancora lì, anche se adesso sembra girare insieme alla stanza, e io gli rubo una sigaretta col respiro fermo in mezzo alla gola. Solo col fumo, insieme a due o tre preghiere, ricomincio a prende fiato.
Federico annusa l'aria che cambia e mi chiede qualcosa in tono sarcastico, ma io non riesco a sentire niente se non quella parola. Perdono. Il perdono verso mio padre.
Stai cambiando, stai lasciando le tue paure.
Stai diventando quello che volevi essere.
No, non chi volevi essere.
Quello che volevi essere: altro fuori di lui.
"Ludo."
Strizzo gli occhi: il fumo se ne va e Federico mi sta di fronte. Ha ancora una mano sul fianco, mentre l'altra indica il corridoio, verso la porta di casa.
"Guarda là."
Sotto al portone, accanto al poggia-ombrelli, una busta giallo poste.
[...]
Domenica, 26 Luglio
<< Non chiedo scusa spesso. Anzi, a dirla tutta, non lo faccio quasi mai. Preferisco che siano sempre gli altri a farsi i loro esami di coscienza, perché so già che io non ho il coraggio giusto per ammettere che qualcosa mi spaventa. E qui dentro, tra le altre cose, c'è il pensiero di aver sbagliato e ci sei anche tu.
Non voglio chiederti scusa, perché non lo faccio mai, ma voglio che tra le tante cose, oltre a te e agli sbagli, non ci sia il rimpianto di non averci almeno provato.
Ho pensato ad alcune cose quella sera, mentre la tua amica cercava di capire e io fingevo di non saperlo. Non ero nell'umore giusto e la maggior parte di loro aveva una brutta faccia. Qualcuna aveva la tua e io non sapevo che farne. Me le sono girate tra le dita della mano mentre scottavano la pelle. Ho risentito addosso tutti i baci che ti ho strappato e il fiato delle parole che mi hai detto.
Sai, forse ho sbagliato, in qualche strano modo che non capisco, e anche se non sono qui per ammetterlo, penso che tutte quelle cose che non mi hai detto, tutte quelle paure che non ti ho fatto vedere.. Loro non hanno niente di sbagliato.
La mia camera dà ancora sul finestrino della tua macchina, ma solo nella mia testa.
È stato bello, Ludo. Qualsiasi cosa sia stato. >>
Giro la busta tra le pieghe delle mani, coprendo quella macchiolina di pomodoro che ha lasciato Federico mentre la raccoglieva da terra. Ci aveva soffiato sopra, come se potesse aver preso la polvere in quei dieci secondi che aspettava lì, sola, figlia di nessuno. Ci eravamo mossi lenti, perchè è questo il brutto delle cose che ti sorprendono: bloccano sempre tutto mentre ti chiedono di essere sveglio. Così, quando avevo aperto la porta di casa, c'era solo un raggio di sole riflesso sullo zerbino di benvenuto.
"Siamo ancora io e te" penso accarezzando il volante. Immagino come sarebbe bello se l'auto mi parlasse, se potesse decidere per me: a quest'ora saremmo già nel garage di casa mia ad evitare un altro errore da matita rossa. Invece lei tossisce un po' di polvere e lascia un piccolo spazio sul finestrino che dá verso la sua camera.
Il mio viso contrito si riflette nitido sullo specchietto retrovisore e m'accorgo un po' alla volta che gli occhiali mi vanno grandi con questo nuovo taglio.
"Sono io, aprimi."
Tendo l'orecchio verso il palazzone ruggine che mi fa tanta paura. Ai suoi piedi, a due passi dalle aiuole, c'è un ragazzo che salta sul posto e stringe le cosce per trattenere la pipì.
I
n un attimo, riesco a vedere il colore dei suoi occhi scurirsi mentre gli chiedo di aspettarmi.
"V-vado.. Al secondo piano." boccheggio col fiatone, cercando di tranquillizzarlo.
Lui mi scruta dalla testa ai piedi, anzi, dai piedi alla testa, smettendo di saltellare e aprendo ancora di più le sue ciglia lunghe.
"Vai dalla Cristina?" chiede con lo stupore nelle guance. Mi maledico per aver sbagliato piano, con lo sguardo fisso sulle sue mani gracili che chiudono sempre di più lo spazio ai visitatori indesiderati.
"No, io.." -m'affretto, perdendo lucidità- "A-aurora. Vado da Aurora."
Che strano.
Sentire il tuo nome in bocca sa ancora della tua saliva.
Il ragazzo raddrizza la schiena, sorridendo come se fosse felice di non dovermi sbattere la porta in faccia, e apre l'uscio ostentando delle movenze da galantuomo che mi mettono di buon umore.
"Che fai? Non prendi l'ascensore?" domanda, sporgendosi oltre le porte quando mi vede camminare via.
"Sono solo un paio di scale."
Lui alza le spalle e mi saluta con la mano: le sue orecchie a sventola scompaiono con il rumore dell'elevatore, che sale fino ad uno degli ultimi piani del palazzo.
Salgo in punta di piedi e in punta di cuore, chiudendo i polmoni per impedir loro di svuotarsi. Il campanello è ancora in basso a destra, ma questa volta, mentre lo faccio suonare, chiudo forte gli occhi. Forse sto ancora sognando sul sedile della mia macchina.
"Un attimo!"
Quando sollevo le palpebre, m'invade una strana luce a macchie. Strizzo gli occhi per vederci meglio e m'accorgo che il sole che entra prepotente dalla parete giù fondo colpisce la schiena della sagoma che mi sta davanti, bagnandola di chiarore.
Ci metto un po' per capire che Gaia sta spalancando la bocca. Le sue dita sono ferme sulla maniglia e le cuffie che ha al collo fanno un casino assurdo adesso che affoghiamo nel silenzio dell'imbarazzo.
"Ciao." so solo dirle.
Lei si umetta le labbra e manda giù un po' di saliva, come se sapesse che non sarei dovuta essere qui ora, come se conoscesse davvero tutto quello che mi spaventa di sua sorella e dei suoi occhi che sanno cambiare colore.
"Auro è di là che studia." -pigola, cercando un posto comodo dove mettere le mani, come se non fossero umane e le dessero fastidio- "Vuoi che te la chiamo o.."
Mi fermo per un attimo – forse troppo – a guardare come gli zigomi le tirano il viso giovane. Le guance, la fronte, il mento, le orecchie: tutto segue il corso degli occhi che si stendono dall'incapacità – e forse dalla tediosa malavoglia – di dover per forza gestire situazioni come questa.
Gaia sposta un riccio corvino dalla fronte e io mi disincanto.
"Vado io."
Le ci vuole qualche secondo per capire e per invitarmi dentro. Il salone è molto più grande di quello che ci si aspetta da fuori e tutto, dai divani di tela grigia alle candele e alla TV a LED, trova un suo spazio preciso nel maniacale ordine generale. Mi perdo a studiare i mobili bassi e bianchi che non portano un filo di polvere addosso, le tende che si muovono appena, i quadri alle pareti. Per un attimo mi sembra di riconoscere gli stessi occhi di Aurora in quelli di un signore baffuto vestito da militare, finché Gaia decide di liberarsi dell'angoscia che le stringe il cuore.
"Ti faccio vedere dov'è la camera."
La vedo marciare al mio fianco, con la testa bassa e quelle cuffie grandi almeno quanto la sua testa. Seguo il profumo di pulito che lasciano i suoi calzoncini corti e il silenzioso sfrigolio che fanno i calzini sul pavimento lucidato. Tutto immobile, tutto ordinato, come se qui non vivesse nessuno in grado di respirare. In fondo al corridoio, prima di sbattere contro il muro, Gaia si ferma e ruota su di un piede per riflettere la sua sagoma sulla porta di legno a sinistra.
"È qui." bisbiglia.
Annuisco e lei apre senza nemmeno bussare.
Me l'aspettavo diversa, sai?
Ho sempre immaginato che avessi coperto la pareti con i tuoi disegni strani, con tutte le fisse che mi nascondi, con tutti gli orecchini che cambi.
E invece eccola qui: spoglia, minima, fredda, che non sa di te.
Con quel grande armadio bianco e la lampada ciano sopra la scrivania, le ciabatte ai piedi del letto e un quadro di famiglia dove non sorridi veramente.
"Te lo dico per l'ultima volta, non mi frega un cazzo se mamma e papá hanno preso la macchina, la mia non si usa."
Mentre Gaia scuote la testa, la sua voce mi giunge ingrandita, forse perché sbatte contro la parete a cui è poggiata la scrivania. Lei non può vedermi, non finchè rimane di spalle, china su un libro che starebbe bene solo dentro un falò, e io mi prendo il mio tempo per scoprire che niente è cambiato, che i capelli le arrivano ancora sotto le scapole e che hanno il colore del grano scuro.
"E chiudi questa cazzo di-"
Bingo.
La sedia girevole si blocca non appena Aurora impunta i piedi nudi a terra. La colonna gli si raddrizza tutto d'un colpo insieme al naso e i suoi occhi trovano subito i miei.
No, non è cambiato niente.
Hai ancora la bocca bella e gli occhi buoni.
Faccio un passo indietro, quasi impercettibile, ma lei sembra accorgersene e il suo sguardo tradisce una paura che sa di abbandono. Così, con mezzo sorriso, porto le scarpe in avanti. Lei pare tranquillizzarsi e si allunga sulla sedia, ma ha gli occhi un po' più legnosi e stanchi.
"Io me ne vado, ma grazie lo stesso delle belle parole, Malefica." borbotta Gaia prima di chiudere la porta dietro di sè.
Ora che siamo solo io e lei, sento freddo alle spalle, come se qualcuno avesse portato l'inverno con i suoi temporali tra queste quattro mura che battono i denti e vorrebbero piangersi addosso. Mi sfrego le mani per un po' gettando un'occhiatta alle pareti e il silenzio inizia a creare una certa tensione elettrica. Aurora è ancora lì seduta che non abbassa lo sguardo: adesso non riesco a leggerci niente.
"Perchè ti chiama Malefica?" le chiedo sorridendo un po'.
"Non pensavo saresti venuta."
E mentre lo dice, il suo corpo si fa piccolo e curvo, come se qualcuno lo avesse sgonfiato. Forse è uscita qualche paura.
"Io..", io non ci avevo davvero pensato e così faccio un passo in avanti per prendere tempo, chiedendole di sedere ai piedi del letto.
"Fa come fossi a casa tua" risponde con gli occhi.
"Non ti facevo una da lettere."
"Non hai ancora risposto alla mia domanda."
"Non mi hai fatto nessuna domanda."
Aurora ci pensa su, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un secondo. Non riesco a capire se è incazzata o solo delusa: in qualsiasi caso, avrebbe ragione.
Sospiro, alzando gli occhi al soffitto chiedendo di far piovere le parole giuste.
"Non lo so, Auro. Serve davvero saperlo a questo punto?"
Lei ci pensa su ancora una volta e lo fa nel modo in cui di solito pensano i cani randagi che hanno preso troppi morsi e ne hanno abbastanza di farsi fregare da tutti.
"Non lo so, dimmelo tu."
Lo so, giuro che lo so.
Starai pensando che per me è stato facile metterti dentro una macchina qualsiasi e portarti via come se fossi una bambola.
Ti starai chiedendo chi sono, la sigaretta che fuma ancora nel bagno del Blanco o la Merit che ti ho offerto la prima volta che ti ho riportata a casa.
Ma spiegarti chi sono non è così facile. È più facile che tu mi spieghi cosa hai capito di me.
"Ascolta.." -cerco di dirle, prima di vederla troppo distante- "Puoi..?"
Batto la mano sul materasso e lei mi accontenta, non senza aver lasciato andare un sospiro.
"Ci ho pensato molto in questi giorni e non so se tu possa capirmi o meno, ma è il meglio che sono riuscita a tirare fuori dal casino che ho in testa." -le spiego, prendendomi i miei tempi e respirando ogni tanto un po' del suo profumo- "Vedi, fino ad oggi è come se avessi vissuto come un gas, come qualcosa che se ne vola via, cercando di scappare dal contenitore che mi aveva affidato mio padre. E beh, all'inizio ci stavo davvero bene dentro. La vita da milionaria mi piaceva. Mi piaceva vantarmi, mostrare quello che avevo, soprattutto quello che avevo in più rispetto agli altri. Ma, sai, con il tempo si cambia. Da piccolo i giochi sono i tuoi migliori amici e quello che hai importa più di quello che sei. Poi cresci e ti accorgi che ti sbagliavi, che non ci avevi capito un cazzo, perchè in realtà ciò che conta davvero è quello che senti e quello che vuoi diventare, chi vuoi essere. Sai giá come è andata a finire con mio padre per questo e beh.. Avevi ragione."
Solo adesso, dopo aver svuotato l'intestino, sporgo gli occhi dal balcone per guardare nei suoi, che si sono fatti piccoli piccoli. Quello che riesco a vederci meglio è il cuore che batte forte.
"Ragione su cosa?"
"Su tutto. Sugli schemi e sul fatto che non ne vale la pena."
"Non capisco."
Aurora aggrotta la fronte e stringe piano le labbra, incrociando le caviglie. La gonna le è salita lungo le cosce e io sento il sangue che si coagula in tutti grumi.
"Per tutta la vita ho cercato di evaporare, di volarmene via." -ricomincio, come se fosse l'unico modo in grado di farmi capire- "E sono diventata così, insensibile agli altri per paura di avere un nuovo recipiente che mi costringeva ad adattarmi alla sua forma. Ho iniziato ad avere paura delle aspettative e dei giudizi, perchè cercavano in tutti i modi di etichettarmi come aveva fatto mio padre. Poi sei arrivata tu. Mi hai fatto capire che per quanto io ci provi, non riuscirò mai ad uscire dal contenitore in cui sono nata, che certe cose ti restano dentro, nei gusti, nei modi, nei pensieri, nelle opinioni su dei film del cazzo. E poi mi hai detto che continuare ad evaporare via non ne valeva la pena, perché non solo non sarei riuscita a farlo del tutto, ma soprattutto perché non avrei vissuto come volevo."
Solo adesso, che Aurora fa scivolare le sue dita sporche d'inchiostro sulle mie, mi rendo conto di aver abbassato lo sguardo. La sua mano è morbida e un po' sudata ma a me fa bene come una carezza al cuore. Le guardo gli occhi buoni che non hanno mai voluto fare del male e penso che niente di tutto quello che posso rubare dalla sua testa e dal suo corpo possa mai avere dei rimpianti.
"E ora? A che pensi?" mi chiede mentre gli occhi le diventano blu acqua marina.
"Non so, forse che siamo fatti d'acqua e che è nella nostra natura adattarci a dove nasciamo. Io ho abitato nel contenitore di mio padre, in quello di Davide e qui, a Firenze." -respiro- "Ora vorrei lasciare un po' di quella parte nella bacinella col tuo nome."
E adesso che ricordo com'è posare la bocca su qualcosa che cerchi la notte, mi riviene in mente Federico e le sue Saucony grigio rovinato.
Avevi ragione, Fede.
Mi sto aggrappando a qualcosa di forte.
Ma temo che non sia il perdono.
Aurora mi sorride sopra i denti e fa passare le unghie tra i miei capelli, dietro la nuca, sopra le orecchie, finchè il pollice finisce per dividerci. Sta scivolando sulle mie labbra come un cieco.
"Ora me lo dici perché Gaia ti chiama Malefica?"
Lei scuote la testa e mi bacia fino a togliermi il fiato.
"Non ho mai voluto essere la Bella Addormentata."
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