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II

Le camere da letto delle puttane sono tutte uguali.

Luci soffuse, bassissime. Quasi sempre un paio di abat jour dozzinali, d'accatto.

Già tanto se sembrano spuntati fuori da un qualsiasi catalogo IKEA. Uno per comodino; di solito sopra ci sta buttata a bella posta una pezza rossa di seta - finta pure quella.

Atmosfera, la chiamano. Credo sia solo il modo migliore che quelle poveracce hanno, lì dentro, per non farti vedere che nemmeno ti guardano in faccia.

Di finestre, di solito, ce n'è sempre e solo una. Sta chiusa, tapparelle abbassate, persiane sprangate.

Al centro ci sta sempre un letto. Pure quello, davvero se ti va bene, l'ha sputato fuori un vecchissimo catalogo di un mobilificio d'accatto. Su uno dei comodini un paio di pacchi di salviette umidificate, di quelle che vanno bene per pulire il culo ai bambini al cambio pannolino. Preservativi, gettati alla rinfusa. A volte un rotolo di carta da cucina, di quelli assorbenti.

Fa tanto cucina di brigata da mensa aziendale, vero?

Fa tanto disperazione a pacchi, sul pavimento, di fianco al piede del ragazzino che si sollazza in cameretta, immerso nell'alluminosilicato del suo smartphone, sognando di essere lui, per davvero, su quel set, in quella scena bollente, con quella dea tutta per lui.

Per l'appunto: disperazione a pacchi. E solitudine.

In un angolo, vicino alla poltrona di fintissima pelle, ci sta sempre uno di quei bidoncini dell'immondizia. Quelli di plastica, a pedale. Le svuotate di cuore o le spremute di palle si accatastano lì dentro, nella gomma dei condom che puzza di vaselina .

Cose rotte, robaccia da buttare via. Robaccia che dopo un paio d'ore puzza di carne marcia.

Nella penombra seguo le linee del corpo di Jill.

La schiena arcuata.

La conta stanca delle vertebre appuntite che ho morso decine di volte mi accompagna al tondo del suo sedere. Al tatuaggio di Betty Boop che sta lì a scolorirsi sulla natica da chissà quanto. La cellulite delle cosce non proprio tornite non è mai stata un grande spettacolo. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile che, sotto il sedere, un corpo fantastico potesse perdere d'interesse così tanto facilmente. Chiariamoci: Jill non ha gambe da tagliare e buttare via ai cani. È solo che i morsi degli anni li mostra tutti sotto la curva del culo, all'attaccatura delle cosce. E i morsi sono due scorze d'arancia infilate sotto la pelle.

Allora risalgo. Mi arrampico di nuovo lungo la schiena. Fino alle spalle esili, tutte muscoli magri da cerva. Alla nuca.

Allo squarcio che le sboccia poco più su, proprio all'attaccatura del collo.

Prima vertebra cervicale o giù di lì.

Al platino dei capelli bruciacchiato dal calore della bocca di fuoco, della canna arroventata dallo sparo di una Smith&Wesson cromata, agli schizzi ormai quasi anneriti di sangue secco.

Secco, da chissà quanto.

Nel buio di quella stanza non sono mai riuscito a guardarci dentro. Dentro quel buco, intendo. Come sia ridotto, il cervello di Jill, non l'ho mai saputo. Anche perchè ho sempre una certa ritrosia a prenderla dalla nuca, quando mi attacco alle sue labbra con una certa qualche passione.

Toccare la ferita mi metterebbe in contatto con tutte le immagini dei proverbiali ultimi istanti di Jill.

E... no... tecnicamente, ancora non è il momento. Per tutta una serie di buoni motivi.

Tiro un'ultima boccata. Il calore della brace arrivata al filtro mi scotta le labbra e la testa infuocata sfrigola. Strizzo il mozzicone nel posacenere di cristallo - finto pure quello, che credete?! - che mi sono poggiato tra il petto e l'abbozzo di pancia, lì sotto.

Abbozzo; forse sono troppo generoso. Forse la vita, ultimamente, la sto prendendo con un po' troppa rilassatezza. E il conto sta tutto nei due rotoli che mi coprono gli addominali.

A quarant'anni m'attacco ancora alle tartarughe post-adolescenziali? Siamo seri, su...

- Mi sa che devo rimettermi un po' in moto...

- Vai già via?

Non l'ha capita, l'allusione. Ha fatto centro su quel che succederà nei prossimi minuti, però. In quello, come tutte le puttane, non ha rivali.

- Magari non l'hai sentito, ma il Capo mi ha richiamato in servizio.

Jill mi ha risposto con la voce ancora impastata dal sonno, le labbra che si scostano appena dal cuscino. Il ronzio del condizionatore che soffia piano un po' d'aria calda in questo scannatoio non basta a coprire quel mezzo sussurro. Sì: tecnicamente le puttane non hanno tempo per il pisolino. Non ne hanno tempo e, ad essere proprio precisi, non ne hanno neanche voglia. È roba che pretende intimità, dormire di fianco all'uomo con cui hai appena scopato, in fondo.

- Il tempo è denaro. Non è quello che mi ripetevi continuamente?

- Che pezzo di...

Le cerco la mano, la porto alle labbra. Succhio quel poco di piacere che m'illudo le sia rimasto sulle dita. Le dita sanno di caldo, vischioso. Sanno di ferro. Mi piace immaginare sia così, in realtà. Perchè non sento niente. Freddo; nessun sapore.

Poggio il posacenere sul comodino, agguanto una salvietta per pulirmi.

Jill si alza assieme a me. Cerca la vestaglia, dandomi le spalle. E mi sorprendo di nuovo, come ogni volta, ad abbassare gli occhi sul letto e fissare la trama che il sangue secco ha disegnato al suo posto, sulle lenzuola. Il proiettile ha stracciato il cuscino. Sarà rimasto nel materasso. O forse si sarà conficcato nel parquet tarlato sotto il letto.

- Dai, guardala dal lato positivo! Adesso hai solo me, no? Niente più rotture a ogni ora del giorno e della notte.

Non mi risponde. Si avvicina alla porta, come per mettermi fuori. La mano si ferma un istante sulla maniglia e Jill sbuffa fuori un mezzo sorriso.

Ci sono gesti che non riesci a dimenticare. Abitudini impossibili da strapparti di dosso.

Anche quando hai avuto mesi, anni, per cercare di abituarti al fatto di non esistere più. Di essere crepata nel tuo corpo di carne ed esserti trasformata in qualcos'altro. Intrappolata in una esistenza che si ripete ogni giorno uguale a sé stessa. Uguale e triste, nella migliore delle ipotesi. Uguale e deprimente da fare schifo, nel caso di Jill.

Conosco quella smorfia amara: è sempre la stessa da quando è riuscita ad accettare che quel che le dicevo era la verità. Che le regole sono quelle che le ho spiegato. Che quella giornata si ripeterà ancora, sempre uguale, fino a quando non sarò io a dire basta.

A divorare tutta la tristezza, la furia, la rabbia, che la fanno esistere ancora.

Soprattutto, fino a quando non avrò messo le mani su quello che l'ha ammazzata.

E non l'avrò chiuso in un personalissimo inferno cucito addosso su misura.

Un inferno da inventare, da arredare, da plasmare a gusto tutto mio.

Spendendo tutte le energie negative succhiate in giorni, mesi, anni da tante anime come Jill, spogliate e liberate. O tante bestie come i loro carnefici, rimandati dall'altra parte a pezzi così piccoli da non poter essere ricuciti assieme. Tante bestie dissolte nell'universo, senza lasciare indietro nemmeno un briciolo delle loro esistenze, delle loro energie.

Una prigione, per l'assassino di Jill.

Su misura, come tutte quelle costruite finora per quelli come lui. Una prigione per loro, un parco giochi per me.

Solo allora, quando il suo carnefice sarà solo uno dei tanti sulla lista dei dissolti, avrà davvero senso tornare qui, in questa stanza, sapendo che è l'ultima volta che ci metterò piede.

Solo allora avrà un senso liberare Jill dal peso di questa vita morta che si ripete ogni giorno sempre uguale, senza nemmeno il piacere della decomposizione, della morte, dell'oblio.

Solo allora avrà davvero un senso strapparle di dosso il sudario, mettendo a nudo tutto il suo odio, il suo rancore, le sue sofferenze.

Solo allora mi sembrerà un minimo deontologicamente corretto lasciarla nuda e divorarla - letteralmente. O quantomeno divorare l'immagine, l'essenza di lei. I suoi grumi di pura e scintillante sofferenza. E lasciare quel che resta da ciancicare alle mie due cagnoline che qui dentro, solitamente, non mi porto appresso.

Sì: delle anime tormentate non mi piace buttare via niente.

Nel frattempo, però, l'idea di perdermi le nostre fantastiche scopate, che ho imparato a chiamare personalissima-ora-d'aria, non mi sfiora nemmeno.

Jill resterà qui. Nel purgatorio che da bravo manovale ho modellato per lei, per me. Jill resterà qui a disposizione. Continuerà ad aspettare il suono delle mie nocche sulla porta. Continuerà ogni volta ad accogliermi come quando non le avevano ancora sparato alla nuca, stracciando via la sua figurina dal Palcoscenico. Ogni volta, come quel giorno, si illuderà di avere solo l'ennesima pratica-da-sbrigare. L'ennesima spremuta di seme da buttare nel bidoncino, strizzata nel cappuccetto da buttare via. Ogni volta, come quel giorno, si riscoprirà trascinata in un gorgo di lussuria e perversione e qualche folle, malata idea di passione. Ogni volta si riscoprirà a danzare sul mio corpo e a concedermi il libero, totale uso del suo corpo, come fosse una terapia, un guardarsi dentro, uno scoprire le tante altre facce della Luna, in ombra. Finirà ogni giorno per scoprire che è solo il solito, deprimente giorno che si ripete. Finirà per chiedersi senza fare un fiato perchè continuo a imporle questo detestabile Purgatorio. Si rassegnerà, come ogni volta, al fatto che, di fronte, ha semplicemente un bastardo con poca voglia di rinunciare alla migliore scopata della sua vita. Come ogni volta, accetterà che, no, non ha senso implorare. La vendetta arriverà. Magari prestissimo. La libertà, quella dovrà aspettare. 

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