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8.Chapter Eight

Su quella casa sembrava essersi abbattuto un potente terremoto.

Il pavimento in parquet era appiccicoso, una bottiglia di birra contenente del liquido amarognolo era ridotta in mille pezzi al suolo: ogni cosa sembrava essere fuori posto, pareva che qualcuno avesse messo sottosopra quel luogo senza alcun riguardo.

Percependo nuovi rumori provenienti dal piano superiore, salii la lunga scalinata, nonostante il timore di ciò che avrei potuto trovare minacciò di paralizzarmi.

Fu proprio questa la mia reazione quando, giungendo al primo piano e ruotando la testa verso destra, notai la porta del bagno aperta, e qualcuno di molto alto appoggiato al lavandino come se, da un momento all'altro, avesse potuto staccarlo.

Era Warner.

Sembrò non accorgersi della mia presenza, troppo occupato a fissare con odio la sua immagine riflessa allo specchio davanti a sé: mi chiesi cosa fosse stato a scatenare una tale reazione in lui.

Poi, d'un tratto, la sua espressione si fece ancora più aspra e infervorita.

Improvvisamente Warner tirò indietro il braccio, cacciò un possente urlo e chiuse la mano a pugno, pronto a colpire con violenza la lastra di vetro che rifletteva la sua immagine, infrangendolo in mille pezzi...

Ma ciò non successe.

O almeno, il suo pugno non colpì lo strato di alluminio che componeva lo specchio, perché lo fece il dorso della mia mano.

Inaspettatamente scattai come un fulmine verso di lui, proteggendo le sue nocche spaccate con la mia mano nel tentativo di bloccare il suo pugno. L'intensità con cui lo scagliò rese però inevitabile l'infrangersi dello specchio a contatto col mio arto, emettendo un fragore assordante e ferendo la mia pelle.

Emisi un gemito strozzato e mi trattenni dall'urlare per il dolore dell'impatto.

Non avrei saputo spiegare il perché, ma vedere Warner in quel modo, così distrutto e furioso, aveva fatto nascere in me il bisogno di fermarlo dal farsi ulteriormente del male: con la mia mossa riuscii a evitare che lui si tagliasse ma, al suo posto, lo feci io.

Warner spalancò gli occhi, sconvolto dal mio gesto inaspettato. Sembrò prendersi un istante per capire cosa diavolo fosse successo, prima di tornare in sé.

«Ma sei pazza?» chiese, stupito e con tono severo. «Cosa diavolo avevi in mente?» sbottò, fissandomi con i suoi occhi scuri spalancati e afferrando il mio polso.

Con orrore, notai che dalla mia mano stessero ormai colando fiotti di liquido scarlatto.

«Merda» imprecai, sussultando quando il castano davanti a me cominciò a studiare la ferita che mi ero consapevolmente inflitta: bruciava, e faceva male.

Ma almeno, ero in parte riuscita nel mio intento.

Non avevo mai visto Warner in quelle condizioni.

Nonostante tutto, tenevo a lui più di quanto chiunque immaginasse; il solo pensiero di vederlo soffrire mi spezzava il cuore.

Lui c'era sempre stato per me, mi aveva sempre sollevata, offrendomi il suo appoggio nei momenti più bui...

E io avrei fatto lo stesso.

«Volevo assicurarmi che non ti facessi del male...» ammisi dopo aver alzato lo sguardo, incontrando le sue iridi color nocciola e un'espressione preoccupata. La mia ferita aveva preso a pulsare e pizzicare, ma in quel momento non potei fare altro che concentrarmi sulla profondità di quegli occhi, che mi guardavano dall'alto metà increduli, metà tormentati.

I tratti del suo volto erano completamente malinconici e sconsolati: sembrava stesse soffrendo per qualcosa più grande di lui.

Avrei tanto voluto chiedergli di cosa si trattasse, ma il ragazzo mi precedette.

«Non avresti dovuto farlo» sentenziò, duro.
La sua severità fu però spezzata dalla frase più dolce che pronunciò in seguito.

«Ti disinfetto subito».

Scossi subito la testa. «No» protestai, «davvero, non ce n'è bisogno-»

Le successive parole mi morirono in gola quando, all'improvviso, il ragazzo afferrò i miei fianchi con le sue forti braccia, sollevandomi dal pavimento come se pesassi quanto una piuma e appoggiandomi con premura sull'ampio mobile del lavandino, dove la sua presa gentile mi abbandonò.

La stretta maglietta che portavo lasciava scoperta la mia pancia, e sussultai al contatto delle sue dita fredde sulla mia pelle bollente.

Lo guardai stupita, notando che il suo viso fosse rilassato, come se non avesse appena fatto alcuno sforzo, né qualcosa di inusuale.

«La mia non era una richiesta». Annunciò, autoritario. Poi si allontanò da me, lasciandomi in uno stato di totale confusione.

Afferrai il polso dalla mano lesa con quella sana, studiando attentamente la ferita: fortunatamente, non scorsi neppure una scheggia all'interno della carne. Eppure, non potevo certo aspettarmi che il vetro non mi lasciasse dei profondi tagli.

Poco dopo il ragazzo si riavvicinò, tenendo tra il pollice e l'indice un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante. Una volta dinanzi a me, abbassò il volto per potermi guardare e, dopo che glielo porsi, afferrò delicatamente il mio polso, poggiando piano il cotone morbido sulla carne viva. Mi lasciai scappare un sussulto.

«Lo so, fa un po' male, ma...»

«Va' avanti» pretesi, desiderando che quella piccola tortura finisse il più velocemente possibile.

Il castano dalla chioma arruffata tamponò sulla ferita ed io, dolorante, rimasi a osservare i suoi tratti marcati e tesi completamente concentrati su di me.

Indossava una larga t-shirt bianca che camuffava la possenza del suo corpo, lasciando vagamente scoperte le forti braccia che poco prima mi avevano sollevata come fossi stata una piccola bimba, in confronto a lui.

Emanava calore, come se avesse da poco terminato un duro allenamento, e profumava di vaniglia, patchouli e ribes nero. Una combinazione inusuale, ma perfettamente adatta alla figura virile e atletica di Warner Moore.

Dopo pochi minuti che trascorsi a fare smorfie silenziose di dolore, il ragazzo finì di disinfettarmi e fasciò la mia mano, finché la ferita non fu completamente coperta dalla benda di stoffa.

«Potrebbe metterci un po' a guarire, ma ti assicuro che presto il dolore sparirà» spiegò, carezzando distrattamente ma piano il dorso dell'arto sfregiato.

«Lo dici perché lo hai già provato?» gli chiesi, sollevando nuovamente lo sguardo verso il suo viso. Le mie gambe, incapaci di toccare il suolo dall'altezza del lavandino, penzolarono nel vuoto. Il ragazzo abbassò la vista verso di me: capii che avevo fatto centro dal suo silenzio.

Questo significava che Warner, quand'era solo, soleva prendersela con sé stesso e autodistruggersi in ogni modo possibile e immaginabile.

Crebbe in me il disperato bisogno di accoglierlo tra le mie braccia.

«Perché ti torturi in questo modo, Warner? Cosa c'è che non va?» domandai, desiderosa di aiutarlo.

Il ragazzo espirò con strazio. «Non c'è niente che va, è questo il punto!» sbottò d'un tratto, allontanandosi di poco dal ripiano su cui sedevo e passandosi le mani nei capelli, le palpebre serrate.

Non era mai stato facile per Warner esternare ciò che provava con qualcuno, tantomeno con me: era sempre stato un ragazzo introverso, incline a tenersi tutto dentro piuttosto che allarmare gli altri coi suoi problemi.

L'unica persona capace di convincerlo a farlo, era Nathan.

Eppure, in quel momento, Warner sembrava proprio sul punto di scoppiare.

Poco dopo smise di darmi le spalle, voltandosi nuovamente verso di me. Le nostre iridi scure entrarono in contatto quando mi rivolse la parola.

«Che cosa sei venuta a fare, Charly? Non dovresti essere qui» rimproverò. «Torna a casa, per favore. Credo di aver fatto già abbastanza danno» la sua vista cadde nuovamente sulla mia mano bendata, come se si sentisse in colpa per il gesto che ero stata io a commettere.

Sospirò e si voltò di schiena, ma prima che potesse abbandonare il bagno, la mia voce che chiamò il suo nome lo fece fermare.

«Warner, smettila di scappare! Non potrai farlo in eterno... prima o poi dovrai affrontare quello che ti sta consumando ogni giorno di più!»

Presi una pausa, osservando il ragazzo all'entrata del bagno stupito dalle mie parole.
Poi, dissi ad alta voce ciò che sospettavo da fin troppo tempo.

«Si... si tratta dell'addestramento. Non è così?»

Per un attimo, notai una luce diversa negli occhi di Warner, alla mia domanda.

Poi, sembrarono mutare totalmente: divennero seri quando, avvicinandosi a me fin da avere il suo viso a pochi centimetri dal mio, posizionò i palmi ai lati dei miei fianchi sul mobile che ancora accoglieva il mio corpo seduto, fissandomi intensamente.

Non si era mai avvicinato così tanto a me, non in quel modo. Uno strano brivido percorse la mia spina dorsale.

«Cosa ti fa pensare che potrebbe essere il mio addestramento a rendermi così?» soffiò sul mio viso, il color nocciola delle sue iridi puntate nelle mie sembrò così freddo, a quel punto.

Tuttavia, ciò non mi impedì di esporre finalmente il mio pensiero a riguardo.

«Io lo vedo, Warner, lo vedo come ti riduce. L'intensità e la difficoltà del tuo allenamento sembra aumentare ogni giorno che passa, e anche se cerchi di non farlo notare, io li colgo, i tuoi sentimenti. L'ho sempre fatto» ammisi.

Il ragazzo scrutò il mio volto, curioso.

«È quello che fai da sempre» proseguii, «neppure lavori per concentrarti solamente su questo, sul tuo percorso per intraprendere la carriera dei tuoi genitori, per diventare un agente di polizia» incatenai il mio sguardo al suo, cercando sincerità sul suo volto alla mia successiva domanda.

«Ma è davvero questo ciò che desideri fare?»

Warner, a quel punto, parve calmarsi: prese un lungo sospiro, e percepii il suo fiato caldo su di me nel momento in cui espirò. Posò lo sguardo altrove. «Nessuno mi aveva mai posto questa domanda, ed è comprensibile che sia stata tu a farlo» passò una mano sul suo volto stanco.

«Vedi, Charly... quello che vorrei, non ha importanza. Io non ho altra scelta». Ammise con un sorriso amaro, e nel momento in cui tornò a guardarmi negli occhi, lessi rassegnazione al loro interno, quasi avesse accettato una vita che gli era stata imposta, ma che non sentiva sua.

«Se davvero vuoi sapere una volta per tutte se è realmente questa la vita che ho sempre desiderato no, non lo è. Amo l'addestramento e il lavoro di famiglia, ma a volte è dura, Charly. A volte è così estenuante allenarmi come fossi una macchina da guerra, dimenticando che in realtà, come tutti, sono umano anch'io. Cerco sempre di essere forte, è quello che dimostro sempre di essere, ma la verità è che a tutti, prima o poi, capita di crollare. Ma non c'è da preoccuparsi perché, alla fine, mi rialzo sempre».

Confessò il tutto con voce stabile, nonostante fosse dura per lui esporre le sue emozioni.

«In fondo mi basta pensare al motivo per cui mi sottopongo a tutto questo, per farmi sentire meglio: proteggere le persone che mi circondano, in particolare modo quelle che amo. È il mio obbiettivo a tenermi in piedi» rivelò infine, rivolgendomi una piccola occhiata fiera.

«E pensi che ne valga la pena? Ridursi così, per il benessere di qualcun altro?» gli chiesi dunque, non capendo come Warner potesse esserne convinto.

Tuttavia, il ragazzo emise un sorriso intenerito, appoggiando totalmente il corpo al mobile su cui ero seduta, in mezzo alle mie gambe, avvicinandosi quasi completamente a me.

Poggiò le dita sulla mia guancia, e quasi sobbalzai a causa del suo tocco freddo sulla mia pelle calda, per la seconda volta in quel giorno.

Warner accarezzò dolcemente la mia gota e, per un istante, soffermai la mia vista sul suo volto pulito: un ciuffo castano ricadeva sulla sua fronte proporzionata, gli occhi ormai di nuovo teneri su di me, mentre le sue labbra carnose erano sollevate in un piccolo sorriso.

Le sue braccia, di cui uno ancora posto al lato del mio fianco, erano coperte dalla larga t-shirt, e la tuta che fasciava le sue gambe atletiche mi suggerì che quel giorno si fosse allenato in casa, nella stanza che utilizzavano ormai come palestra.

«Metterò sempre il benessere della mia famiglia al primo posto, anche prima del mio. Non ci penserei due volte a sacrificare la mia vita per salvare quella di chi mi sta a cuore» confessò, trasparente.

Rimasi sbalordita dalla totale sincerità che mi trasmise con un solo sguardo, a quelle parole.

«Sei una persona meravigliosa, Warner. Dico sul serio» ammisi con un flebile sorriso puntato in volto, che il ragazzo ricambiò.

«E tu sei molto più dolce e sensibile di quanto lo dia a vedere» pronunciò lui, corrucciando per un attimo le sopracciglia. «Non credevo ti preoccupassi per me».

Aggrottai la fronte, perplessa, mentre Warner inumidì le proprie labbra e mi fissò in attesa di una reazione.

«Come potrei non farlo? Io...» presi un secondo di pausa, riflettendo sulle parole più corrette da usare. «Warner, per me sei importante».

Il ragazzo in piedi sembrò non aspettarsi una rivelazione del genere proprio da me che, ultimamente, non facevo altro che litigare con la mia famiglia, e talvolta anche con i Moore.

Ma forse, se Warner era arrivato a credere che poco m'importasse del suo benessere, avrei dovuto cominciare ad allontanare tutto l'astio che provavo, e cominciare a dire le cose come stavano realmente.

«Non hai la minima idea di quanto tu lo sia per me, Charly» dichiarò il ragazzo facendosi ancor più vicino, fermandosi solamente quando la sua fronte non fu capace di sfiorare la mia.

In un solo giorno, Warner si era avvicinato a me più di quanto avesse mai fatto in diciassette anni di conoscenza e, onestamente, non sapevo come interpretare i suoi gesti...

E neppure le sensazioni che stavo provando.

Mi ero sentita allo stesso modo quando, cercando Nathan a casa dei Moore, mi ero imbattuta in un Warner ben poco vestito: le parole che aveva pronunciato quel giorno erano ormai impresse nella mia mente incapace di darvi un significato.

«Forse dovresti prestare più attenzione a quello che ti circonda, Charly, invece di cercare ciò che tanto aspetti dalla vita nei criminali che incontri in un'insulsa discoteca».

La sua mano si posò leggera sul mio volto, mentre il suo respiro caldo sulla mia pelle sensibile mi fece rabbrividire: col dorso della mano sfiorò gentilmente il mio zigomo, senza interrompere neppure per un istante il contatto visivo tra noi.

Scrutai attentamente l'espressione serena sul suo viso, così diversa rispetto a quella furiosa di qualche minuto prima.

«Sei riuscita a calmarmi» proferì. «Nessuno lo faceva da tempo».

Questa volta Warner appoggiò totalmente la fronte alla mia, frenando i suoi movimenti sulla mia guancia.

«I-io... sono felice di averlo fatto» balbettai, e un piccolo tremito si impossessò del mio corpo.

Il suo comportamento così delicato e, in un certo senso, intimo, mi stava rendendo una persona totalmente diversa: non ero più la solita Charly arrabbiata col mondo, sempre pronta all'attacco quando si trattava della mia famiglia.

In quelle quattro mura ero divenuta più dolce ed emotiva, e mi chiesi se fosse proprio quello, l'effetto che mi faceva Warner: in fondo, avevo sempre provato una grande ammirazione e una forte connessione nei suoi confronti.

Sapere che anche lui ci tenesse a me, mi faceva sentire realmente bene.

Eppure, in quel momento sembrava esserci dell'altro: mentre sedevo sul mobile in marmo bianco del lavandino, le iridi nocciola del castano cominciarono a scrutare ogni singolo dettaglio del mio viso con un'espressione strana, portandomi a fare lo stesso, osservando quel suo volto dai lineamenti pronunciati.

Era tutto così strano e inusuale: tuttavia, non sentii il bisogno di scostarmi, né di allontanarmi da lui, e avrei tanto voluto sapere il perché.

Improvvisamente, però, ci pensò il ragazzo a farlo: si allontanò di colpo, prese un lungo respiro e passò una mano sulla sua fronte, portando i capelli all'indietro.

«Credo di star uscendo totalmente di testa» esclamò, prendendosela tra le mani.

Trascorsero svariati secondi che passai a chiedermi a cosa stesse pensando quel ragazzo, perché avesse reagito in quel modo, sentendo il gelo pervadere il mio corpo ora che quello di Warner non era sufficientemente vicino per riscaldarlo. Poi, il castano si voltò nuovamente verso di me.

Ma prima che potesse proferire parola, il rumore della porta di casa che si aprì lo fermò. Q quando la voce del padre di Warner giunse al nostro udito il ragazzo spalancò gli occhi, ricordando probabilmente solo in quel momento il disastro che aveva lasciato al piano inferiore.

«Warner! Dio mio, stai bene?» Il signor Moore, preoccupato, chiamò il nome del figlio, e dal rumore dei suoi passi intuii che lo stesse cercando al piano terra.

Scesi finalmente dalla postazione sopra quel mobile che, ormai, stava diventando scomoda, e proprio in quell'istante Warner posò entrambe le mani al lato del mio viso, costringendomi a guardarlo. Sembrava molto... allarmato.

«Devi farmi un favore Charly, okay? Mio padre non deve sapere che sei qui» annunciò, senza tentare di nascondere il velo di preoccupazione che prese possesso dei suoi lineamenti.

Mi domandai per quale motivo per Warner fosse un problema ma, per una volta nella vita, decisi non replicare: ero confusa, un ammasso di emozioni minacciava di schiacciarmi dal primo momento di quella giornata, a partire da Kade che sembrava tutt'a un tratto non voler più avere a che fare con me, concludendo con l'intensità del momento che avevo appena trascorso con Warner.

Ero davvero molto stanca, e non desideravo altro che un po' di tempo per me, per riflettere su tutto ciò che avevo provato in un singolo giorno.

Annuii a Warner, facendogli capire che avrei rispettato la sua decisione.

«Va bene. Passerò dalla porta sul retro».

Spazio autrice

Buon pomeriggio a tuttx!
Allora, vi ha reso un minimo soft questo capitolo? Insomma, Warner è così 🥺💔😫🙏🏻
Qui scopriamo che è un ragazzo davvero molto introverso e che solo con Nathan riesce ad aprirsi, ma questa volta lo fa anche con Charly. Perché? È davvero così tormentato?
Spoiler: si, lo è. In una maniera inspiegabile. Piango😭💙
Beh, cosa ne pensate dei suoi atteggiamenti, della sua gentilezza con Charly... insomma, di lui? Alcunx di voi l'hanno rivalutato un po'?

Cos'è che lo abbatte tanto? E perché ha voluto che Charly se ne andasse quand'è arrivato il padre?👀

Fatemi sapere tutto nei commenti e lasciatemi una stellina ⭐️se il capitolo vi è piaciuto❤️

Vi invito a seguirmi sul mio profilo Instagram __.corastories.__ per rimanere sempre al passo con le novità!

Al prossimo lunedì!
~Cora💛

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