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3.Chapter Three

«Che cosa ci fai qui?»

Dopo qualche secondo che passai in totale imbarazzo, Warner finalmente parlò, osservandomi con le sopracciglia aggrottate.

Deglutii, mantenendo lo sguardo fisso sulle iridi scure del ragazzo semi nudo dinanzi a me quando risposi.

«Nessuno mi ha aperto la porta e, sai...» sollevai la mano in aria per mostrargli il mazzo che stringevo nel palmo. «... quando me le scordo qui, trovo sempre le chiavi sotto lo zerbino».

Udendo una cosa simile, chiunque esterno alla situazione sarebbe rimasto stranito: potevano due famiglie essere così legate, da permettere ai rispettivi figli la libertà di entrare nella propria dimora quando lo desideravano?

Era alquanto strano; ma non di certo per Warner Moore, che sorrise e annuì, comprensivo.

A volte, mi sentivo come se tutti intorno a me fossero a conoscenza di qualcosa da cui mi tenevano all'oscuro.

«Stavo cercando mio fratello, ha detto che lo avrei trovato qui» aggiunsi in seguito, notando Warner abbassare lo sguardo sull'asciugamano che aveva legato in vita e stringerlo ancor di più.

Mi costrinsi a continuare a fissare il suo viso dai tratti pronunciati.

«Nate è andato via più o meno dieci minuti fa» rivelò, tornando a guardarmi. «Ha detto che doveva sbrigare una commissione prima di andare a lavoro».

«Oh, va bene» risposi, indietreggiando di un passo.

Ero quasi lieta di quella risposta: non desideravo altro che allontanarmi a passo svelto dall'ambigua e imbarazzante situazione in cui mi ero ritrovata; parlare con Nathan avrebbe potuto sicuramente aspettare.

«Allora vado. Ti ringrazio, Warner» gli rivolsi un sorriso sbrigativo, pronta a scappare via di lì, e il ragazzo incrociò le braccia al petto, ridacchiando sotto ai baffi.

Sembrava ancora divertito dal mio disagio.

Aggrottai la fronte, infastidita. «Sono forse un pagliaccio?» gli domandai, incapace di trattenermi. Non avevo mai avuto peli sulla lingua, e mi risultò impossibile far finta di niente, nonostante la situazione scomoda in cui mi trovavo.

Il ragazzo non rimase affatto stupito dalla mia affermazione: sorrise, mostrando le fossette in cui da anni avrei voluto segretamente infilare il dito, e si scostò dalla parete, sciogliendo le braccia precedentemente conserte.

«Non lo sei, Charly, sai che non lo penserei mai di te» pronunciò. «È solo che, dal tuo stupore, sembra quasi tu ti sia accorta solamente adesso di quanto io sia realmente cresciuto».

Il ragazzo volse un passo verso di me, costringendomi a sollevare lo sguardo per poterlo guardare nei suoi occhi scuri, e per un attimo poggiò la mano al lato del mio viso, scrutando attentamente la mia espressione sbalordita.

Faticavo a ricordare una sola volta in cui mi avesse toccata in quel modo.

«Forse dovresti prestare più attenzione a quello che ti circonda, Charly, al posto di cercare ciò che tanto aspetti dalla vita nei criminali che incontri in un'insulsa discoteca» pronunciò profondamente serio, prima di lasciare una piccola carezza al mio volto e scostarsi.

Nonostante dalle sue parole sembrasse trapelare quasi spavalderia, in realtà, scorsi nei suoi occhi un barlume di malinconia.

«Se hai bisogno di un passaggio per la palestra, stasera, chiamami» concluse con un piccolo sorriso, per poi sorpassarmi e incamminarsi verso la sua camera, dove vi si rinchiuse.

Attonita, mi domandai cosa diavolo fosse appena successo.

Indubbiamente, Warner aveva ragione: era cambiato molto da quando eravamo solamente dei ragazzini, soprattutto grazie al duro allenamento a cui si era sempre sottoposto che lo aveva fatto maturare, oltre a incrementare la massa muscolare che possedeva.

Tuttavia, era vero: non mi ero mai resa conto di quanto, negli anni, fosse diventato sempre più affascinante e incredibilmente bello, fino a quel momento. Probabilmente perché lo avevo sempre considerato di famiglia, un leale amico in cui riporre fiducia; niente di più.

Mi chiesi inoltre perché avesse soprannominato «criminale» il tenebroso sconosciuto: ero fermamente convinta che avere la pelle ricoperta di tatuaggi, fumare in un luogo al chiuso e portare alcuni piercing non facessero di una persona un delinquente.

Quelli erano solamente pregiudizi, anche se mi era sempre stato insegnato che fidarsi era bene, ma non fidarsi era meglio.

Al di là di ciò che mi aveva promesso, però, lo sconosciuto non aveva fatto nulla di male se non scottarmi accidentalmente, e chiedermi di ballare con lui per farsi perdonare.

Eppure, la reazione di Warner era stata del tutto aggressiva nei suoi confronti.

«Che cosa diamine ci facevi con Charly, uh? Ti ho visto, è inutile che scappi! Chi ti ha dato il permesso di toccarla?» urlò al moro il ragazzo dai capelli castani, furioso, tenendolo per il colletto della camicia.

Onestamente, mi sarei potuta aspettare una reazione del genere da Nathan, mio fratello, non da Warner: quel ragazzo sembrava diventare più strano ogni giorno che passava, come se ci fosse qualcosa a turbarlo nel profondo.

Avrei tanto voluto sapere cosa diavolo gli stesse accadendo.

Totalmente sovrappensiero, uscii dalla villa dei Moore e mi chiusi la porta alle spalle, osservando il nostro quartiere tanto isolato quanto tranquillo.

In entrambi i lati della strada erano posizionate diverse casette a schiera: l'unico particolare che le distingueva, era la tinta con cui i proprietari avevano deciso di dipingere le pareti esterne della propria dimora, facendo in modo che l'intera zona divenisse una vera e propria esplosione di colori.

Posai gli occhi sull'edificio in cui vivevo costruito di fronte a quello di Warner finché, improvvisamente, la mia vista non percepì un paio di occhi castani visibilmente infuriati puntati nei miei.

Sussultai, sorpresa nell'accorgermi che, dopo aver suonato ripetutamente al campanello di casa mia e non aver trovato nessuno, Edith avesse voltato le spalle al portone, esasperata, notando solo a quel punto la mia sagoma dall'altra parte della strada, proprio di fronte a lei.

«Madre de Dios» proferì, prendendo un lungo sospiro di sollievo e portando una mano dalle unghie curate alla fronte.

Poi mi puntò un dito contro, e un'espressione accusatoria s'impossessò del suo volto dai tratti messicani.

«Tu, brutta irresponsabile che non sei altro! Perché diavolo non hai risposto ai miei messaggi? Ero così in pensiero per te che ho corso come una pazza fino qui, sperando di trovarti sana e salva a russare nel letto. Ieri sei sparita, ti ho cercata dappertutto, ma tu ti sei semplicemente volatilizzata!» urlò con voce acuta, gesticolando nel tentativo di rendere la situazione più tragica del necessario.

Con la coda dell'occhio notai Pat, il vicino che soleva prendersi cura del proprio giardino ogni sabato, osservarla stranito.
Avrebbe dovuto abituarsi.

Decisi di avvicinarmi alla mia amica proprio quando cominciò a sbattere i suoi camperos al terreno, arrabbiata, e le lanciai un'occhiataccia.

«Ti prego, Edith, non gridare, i vicini-»

«Non gridare?» la ragazza, se possibile, alzò ulteriormente il tono della voce, e la sua espressione si fece ancor più adirata.
«Mi stai davvero chiedendo di non gridare, dopo essere scomparsa e non esserti neppure degnata di una risposta? Charlotte Hoffman, giuro che...»

Edith non poté finire la frase, perché venne bloccata dalla mia mano che poggiai con urgenza sulla sua bocca, spazientita.

Rivolsi un sorriso del tutto falso al vicino, che parve quasi scioccato dalla scenata della mia migliore amica.

«Non qui, Edith... andiamo a prenderci un caffè. Ti spiegherò tutto strada facendo».

La ragazza si scrollò di dosso il mio tocco, allontanandosi indignata e lisciando la sua salopette di jeans come se, con quel mio gesto un po' brusco, avessi attentato alla sua vita.

Era proprio la regina del dramma.

«Bene» annuì, ricomponendosi. «Andata per il caffè. Ma non dovrai tralasciare neppure il più piccolo dettaglio».

In fondo, Edith non aveva torto: la sera prima ero sparita senza lasciare alcuna traccia, e non avevo avuto neppure il tempo di risponderle che fosse tutto ok, a causa della conversazione inaspettata che avevo avuto con Warner Moore.

Quella mattina, tutto ciò che avrei voluto fare era parlare con mio fratello di quanto era accaduto, ma anche Edith meritava una spiegazione.

E di certo, gliel'avrei presto data.


«Perciò, ricapitolando: questo certo "Kade", prima ti ha ustionata con una sigaretta accesa in un luogo in cui è vietato fumare, poi ti ha praticamente obbligata a ballare con lui».

«Uhm... sì?»

«Ed era un gran bel manzo».

«Beh...»

«E ti ha promesso che lo avresti rivisto?»

Edith mi interruppe, posando le labbra carnose sulla cannuccia e prendendo un nuovo sorso della sua bevanda.

«Sì».

«Misterioso...» arricciò il naso, spostando i lunghi capelli color cioccolato dietro le spalle. «Mi piace».

Ci eravamo recate nel nostro bar preferito nella periferia della città, e tra una chiacchiera e l'altra si erano ormai fatte le cinque del pomeriggio.

Seduta di fronte alla mia migliore amica in quel bar dalle pareti rosa confetto, le raccontai tutto del mio incontro col tenebroso sconosciuto concluso con la spiacevole comparsa di mio fratello e di Warner, e la ragazza rimase in religioso silenzio per tutto il tempo, prestando attenzione a ogni singola parola pronunciassi.

«Beh, sì: è stato intenso, finché è durato». Scrollai le spalle indifferente, consapevole che non avrei mai più rivisto quel ragazzo dallo sguardo ammaliante, capace di rapire sin dal primo contatto visivo.

«E stamattina, invece, non mi hai risposto perché ti sei ritrovava faccia a faccia con gli addominali di Warner, il tuo amico d'infanzia. Ho capito bene?»

Sollevai gli occhi al cielo, chiedendomi come Edith potesse rigirare a suo piacimento ogni cosa le dicessi. «Non è andata proprio così, Edith» affermai, ma la messicana mi liquidò con un rapido gesto della mano.

«Hai mai pensato che, forse, potresti piacere a Warner?» chiese con disinvoltura, come fosse stata una cosa come un'altra. Io, invece, quasi mi strozzai con il sorso del caffè che stavo bevendo a quelle parole.

«Come, prego?» le chiesi di rimando, emettendo una piccola risata divertita.

La ragazza sorrise, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Non lo so, cariño: ha avuto un comportamento molto strano; sia ieri con quello sconosciuto, che stamattina, dopo quello che ti ha detto. Sicuramente nasconde qualcosa».

Annuii, trovandomi d'accordo: era chiaro che gli stesse succedendo qualcosa, ma lo era ancor di più che non si trattasse di questo.

«Ultimamente non sembra più il Warner di un tempo» rivelai, «ma io credo sia per il duro allenamento che fin da piccolo gli è stato imposto dai genitori. È sempre così sotto pressione...» ammisi, pensierosa, portando il pollice alle labbra. «Credo si meriti un periodo di pausa. Capisco che i Moore vogliano a tutti i costi che anche il figlio entri nella polizia, in fondo è un sogno che lui stesso ha maturato sin da bambino. Ma sembra quasi ci sia altro, dietro a questa rigida preparazione» riflettei, aggrottando la fronte. «Sembra quasi lo stiano addestrando a combattere qualcosa di più grande. Non so spiegartelo, perché non ho idea di cosa possa essere. E ho paura che anche Nathan, come Warner, si troverà presto sotto pressione, siccome si allenano insieme».

Nathan si unì all'allenamento di Warner a circa tredici anni: ero convinta fosse proprio quello ad averli avvicinati a tal punto da renderli quasi inseparabili.

In ogni caso, tutto ciò che avevo detto era profondamente vero: sembrava stessero addestrando quel ragazzo a diventare una vera e propria macchina da guerra, piuttosto che un poliziotto, ed ero convinta dovessero darci un taglio o, prima o poi, non avrebbe più retto.

«Che bel casino» annunciò la mia migliore amica, passandosi una mano in fronte.

«Già» concordai. «Credo che Warner abbia altro per la testa in questo momento, ed è proprio per questo che non ha mai avuto una relazione stabile: ogni giorno porta a casa una ragazza diversa, e non penso sia per presentarle ai genitori» ridacchiai, divertita della mia stessa battuta. «Non mi vedrà mai come altro, se non come la sorellina che non ha mai avuto» ammisi infine, ed Edith sembrò trovare sensato ciò che dissi, perché annuì.

Per un istante, mi tornò alla mente un tempo in cui Warner mi piaceva molto, quasi come avessi avuto una cotta per lui: avevo solo dodici anni, mentre lui diciassette, e credevo di essermi innamorata della sua gentilezza nei miei confronti, di come fosse sempre al mio fianco, pronto a proteggermi da ogni male.

Poi, capii che i suoi gesti non erano dettati da altro che un profondo amore fraterno, e dall'istante in cui ebbi quella rivelazione compresi che Warner, per me, sarebbe sempre stato famiglia.

Forse era proprio per questo che non mi ero resa conto di quanto fosse cambiato, negli anni, fino a quel mattino.

«Querida, sai che resterei qui tutta la notte, ma devo abbandonarti. Mi aspetta un'intera serata piena di lamenti fastidiosi e urla isteriche» Edith scosse la testa. «Dio, quanto odio i bambini» concluse, ricordandomi che da pochi giorni avesse cominciato a fare da baby sitter a una coppia di bambini tanto piccoli, quanto pestiferi.

Sapevo che presto anch'io avrei dovuto trovare un lavoro: l'ultimo anno scolastico era ormai giunto al termine, e per quanto volessi godermi l'estate in maniera spensierata, ero abbastanza responsabile da capire che ci fosse bisogno di soldi, in casa, e il mio aiuto sarebbe stato indispensabile.

«Tranquilla, anch'io devo andare: si sta facendo tardi, e alle sei ho l'allenamento» rivelai indicandole il borsone che mi ero portata, sapendo già quanto i miei incontri con Edith finissero sempre per diventare lunghe giornate trascorse insieme.

Dopo aver pagato ed esserci salutate, ognuna andò per la sua strada: strinsi il borsone scuro in una mano, incamminandomi verso la palestra.

Avevo sempre trovato il pugilato uno sport affascinante, e l'idea di sapermi difendere da sola mi aveva sempre appagata: per questo, quando circa un anno prima Nathan mi aveva consigliato una palestra in cui lo praticavano, mi ero iscritta quasi immediatamente a quel corso.

Tirare pugni a un sacco mi liberava da qualsiasi pensiero, permettendomi di scaricare tutta la tensione che avevo in corpo e lasciandomi con un unico obbiettivo: atterrare l'avversario.

Giunsi a destinazione in venti minuti di camminata tranquilla, salii tre gradini e mi introdussi nell'ampio edificio dalle pareti bianche e rosse: salutai il receptionist, osservando oltre le sue spalle le poche persone del posto sedute a un piccolo bar, per poi dirigermi verso la lunga scalinata che conduceva agli spogliatoi.

Se il primo piano poteva risultare piuttosto tranquillo a un novellino, era perché non aveva ancora messo piede al piano interrato: era lì che si svolgeva il vero e proprio allenamento, dove gli alunni seguivano le lezioni e occasionalmente lottavano tra loro, svolgendo dei veri e propri incontri all'ultimo sangue, ma sempre nel rispetto delle regole.

Fu quando percorsi gli ultimi gradini in cemento che percepii una strana sensazione sulla pelle: sembrò come se qualcuno, in quel corridoio poco illuminato da una luce fioca, mi stesse osservando.

Aggrottai la fronte e mi guardai intorno, ispezionando quel fresco seminterrato dalle mura beige, ma la mia vista non percepì nulla di irregolare.

Durò solo per un istante, eppure, fu una sensazione travolgente.

Sospirai, convincendomi che fosse tutto frutto della mia immaginazione, ed entrai velocemente nello stanzino per cambiarmi e legare i miei capelli in un'alta coda di cavallo.

Quando fui pronta mi diressi verso la sala da ginnastica dipinta di un rosso scuro, dove al centro era posizionato un ring di combattimento: trovai tutti i miei compagni coi guantoni alle mani e sull'attenti, come se stessero aspettando qualcosa.

Capii di cosa si trattasse nel momento in cui qualcuno parlò.

«Ragazzi, mi dispiace informarvi che il vostro insegnante è in infortunio» affermò un uomo dalla folta barba in piedi al centro della stanza. «Per oggi, il vostro allenamento è libero. Faremo in modo di trovare un sostituto già dalla prossima lezione» concluse, rivolgendoci un sorriso del tutto sbrigativo prima di dileguarsi.

Bene... questo proprio non ci voleva.

«Allenamento libero, eh?» pronunciò qualcuno alle mie spalle, attirando la mia attenzione su di sé. «Charly, che ne dici di allenarci insieme?» mi domandò il mio compagno dai capelli biondi di punto in bianco, spavaldo, alludendo a tutto meno che al pugilato.

Sbuffai nella mia mente, chiedendomi perché un bel ragazzo come lui dovesse essere anche così stupido.

Supposi che non si potesse avere tutto, dalla vita.

«Ti piacerebbe, Chuck» gli risposi guardandolo per un solo istante, dirigendomi in seguito verso la schiera di sacchi da boxe appesi al soffitto in fondo alla stanza.

Lo sentii sbuffare alle mie spalle, mentre i suoi amici risero di lui.

Sarebbero state due ore di allenamento molto intense.


Mi rivestii dopo una lunga doccia tiepida e presi la mia roba dagli spogliatoi femminili, avviandomi verso le scale che portavano all'uscita di quel luogo.

Come sempre, ero stata l'ultima a prepararmi: rimanevo spesso delle ore sotto il getto dell'acqua, e quando finalmente finivo, mi ritrovavo sempre sola a raccattare le mie cose e andarmene.

Una volta fuori sorpassai il cancello della palestra: ormai il sole battente che illuminava le strade era calato, lasciando che camminassi nel buio di quella via desolata.

Non mi trovavo di certo in una zona tranquilla; eppure, non avevo mai avuto paura di tornare a casa da sola, nemmeno a tarda ora: in fondo, c'era un motivo se praticavo uno sport di difesa, ed era proprio quello di poter camminare serena in posti per nulla affidabili senza avere il timore di essere attaccata da qualcuno.

Tuttavia, mentre percorrevo a passo svelto quella strada totalmente isolata, una brutta sensazione si impadronì di me quando udii dei leggeri passi alle mie spalle.

Non c'era nulla di cui preoccuparsi: nonostante quella non fosse una strada molto frequentata e i miei compagni fossero ormai tutti usciti, si trattava pur sempre di suolo pubblico; pertanto, una persona alle mie spalle che percorreva il mio stesso marciapiede non avrebbe dovuto essere nulla di strano.

Probabilmente, ero solo paranoica a causa di tutte le brutte notizie che si sentivano in giro.

Eppure, era la seconda volta in quella serata che percepivo un brutto presentimento: poteva mai trattarsi di pura casualità ancora una volta?

Inspirai profondamente, decidendo di provare a sciogliere i nervi e calmarmi.

Ma quando i passi alle mie spalle si fecero sempre più veloci e la terribile sensazione sempre più forte e opprimente decisi di prendere coraggio, voltandomi.

Non erano paranoie, avevo ragione.

Qualcuno mi stava seguendo.

Si trattava di un uomo di mezza età, dagli abiti larghi e trasandato: sostava in piedi a pochi passi da me, fermo sul posto ma tremante come il mio cuore inquieto, e aveva preso a fissarmi con espressione... disperata.

Puzzava di alcol come se, durante il giorno, non facesse altro che ingerire vino e qualsiasi sostanza alcolica riuscisse a stordirlo.

Le sue parole raggelarono il sangue nelle mie vene.

«Dammi tutto quello che hai, ragazzina» pronunciò con poca convinzione, volgendo un passo verso di me. Spalancai gli occhi e indietreggiai, intimorita.

Non mi era mai capitata una situazione simile: nonostante fossi ormai convinta di potermela cavare da sola, in quel momento rimasi paralizzata.

«Mi hai sentita?» l'uomo alzò il tono della voce, facendomi sobbalzare. «Ti ho detto di darmi tutto quello che hai!» La disperazione parve sparire dal suo volto quando si avvicinò ancor di più a me, incattivito.

Mi guardai intorno, spaventata, scoprendo con orrore ciò che in cuor mio già sapevo: non c'era alcuna scappatoia, né qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi.

Avrei dovuto affrontare quell'uomo con le mie sole forze.

Svelta, Charly, concentrati.

Nel momento in cui si avvicinò ancora di più, la carogna impressa sul volto, capii di non avere più tempo di pensare a cosa fare: avrei dovuto reagire, e subito.

«Stammi lontano!» urlai a squarciagola, caricando un pugno che scaraventai con prepotenza sul suo naso, così improvvisamente da non dare il tempo all'avversario di pararlo.

L'uomo indietreggiò di un passo per il colpo e strabuzzò gli occhi, stupito: non lo biasimavo, lo ero anch'io.

In un attimo gli voltai le spalle, cominciando a correre dalla parte opposta: con il cuore in gola lasciai che l'adrenalina si impadronisse del mio corpo, permettendomi di sfrecciare il più lontano possibile dall'uomo che voleva derubarmi.

Fuggii più veloce che potevo, incurante del fiato che cominciava piano piano a mancarmi: fu proprio quando credetti di averlo ormai seminato, che commisi l'errore più grande potessi fare.

Rallentai il passo e provai a voltarmi indietro, cercando di capire se l'uomo stesse continuando a inseguirmi, e mi resi conto di essere in netto vantaggio.

Non ebbi però il tempo di gioire perché, proprio in quel momento, il mio corpo finì contro qualcosa di solido... qualcuno di solido.

Raggelai, e mi mancò il respiro.

Rischiai quasi di cadere a causa dello scontro, ma venni tenuta in equilibrio da due grosse mani che mi afferrarono per le braccia.

Quasi urlai per quel tocco sconosciuto e invasivo su di me.

Impaurita, stremata e tremante, decisi di sollevare lo sguardo verso il volto di chi, a quel punto, ancora mi teneva stretta per le braccia e ancorata a sé.

La persona che mi ritrovai davanti, però, era tutto il contrario di quello che mi aspettavo.

Era giovane, un ragazzo.

E io lo conoscevo.

«Stai bene?» mi domandò con voce profonda. «Ti ha fatto del male?» proseguì, mentre i suoi occhi scuri scrutarono attenti il mio corpo in agitazione.

Non era possibile. Non poteva essere reale.

«N-no» mi ritrovai a rispondergli con la voce incrinata, incredula di come quel ragazzo potesse essere proprio lì, davanti a me, a chiedermi se stessi bene dopo essere stata quasi aggredita.

Il moro dinanzi a me annuì, guardando alle mie spalle.

«Bene. Mi limiterò alle parole, per questa volta».

Prima che potessi chiedergli cosa volesse intendere si posizionò davanti a me, proprio nel frangente in cui l'uomo ci raggiunse.

Ormai privo di fiato, il malvivente rimase così stupito dalla presenza di quel ragazzo che spalancò gli occhi.

Quest'ultimo gli si avvicinò al punto da essergli faccia a faccia, sovrastandolo con la sua altezza, e spostandomi per poter capire che intenzioni avesse, notai come i tratti del suo volto fossero induriti.

«Sparisci» pronunciò con estrema severità, «prima che cambi idea, e decida di farti capire a suon di calci in bocca quanto tu possa essere ripugnante, a cercare di derubare una donna».

Non avrei saputo dire se fosse stato lo sguardo autorevole e severo puntato sul volto del ragazzo, oppure le forti parole che aveva appena pronunciato a convincere quell'uomo a dileguarsi a passo svelto di lì, visibilmente scosso.

Eppure qualcosa lo portò ad andarsene e smettere di perseguitarmi, girando di tanto in tanto il capo in nostra direzione per assicurarsi che non fosse seguito.

Il ragazzo si voltò nuovamente verso di me e io, ancora perplessa e incredula per quanto era accaduto, studiai ogni singolo particolare del suo viso, chiedendomi se in realtà non stessi sognando: le ciocche corvine portate all'indietro in una capigliatura impeccabile, un paio di penetranti occhi scuri puntati nei miei, un piercing al lato del naso e un accenno di barba rifinita.

Ero convinta che mai, nella mia vita, lo avrei più rivisto.

Invece, al contrario delle mie aspettative, il tenebroso sconosciuto si trovava proprio davanti a me, dannatamente bello come la sera del nostro incontro, indosso una camicia nera dalla fantasia floreale, e dei jeans altrettanto scuri.

Mi scrutava come fosse divertito dalla mia sorpresa, ma né i suoi occhi, né le sue labbra carnose stavano ridendo.

Emanava inquietudine, bellezza e mistero al tempo stesso.

«Kade».

Per la prima volta pronunciai il suo nome, e il ragazzo sollevò l'angolo della bocca in un piccolo sorriso sghembo, prima di tornare serio.

«Te l'avevo detto che ci saremmo rivisti, Charly» soffiò sul mio viso, e proprio come la sera prima, rimasi ammaliata dal suo sguardo intenso, e dal profumo esotico che emanava.

L'unica differenza era che questa volta non ero ubriaca.

Mi ripresi quasi immediatamente, comprendendo di meritare una chiara risposta alla domanda che avrei voluto porgli sin da quando, in fuga, lo avevo urtato.

«Ma cosa... cosa ci fai tu qui?» chiesi dubbiosa, fissandolo.

Era vero, il tenebroso sconosciuto aveva mantenuto la sua promessa...

Ma come poteva sapere dove mi trovassi in quel preciso momento?

Come poteva conoscere l'indirizzo della mia palestra?

A meno che non fosse uno stalker -non ci avrei messo una mano sul fuoco, arrivati a quel punto- era impossibile che mi avesse seguita.

Il ragazzo passò un dito sulla sua barba, volgendo per un attimo lo sguardo altrove: dopo un breve istante, però, lo incatenò nuovamente al mio.

«Sono il sostituto del signor Travis» confessò, facendomi aggrottare la fronte.

Non capivo cosa potesse c'entrare il mio insegnante di boxe in tutto questo.

Kade, a quel punto, fece un piccolo sorriso, ma non fu quello a smuovere ogni mio singolo organo interno.

Fu bensì ciò che disse poco dopo.

«Questo significa che, fino a data da destinare, sarò il tuo nuovo istruttore, Charly. Charlotte Abby Hoffman».


Spazio Autrice

Vi chiedo scusa per questo mio inmenso ritardo, ma ho avuto una brutta esperienza su Wattpad un po' di tempo fa che mi ha tenuta lontana da questa piattaforma, e solo adesso che sto tornando dalle vacanze ho trovato del tempo per pubblicare.

Cosa ne pensate di questo capitolo?

Di Warner delle sue parole e del suo atteggiamento?

Edith ormai sono sicura sia amata da tuttx, e come biasimarvi: è unica!😂🧡

E infine, il colpo di scena...
Kade, il tenebroso sconosciuto, ha mantenuto la sua promessa, ma non nel modo in cui Charly immaginava: è diventato il sostituto del suo insegnante di boxe.
Vi sareste mai aspettatx un tale risvolto? Cosa ne pensate?

Ci sentiamo su Instagram __.corastories.__ per informazioni sul prossimo capitolo,
Alla prossima!❤️

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