Capitolo 15 - Searching for Jerry Garcia
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╚»★ 4 ottobre 2003 ★«╝
Erano le dieci del mattino e il gelo aveva avvolto Detroit in un prematuro strato di brina. Proof si era alzato un po' più tardi del solito, Slim dormiva come un sasso e non c'era stato verso di svegliarlo. Quando esagerava con le dosi di Valium, crollava sul letto e neanche una bomba ad orologeria era in grado di farlo tornare nel mondo reale. Era tornato alle tre del mattino completamente fatto e ancora non aveva ripreso lucidità, forse un tè caldo lo avrebbe svegliato del tutto.
Guardandosi allo specchio non gli sembrava di avere trent'anni, se ne dava sempre dieci in più. Che fossero colpa delle occhiaie era scontato da dire, le canne gli toglievano il sonno e non riposava mai bene dopo una notte di sesso. L'ultima era stata un disastro, per non parlare del fatto che aveva nominato Junko nel momento sbagliato. Era stato fortunato, quella puttana non conosceva il giapponese e l'aveva confusa con una marca di biscotti. Lei li inzuppava sempre nel latte, mangiandoli con le mani e mostrando due guance paffute adorabili.
Scosse la testa per liberarsi di quei pensieri. Doveva smetterla di pensare a lei, quando stava con una donna. Si lavò il viso e lo specchio rifletté quelle brutte occhiaie profonde. C'erano tante cose che odiava di se stesso. Primo, il diastema in mezzo ai suoi incisivi. Il fatto che fossero simili a quelli di uno scoiattolo non giovava affatto a suo favore, lo facevano sembrare più bambino che adulto. Quando sorrideva si notava, o nei momenti in cui teneva la bocca socchiusa quando dormiva.
Secondo, le lentiggini. Si potevano vedere meglio da vicino o sotto una luce fortissima. Le luci del bagno le mettevano ben in risalto e sfiorandosi gli zigomi, notò un principio di secchezza. Trovò un barattolino blu e aprendolo, inalò un dolce profumo associabile al sapone. Doveva appartenere a Junko, dopotutto quel bagno lo condividevano in tre. Non aveva nulla da mettersi in faccia a parte quello, sempre meglio di nulla.
Se ne spalmò un po' sulle gote, guardando le lentiggini sotto la luce. Solo una ragazza dagli occhi a mandorla vedeva del bello in quelle macchioline brune, eppure si chiedeva cosa c'era di straordinario in un'imperfezione simile. Per lui sembravano sporcizia.
«Che fai, usi la mia crema idratante?»
«Era la prima cosa che avevo trovato.»
Junko gli strappò il vasetto dalle mani. «È per donne, non è fatta per te.»
«Dove sta scritto, nel foglietto delle istruzioni?»
Semmai era quello illustrativo, ma sarebbe stato stupido lo stesso.
La cosa assurda era che non aveva fatto caso al fatto che Proof avesse ancora la sua maglia preferita – ora larga per via degli anni e con qualche buco ai lati – e le scritte quasi cancellate che davano un tocco più grunge. La usava per dormire, e soltanto una volta Junko aveva avuto il privilegio di indossarla. Come se vestirsi da uomo lo fosse davvero.
Proof la guardò con la coda dell'occhio, mentre si lavava i denti. «Trent'anni, ti rendi conto? Sono prossimo all'ospizio.»
«Smettila, hai l'agilità di una lepre e ti lamenti per un paio di occhiaie?»
Sputò nel lavandino e si sciacquò. Già, aveva ragione. Guardandola massaggiarsi gli zigomi, sentì la mancanza di quella porta fisica fra le loro menti, quel varco che gli avrebbe permesso di sentire ogni parte di lei... da dentro di lei. Osservando le linee biancastre sul polso, avvertì una fitta al petto. Non le aveva parlato per un mese intero, dopo aver scoperto il suo segreto, e il solo credere che fosse stata lei a farsi male peggiorava il suo istinto protettivo.
«Sei ancora arrabbiato con me, Doody?»
Lui si voltò verso di lei, guardandola con le mani dietro la schiena e due occhi grandi. Somigliava tanto ad una bambina colpevole di aver rubato il burro d'arachidi dalla cucina. «Non lo sono mai stato» rispose con voce calma, inarcando leggermente le labbra. «Ero solo... shockato.»
No, era rimasto deluso. Sapeva di quello che aveva dovuto passare con sua madre, prima che passasse a miglior vita per colpa di una brutta malattia terminale, e ciò che suo padre aveva fatto loro patire. Sapeva di quell'enorme solitudine che era stata costretta a vivere per anni, dentro e fuori il proprio guscio. Due dolori che, insieme, erano capaci di distruggere l'anima pezzo per pezzo.
La morte non mi spaventa.
L'istinto da fratello maggiore cresceva, quando incrociava il suo sguardo: voleva abbracciarla, toglierle quella benda sul polso e...
Curioso, Proof tentò di sbirciare dietro le sue spalle – non era il solo, a quanto pareva. Fece un passo avanti, ma lei indietreggiò di rimando. «Cosa nascondi lì dietro?»
«Um, questo?» Fece uscire allo scoperto un pacchetto arancione lievemente deforme, senza un vero e proprio volume. Al centro c'era una coccarda gialla, probabilmente ripresa da un vecchio regalo. «È il tuo regalo di compleanno.»
«Potevi darmelo alla festa.»
«Ho preferito dartelo adesso che siamo soli, mi vergognerei in pubblico.»
Lei arrossì di tutto punto, lo sguardo basso e la punta del piede destro che torturava il tallone del piede sinistro con fare nervoso. Una postura piuttosto chiusa, ma che sapeva essere tuttavia tenera e fanciullesca. Sollevando l'angolo superiore del pacchetto, Proof vide un batuffolo peloso marrone. Notando la coda a quadrettini ricamata dietro, strappò tutta la carta e rivelò un oggetto insolito: un castoro di peluche con due grandi occhi nerissimi, un sottile nastro rosso legato intorno al collo. Sembrava una presa in giro.
«Un castoro. Tu mi hai regalato un castoro?» Nel momento in cui aveva alzato lo sguardo, aveva intravisto un lieve rossore sulle guance di Junko. Non riuscì a non sorridere. «Carino.»
«Potresti chiamarlo Proof Junior.»
Lui sorrise nel sentire quel tono disinvolto, pronunciato quella frase. Quel nome era già stato assegnato ad un altro suo amichetto, ma non era il caso di specificare chi.
«Mi piacerebbe chiamarlo Soul, come il genere musicale con cui sono cresciuto.»
«Non era il—»
«Testolina corvina, questa è la capitale della Motown. Se non conosci almeno una canzone, non puoi ritenerti un cittadino del Michigan.» Le pizzicò leggermente la punta del naso, facendola sogghignare. Poco dopo, si ricordò di una cosa. «Comunque, anch'io avrei qualcosa da regalarti.»
«Cos—?» Non riuscì a finire la frase, che Proof le prese la mano e l'accompagnò nella sua stanza. Sopra il suo letto smesso c'erano dei vestiti di seconda mano, apparentemente semplici. Non sapeva dove diamine li avesse acquistati, ma erano decisamente fuori dal suo stile. «Cosa sono?»
«Il tuo outfit per stasera, l'ho scelto per te. So che non ti piace esibirti troppo, ma vorrei lo facessi almeno una volta.»
Junko scelse di non farsi troppe domande, né tantomeno protestare, e si sfiorò i lembi della felpa. Proof era ancora lì. «Potresti uscire, così posso cambiarmi? Non voglio che mi guardi.»
Nulla che lui avesse già visto. – «Sarebbe la mia stanza.»
«Va bene, va bene. Rimani, ma almeno copriti gli occhi.»
Lui sbuffò e si girò, coprendosi gli occhi con le mani. Junko si affrettò a spogliarsi e restare in intimo sportivo, per poi rivestirsi con la massima cautela. Il pavimento era lievemente coperto di polvere e sporcarsi prima della festa non sarebbe stato il massimo.
L'immagine che lo specchio rifletteva era proprio la sua, anche se era difficile crederlo. Quei pantaloni satinati dello stesso colore del sangue, talmente aderenti da toglierle il fiato e con degli strappi sulle cosce era il capo d'abbigliamento più esplicito che avesse mai indossato. Per quanto fosse magra e senza curve, il tessuto spesso evidenziava i contorni e li metteva in risalto.
Perfino la canotta era aderente, la scollatura era tanto profonda da mostrare quel lieve cenno di riga del seno. Doveva ammettere che stava bene, ma non si sentiva a proprio agio. Non avrebbe mai avuto il coraggio di uscire con quella robaccia addosso, neanche sotto tortura. Eppure, per la sua festa di compleanno, stava facendo un'eccezione.
«Visto? Stai bene.» Proof la squadrò per bene dal riflesso, ma soffermandosi di più sui suoi capelli. «Aspetta, manca qualcosa.»
Fece un balzò all'indietro e recuperò il pupazzo dalla sua scrivania disordinata, sciolse il nastro avvolto intorno al suo pancino morbido e dopo aver preso una ciocca dei capelli di Junko, la legò facendo un fiocco. Lo specchio mostrò quell'immagine fraterna e piena di tenerezza come un film in bianco e nero, uno di quelli muti in cui il pianoforte la faceva da padrone.
«Questo lo terrai tu, così non sentirai nostalgia di me.»
Lei sentì le guance andare in fiamme, mentre note morbide e calme risuonavano per la stanza. Quel sound era familiare. Con lo sguardo basso, guardò il giradischi di fianco la scrivania. «Questo è...»
«Sì, è Jerry Garcia.» – Era il suo più grande idolo e non c'era un vero e proprio "perché", era andato semplicemente controcorrente. Il suo album preferito era Reflections, il terzo da solista. Gli piaceva ascoltarlo sdraiato supino sul letto a guardare il soffitto e sognare ad occhi aperti, immaginare un mondo fatto di pace e tranquillità. Alcune frasi ritraevano la sua personalità e il ritmo di ogni canzone un suo stato d'animo, anche se a prima vista era assurdo pensare che un artista rock folk fosse il ritratto della sua personalità.
Nessuno dei due si muoveva per fare la prima mossa, si trovavano dalle parti opposte della camera da letto. Proof ascoltava quelle parole e associandole a Junko, quel desiderio afrodisiaco che provava nei suoi confronti non aveva niente a che vedere con una misera attrazione sessuale. Osservando i suoi capelli neri e sottili sciolti lungo la schiena, le note di Jerry Garcia risvegliarono le proprie emozioni. Sarebbe stato bello poter vedere i suoi capelli legati da un fiocco, possibilmente rosso... come Annie che giaceva con la testa fra le rose, con tanti fiocchi rossi che adornavano la sua chioma morbida e castana.
It Must Have Been The Roses era una delle sue canzoni preferite, una di quelle che mai aveva dedicato ad una donna. L'aveva ascoltata tante volte, chiedendosi cosa significasse provare il vero batticuore – quello che mostravano nei film, che raccontavano nelle fiabe. Si era sempre domandato cosa spingesse una principessa ad innamorarsi del principe, se fosse un'emozione dettata dallo spirito o dal corpo.
Quando dico il tuo nome, inizio a tremare dentro. Quando ti vedo camminare, perdo il controllo.
Perché nessuna di loro era stata capace di fargli sentire emozioni così forti e genuine.
Questo è ciò che l'amore farà per te.
«Senti, Junnie...» Avvertì un groppo in gola e si schiarì la voce, invertendo la marcia. «Ieri sera ho scritto una bozza, volevo fartela leggere.»
Si allontanò in cerca di qualcosa, più precisamente del suo quaderno dalla copertina bianca con il cane stampato sopra. Lo aprì verso la metà e gli mostrò una serie di rime pastrocchiate, quelle sottolineate di rosso erano quelle che erano state corrette più volte. Spinta dalla curiosità, Junko ne lesse una dopo l'altra.
I demoni mi tirano l'anima fino a farla a pezzi.
Mi sono svegliato oggi dicendo: "Perché mi lasci respirare di nuovo?".
E con ogni respiro sento la morte insinuarsi.
Si sentì fischiare improvvisamente l'orecchio. Quelle parole non erano nuove, per lei.
«Ho pensato a te, quando l'ho scritta.»
Per qualche motivo sentì le gambe molli, come il resto del suo corpo. «In che senso?»
«Dopo le ultime lettere che hai scritto prima di trasferirti da me, ho capito quanto io e te siamo simili. Anch'io ho dei demoni che mi fanno uscire pazzo.» Dopo l'ultima frase, tirò su col naso e la sua espressione cambiò. Nel frattempo, il vinile si era fermato. «Non sembra un argomento adatto per un album hip-hop, perché di solito si parla di macchine e vita di strada. Però non è quello che voglio.»
«Vuoi davvero parlare di questo nelle tue rime?»
Lui semplicemente annuì. Non gli piaceva parlare di volgarità, né tantomeno fare dissing – tranne quando era necessario. Voleva che la gente lo ricordasse come un vero artista, che avesse fatto del proprio meglio e che venisse apprezzato per ciò che era e non in quanto "l'amico del cuore di Eminem". Non voleva essere mainstream, ma rimanere umile e avere la sua piccola cerchia di ammiratori. E lui era sempre buono con gli altri, famosi od ordinari che fossero.
Girando pagina, Junko vide alcuni scarabocchi. Sembravano non avere forma, eppure quelle specie di geroglifici somigliavano tanto all'alfabeto cinese. «Cosa sono questi?» chiese, senza trattenere un sorriso.
Proof si grattò la nuca, mostrandosi lievemente a disagio. «Volevo provare a scrivere il tuo nome in giapponese, ma non conosco l'alfabeto.»
Ecco spiegate quelle strane somiglianze. «Te lo scrivo io. Hai una penna?»
Lui recuperò quella appoggiata sulla scrivania, appena sotto il suo walkman, e gliela porse. Sotto le lettere, Junko disegnò una serie di simboli – si trattavano di kanji e ne esistevano più di duemila. Proof osservò meravigliato il movimento della punta d'inchiostro disegnare quattro linee che per lei avevano un significato ben preciso, mentre per lui erano solo lineette e curve messe a caso. Il suo nome si pronunciava "yun-ko" e significava "bambina pura", ma guardandola negli occhi si vedevano macchie scure indelebili.
Proof le aveva viste fin dal primo giorno, e purtroppo non esistevano cure se non la morte. Se lui fosse stata una persona comune, Junko non avrebbe mai lasciato che una lama affilata l'aprisse per guardarla sanguinare, poter guardare coi propri occhi quella fragilità emotiva e quel dolore che soltanto chi aveva provato davvero sapeva riconoscere. Un qualsiasi chiunque non ne sarebbe stato in grado, che avesse sofferto o meno, perché nemmeno chi lo sentiva sulla propria pelle non sapeva decifrare quella combinazione di dolore e sofferenza che si nascondeva dietro un sorriso, un semplice 'va tutto bene' e un'apparente vivacità insospettabile. Era un demone invisibile che non lasciava scampo neanche alla persona più forte e più ci si abbandonava a se stessi, più diventava grande e soffocante fino a chiudere il cuore in una gabbia.
«Se provassi a scrivere il mio nome in giapponese, come verrebbe fuori?»
Jun alzò lo sguardo e guardò Proof, esitando. Inarcò lievemente le labbra con fare nervoso, dopo essersele umettate con fare impacciato. «Non penso esistano caratteri per scriverlo, Deshaun.»
Due occhi a mandorla lucenti come i suoi non meritavano di sbiadire, così come quelli di tante altre anime sporche. Lei era così fragile che il minimo contatto avrebbe potuto frantumarla. Anche se chi ne era vittima lo sentiva nel profondo, fingeva di stare bene. Non cercava pietà.
Bistrattata da tutti, anche dalla tua famiglia. Nessuno può ascoltarti, mi vedi solo tu.
Voci sussurrate che le riempivano la testa fino a farla gridare in silenzio.
Vuoi guarire, vero, piccola anima in pena? I farmaci non ti salveranno.
Grida che nessuno avrebbe potuto sentire.
Così vuoi uccidermi, eh? Ma se io morirò, tu verrai con me.
Proof sapeva cosa significasse, aveva dimostrato più volte di condividere con Junko quel dolore indissolubile che solo un milionesimo della popolazione mondiale provava. Loro erano quel raro caso clinico dove avevano cercato la cura attraverso il sangue e il disordine, chi in un modo e chi in un altro. Lei sorrise appena, gli occhi socchiusi per la luce della lampada che le andava in faccia. Lui sentì l'irrefrenabile desiderio di baciarla, ma prima che avesse potuto solo avvicinarsi, il rumore della porta disturbò quella quiete.
La sagoma possente di Marshall comparve sulla soglia. «Doody, mandorla, dove cazzo siete? I ragazzi sono qui fuo— cosa diamine stavate facendo?»
Junko rimase paralizzata dallo spavento, mentre Proof si affrettava a scendere dal letto con un balzo. «Colpa mia, mi sono perso fra i vinili» sdrammatizzò, infilandosi il berretto bianco sulla testa. «Cinque minuti che metto a posto il letto, poi possiamo andare.»
Marshall alzò un sopracciglio. Da quando Proof si preoccupava di rifare il letto? Lui era sempre abituato al disordine e non lo aveva mai visto tirare a lucido una camera da letto, né tantomeno una cucina. La cosa era sospetta. Poi, guardò la ragazza e socchiuse le palpebre a fessura. Cosa accidenti si era messa addosso?
Lei se ne accorse e schizzò fuori dalla stanza, sentendosi profondamente in imbarazzo. Proof la stava richiamando, ma lei lo ignorò; aveva appena superato la soglia della porta, quando si sentì afferrare il polso bendato. Junko gemette dal dolore, ricordandosi che quei tagli non erano ancora guariti, e una forza la costrinse a tornare indietro e voltare lo sguardo. Appena lo sollevò. si ritrovò davanti gli occhi di ghiaccio di Marshall che la scrutavano con rabbia.
«S-scusa» si sforzò di sussurrare, ma lui non parve averla sentita. L'impulso di scusarsi anche per qualcosa che non aveva fatto, o anche soltanto senza una ragione, stava diventando istintuale e non poteva fare altro se non vergognarsene.
«Spero tu non abbia fatto altre stronzate» la minacciò con tono monocorde.
La paura sovrastò Junko e all'improvviso non riuscì a sentire più niente; né il suo cuore che batteva, né il respiro in gola. Avrebbe dovuto sapere che quella rabbia era dovuta alle pillole che prendeva – e di cui ancora continuava ad abusare – e che anche una singola parola di troppo le sarebbe costato uno schiaffo.
«Sei carina, comunque» mormorò lui l'istante dopo, lasciandole il polso. Parve sorpreso di se stesso in quel momento, perché subito si affrettò a voltarsi verso Proof e dire qualcosa che Junko non sentì nemmeno.
La giornata non poteva cominciare meglio.
Prima di uscire, recuperò ossigeno con l'inalatore e si affrettò nell'indossare una felpa. Sentiva freddo e, cosa più importante, nessun altro doveva vedere le sue braccia. La vecchia Porche di Royce era parcheggiata davanti casa, a bordo c'erano Swifty e Kuniva – che alla vista di Junko, fecero un cenno con una mano. Sarebbero passati a prendere Kinsley ed Alan, dopodiché avrebbero raggiunto la loro destinazione. Salendo a bordo, si rannicchiò nell'angolo. Nessuno sospettava nulla, era un buon segno.
Ci erano volute svariati minuti prima di lasciare quella baraccopoli che era il Mobile Home Park. Non aveva idea di dove avrebbero festeggiato, ma quel che Junko voleva di più era il non doversi togliere la felpa di dosso. Una cosa era più che certa: non avrebbe rincasato prima delle due di notte – le feste di compleanno tra di loro duravano addirittura tutta la notte. Essendo anche un sabato, le probabilità erano altissime. Si stropicciò una palpebra, sentendo il fastidio del mascara. Sarebbe crollata presto, soprattutto ora che le ore di sonno erano diminuite.
La prima tappa di quel sabato sera sarebbe stato il fast food, dove avrebbero cenato tutti insieme. Junko non aveva toccato nulla, detestava il cibo spazzatura e il fatto che fosse vegetariana peggiorava solo le cose. L'aria lì dentro è asfissiante, ogni respiro le sembrava appesantirle il corpo. Avrebbe voluto potersi permettere di fumare solo per aver una scusa per uscire, respirare ed evitare tutto quel barlume di socialità.
Swifty parlava con la bocca piena, gustandosi la sua cena. «Strano che sia stato proprio tu ad invitare la migliore amica di Junko, quando quel compito spettava a lei.»
«Mi dispiaceva lasciarla sola, quindi ne ho approfittato e...»
Denaun sorrise maliziosamente, dandogli una pacca sula spalla. «Qualcuno si è preso una sbandata!»
Kuniva arrossì, guardando uno per uno. Nascondevano tutti un sorrisetto divertito, brutti bastardi. «Ma che cazzo dite?»
«Sei un libro aperto, Von. Ti si legge in faccia che ti piace Scott.»
E a proposito di Kinsley Scott, era seduta sul tavolo accanto con Marshall, Royce, Alan e il festeggiato. Junko, invece, era rimasta in disparte e guardava gli altri cenare in compagnia. Non toccò cibo, nonostante i crampi allo stomaco. Quella brutta sensazione di disagio non le dava tregua, e fissare i Dozen mentre cenavano e ridevano non era il modo migliore per festeggiare il compleanno del loro leader. Da psicopatici, anzi.
Dopo la cena, la prossima tappa era il parco. Come voleva la tradizione, ci sarebbe stata la doccia col barilotto di birra e il taglio della torta – un'idea di Royce, secondo le parole di Swifty e Kon Artis. Lei non badava troppo a quel discorso, si era limitata a guardare la maschera di quel quartiere di periferia. I marciapiedi erano colmi di foglie gialle, gli alberi quasi spogli e dall'aspetto spettrale. La nota positiva era che il cielo era limpido e pieno di stelle, la luna crescente in cielo che illuminava il verde di quel prato e i giochi circostanti.
Si stava già facendo buio e le strade erano poco illuminate, ma ciò non sarebbe bastato a fermare tutta quella baldoria. Sembravano tutti in sintonia, ed era uno dei grandi pregi di quel gruppo. Sei ragazzi accompagnati dal proprio alter ego, come se fossero il doppio. Dodici entità, ognuna con la propria sfumatura. La sua attenzione, d'un tratto, si spostò su Marshall e Proof, e si sentì in bilico, osservando entrambi con una bottiglia di birra fredda e ancora da stappare. Li guardò tutti e due e cercò di pensare, ma tutto ciò che riuscì ad elaborare era la paura. Una paura divisa in due, due parti diametralmente opposte.
La prima era quel tormento incessante del sangue e quell'irrefrenabile desiderio di giungere alla morte, nascosto sotto due occhi di ghiaccio limpidi. Perché lui faceva letteralmente paura, ma quella che provava Junko era diversa. Aveva visto come contava i giorni sui suoi polsi, così come l'aveva salvata tante volte. Ciononostante, era stato capace di trasmettergli quell'ansia incombe che per anni l'aveva tormentata, quel dolore che le faceva palpitare il cuore e andare in apnea. Ogni volta lo aveva cercato graffiandosi, tagliandosi... subendo.
Con un gesto istintivo, si portò una mano sul lato sinistro del collo dove sentiva pulsare la carotide. Riusciva a sentire su di sé le mani di Marshall sulla gola, il suo respiro contro la pelle. Lui gliele faceva pesare e faceva più male. Un dolore di cui ne era dipendente, ciò che la rendeva se stessa.
La seconda era l'amore sincero, seppur con qualche macchia di sangue. Ciò che avrebbe potuto dare speranza alla sua vita, farla allontanare da quel bilico. Più l'istinto di tendere la mano verso la libertà si faceva pressante, più si spaventava. Perché Proof era il pacificatore, l'angelo tormentato. Eppure Junko non lo aveva mai visto con una ragazza e nonostante avesse legioni di femmine che gli ronzavano intorno, lui sembrava non interessarsene. O forse era soltanto lei che voleva crederlo.
Si sfiorò il fiocco rosso che legava i suoi capelli. Proof era colui che voleva darle una ragione per combattere mano nella mano, ma lei era conscia di non essere destinata alla felicità. Anzi, non ne era degna.
«Che ci fai da sola, ju-ju?» Royce distrusse quella bolla di vetro, sedendosi di fianco a lei su quel piccolo spalto. «Ti stai perdendo la torta.»
«Non ho fame.» Subito dopo averlo detto con tono monocorde e apatico, si sentì tremendamente scortese. Ciononostante, lui era ancora accanto a lei, e non voleva tenerlo ancorato su quei piccoli spalti arrugginiti solo perché aveva preso le distanze da tutti quei festeggiamenti.
Poco dopo guardò i Dozen divertirsi fra alcolici e schifezze, intuendo il motivo della sua tristezza. «Non ti senti a tuo agio con tutti questi uomini, vero? La tua amica Kinsley non ti ha cercata?»
Lei era troppo impegnata a parlare della sua vita con Kuniva. – «Sono abituata ad essere in secondo piano.»
«Allora resterò io con te.» Successivamente si alzò in piedi. «Ti porto una fetta di torta, aspettami qui.»
Alzando la testa, guardò Proof pulirsi la faccia dalla panna. Rideva divertito, mentre Swifty cercava di bagnarlo con la birra. Non avrebbe mai capito il divertimento nello spiaccicare la torta sulla faccia del festeggiato, così dome la doccia di champagne o di birra. Nonostante la povertà in cui vivevano, non si facevano scrupoli a sprecare quel bendidio pieno di calorie.
Royce finalmente tornò e le porse un piattino di plastica con una fetta di torta. Junko sentì un rigurgito venirle su, ma riuscì a trattenerlo e prendere fra le mani il dolce. Intuendo la sua espressione a metà fra il disgustato e il diffidente, il ragazzo subito alzò le mani. «Non è veleno, è panna e cioccolato. Proof ne è ghiotto, per questo ne abbiamo portate tre. Pensa che ha già divorato sette fette.» Finalmente la ragazza riuscì a sorridere e mettere in bocca un boccone. «Visto? È buona.»
«Sì, avevi ragione, Ryan. Dovrei smetterla di farmi tutti questi complessi.»
«Un po' di ciccia fa bene, soprattutto a te. Sai, saresti più carina in carne.»
Sentì di colpo una vampata di calore che la costrinse a liberarsi della felpa. Nessuno si stava facendo domande sul polso destro bendato, né tantomeno sulle altre cicatrici. Sperò di non avere la febbre, o J le avrebbe fatto fare gli straordinari.
«Yo, Jun, stai bene?» domandò Swifty, notando da lontano che aveva inclinato la testa.
La testa iniziò a girarle vorticosamente. «B-bene... credo.»
«La porto a fare una passeggiata, forse ha bisogno di camminare un po'.» Proof corse subito da lei, aiutandola a rialzarsi e mettere via la torta ancora a metà. «Voi preparate pure il barilotto, vi raggiungiamo dopo.»
La sorresse per le spalle, aiutandola a reggersi in piedi, l'aiutò con l'inalatore e Junko riuscì a riprendere la vista. L'ossigenò arrivò ad alleggerirle il corpo solo pochi attimi dopo, quando una mano avvolse la propria. Quel contatto fisico era lo stesso dello Shelter, poco prima della battaglia. Quel maledetto calore che la cullava come in una notte d'inverno, fra un plaid di lana e la fiamma di un caminetto. Per un motivo che lei non sapeva spiegarsi, tenere la mano di Proof faceva scomparire quella sensazione spaventosa dal proprio corpo.
«Stai meglio?» le domandò lui, avvicinandosi al suo orecchio per farla sentire meglio.
Junko batté le palpebre un paio di volte, e finalmente mise a fuoco degli occhi marroni magnetici e un'espressione preoccupata. «Sì...» pigolò, riuscendo a raddrizzare la schiena e a non incespicare. Non gli lasciò la mano, non si preoccupò nemmeno di lasciarla bruscamente. Ne aveva bisogno più che mai.
Non sapeva più come comportarsi con lui, dopo quello che era successo la notte del suo venticinquesimo compleanno. Erano andati oltre quella barriera e prima dell'alba, lui l'aveva abbracciata come se avesse voluto fondersi con lei. Non aveva sentito nient'altro che gelo e brividi, eppure non riusciva a smettere di pensare al momento in cui l'aveva guardata. Dolce, affettuoso. Un angelo che aveva preso la sua mano per salvarla, seppur l'oscurità lo tenesse incatenato – non abbastanza da immobilizzarlo.
Quando girarono l'angolo di quella stradina, un edificio in mattoni rossastri fece capolino. Junko non aveva idea di cosa fosse, se un capannone abbandonato o una scuola. Poco dopo, ebbe un senso di nostalgia. Aveva frequentato il primo anno in quella scuola, prima di trasferirsi nei quartieri alti. Quella zona della Seventh Mile era apparentemente normale, peccato soltanto per tutta quella spazzatura in giro e quel vuoto pestilenziale sulle strade. Più le si attraversava, più il terrore arrivava a soffiarle sul collo e Junko lo sapeva.
«Non te lo ricordi più, Junnie? Era qui che abitavo prima di spostarmi verso Dresden.» Si rese conto di essere rimasta in silenzio a fissarlo e sentì un groppo alla gola. Perché non riusciva a parlare? «A proposito, vediamo se ricordo dov'era casa tua.»
Tornarono indietro, restando in quella strada rigogliosa e fredda mano nella mano, ma poco dopo si avventurarono in una zona più nascosta. Una stradina stretta e fangosa si palesò di fronte a loro, sempre e comunque circondata dall'autunno e dalle foglie cadute, portandoli proprio in quella famosa strada. Saltarono una minuscola recinzione di metallo e sbucarono più precisamente nel mezzo, in quel grande spazio verde fra due case.
Proof si era ricordato della sua vecchia casa, quella dal tetto rosso sbiadito spiovente e il secondo piano che pareva più una soffitta che la cameretta di una bambina. A destra c'era una casa abbandonata, dove abitava il suo ex vicino texano. Chissà che fine aveva fatto quel vecchietto.
«Non posso credere che ti ricordi ancora casa mia» sogghignò lei, osservando quella 18924 dalle tende rotte e la porta barricata in ferro battuto ancora nuova. L'avevano cambiata un anno prima di trasferirsi, i nuovi proprietari la trattavano piuttosto bene.
«Come dimenticarla? Prima di Doody, ero il figlio nero della tua famiglia.»
A Proof veniva da ridere, quell'appellativo non era mai scomparso dalla sua vita. Prima di Marshall, la sua vita non era stata tanto diversa. Guardando la sua mano congiunta a quella di Junko, si ricordò della cassetta che aveva lasciato nel portaoggetti della macchina. Forse non le avrebbe mai regalato quella canzone. Le emozioni che aveva messo in quelle rime baciate ed alternate avrebbero potuto toccarla nel profondo. Del resto, camminare sulle strade della periferia di Detroit alle tre di notte senza una meta, non era qualcosa di cui andarne fieri. Né tantomeno da meritarsi.
Ma se ripensava a tutte le lettere che Junko gli aveva scritto negli anni...
«Qui nei paraggi dovrebbe esserci una casa abbandonata.»
Junko avvertì un brivido sulle spalle. «Che vuoi dire?»
«Non aver paura, è disabitata. Io e Doody ci nascondevamo lì, quando eravamo inseguiti dagli sbirri.»
Fu allora che si accorse di aver superato quel tratto di strada alberato ed essere giunti davanti una villetta familiare senza infissi, un pannello di legno faceva da porta ed era facile da forzare. Era stata abbandonata già da anni e mai era stato dato l'ordine di abbatterla, con essa anche una seconda. Presto quella parte di Dresden Street sarebbe stata dimenticata, forse addirittura scomparsa – le quattro case nei dintorni non la ringiovanivano di tanto.
Proof liberò il passaggio con un piede di porco trovato sotto gli infissi di cemento, per poi gettarlo nell'erba ed intrufolarsi dentro. Junko lo seguì poco dopo, smarrita e col freddo sul naso.
«Una volta ci abitava un ex militare» raccontò lui, trovando un materasso impolverato in verticale. Prima di sbatterlo sul pavimento rotto e pieno di schegge, riuscì a trovare una vecchia medaglia al valore. La raccolse per poi guardarla sul palmo della propria mano. «Era un uomo pieno di principi e di buona famiglia. Lo hanno lasciato morire da solo.»
Jun osservò una vecchia libreria piena di piante appassite, senza stupirsi di quella serie di libri dalle pagine gialle, o il fatto che quel vecchietto avesse collezionato vecchie polaroid. Erano sparse su ogni scaffale, ingiallite e piene di macchie nere. Tranne due, dove si vedeva lui da giovane in divisa. «La casa era stata data in eredità ai figli, ma alla fine l'hanno abbandonata. Nessuno voleva vivere in questa strada.»
«Avete saputo di lui nascondendovi qui?»
«Già, un po' ci siamo affezionati» Posò la medaglia sopra ad una vecchia cassettiera, di cui erano rimasti tre cassetti su sette. Gli angoli erano rovinati, così come le maniglie arrugginite. «Soprattutto quando volevamo allontanarci da tutto e tutti.»
Junko non ebbe tempo di realizzare il tutto, che Proof le afferrò i fianchi e la sbatté contro il muro. Sentì il bacino di lei combaciare con il proprio, appoggiarsi alle sue spalle con le braccia e piegare la testa sulla sua spalla. Per un attimo sparì tutto e il tempo si fermò.
«Ci avete mai portato qualcun altro?» La domanda uscì spontanea, e si morse la lingua dall'imbarazzo.
Dio, perché non mi faccio mai gli affari miei?
«Nessuno, neanche gli altri Dozen» rispose, mentre la peluria sul mento sfiorava la sua pelle. Entrambi furono scossi da un brivido, non sapevano se era il freddo d'autunno che entrava in quella casa abbandonata o qualcos'altro. «Tu sei la prima ed unica.»
Junko avrebbe dovuto esserne onorata. Invece, si sentiva un po' turbata – voleva l'aria che le mancava, la polvere e i mobili vecchi intorno puzzolenti di muffa. Voleva tornare a casa e rifugiarsi sotto le coperte calde del suo lettino, l'unico guscio che la teneva al sicuro. Bastarono pochi istanti perché quel desiderio scomparisse dalla propria mente, facendo posto a quel calore fraterno che le stava scaldando il viso.
Poco dopo una nube di polvere si sollevò in aria quando i corpi sbatterono sulla superficie dura e fredda del vecchio materasso. Proof non perse tempo e cercò le sue labbra, donandole un bacio bisognoso, ma dolce. Le rubò quel poco di respiro, bagnando con la lingua il contorno delle sue labbra. La sentì abbandonata sotto di sé, il corpo morbido e fragile, le gambe intorno alla vita.
Non sai che sono innamorato di te?
Le sue mani afferrarono il lembo della canotta e quando lei alzò le braccia, quel corpo minuto color avorio venne illuminato dalla fioca luce della notte. Il reggiseno abbinato ai pantaloni che indossava era l'immagine più sexy che Proof avesse mai visto. Lei non aveva nulla da invidiare alle cubiste. Glielo tolse con nonchalance, osservando le sue piccole punte indurirsi a causa del freddo. Anche lei fece lo stesso con la sua maglietta consumata, lasciandolo a dorso nudo.
Si chinò per guardarla negli occhi, prendendole la mano sinistra. Con le labbra sfiorò un lembo di pelle, appena più in basso alle sue tacche di prigionia ormai diventate giallastre. Accarezzò la prima tacca, poi si chinò e vi appoggiò le labbra. Senza distogliere lo sguardo dal suo, tracciò un sentiero di baci su ogni marchio sull'avambraccio. Faceva male guardare quella pelle morbida rovinata, e non osava immaginare il polso destro bendato.
Una scossa fra le fibre nervose lo costrinsero a rialzarsi. La guardò supina su quel letto e un senso di colpa lo sovrastò, mentre quelle parole riaffioravano nel proprio inconscio. Una voce, per la precisione. La piena consapevolezza di quello che stava facendo con lei lo faceva sentire sbagliato, immorale. Perché la stava usando, nonostante il proprio cuore battesse forte e come mai prima di quel momento.
Non arrenderti, hai una tazza vuota che solo l'amore può riempire.
Avrebbe potuto lasciare che fosse lei a riempirla nonostante tutto, ma la verità era un'altra e faceva molto più male. Lui non era in grado di voler bene qualcuno al di fuori di Marshall, perché nessun essere umano era stato in grado di riempirlo, né col corpo né con l'anima. Junko lo vedeva come una persona compassionevole e risolutrice, non conosceva il suo passato burrascoso.
«Perché ti sei fermato?»
La sua coscienza lo stava cazziando per quello che stava facendo. Anche lui aveva un segreto, un qualcosa che aveva un nome lungo e complicato. Come lo avrebbe visto da quel momento in poi, se glielo avesse detto? Ma soprattutto, avrebbe mai accettato di convivere con una persona che infrangeva la legge solo per richiamare l'attenzione di qualcuno? Avrebbe mai amato un uomo che vedeva l'amore come un sentimento superficiale? Se lei si fosse davvero innamorata di lui, non sarebbe stata felice, e lui desiderava regalarle ricordi felici.
«Junnie, io... io non sono fatto per una vita normale. Non so neanche dirti se io stesso sono normale.»
Approfittò del fatto che fosse chino su di lei per accostare il proprio viso al suo, il respiro irregolare di lei raggiunse improvvisamente i sensi e solo allora si accorse che una lacrima gli stava percorrendo la guancia. Per la prima volta le emozioni avevano avuto la meglio sul suo orgoglio e non gliene importava. — «Tu mi vedi così, ma la verità è che ti sto ingannando. Sto ingannando tutti. Cerco attenzioni nei modi peggiori, sono stato in galera troppe volte per colpa di questo mio bisogno. Ci sono momenti in cui vorrei scomparire, altri in cui vorrei sentire un abbraccio... non so neanch'io cosa voglio davvero.»
Guardò Junko battere le palpebre, il corpo intorpidito e il respiro corto. Sembrava scossa da quel che aveva appena sentito, e subito il cuore di Proof si strinse. Avrebbe voluto tenerla all'oscuro da tutto, dimostrare che fosse davvero un bravo ragazzo e che avrebbe potuto... salvarla, in qualche modo. Ricordò tutto: l'incidente del preservativo rotto e la prima responsabilità da cui era fuggito, l'incendio che aveva appiccato alla sua stessa casa a quindici anni, quella fantomatica notte in cui aveva posto fine alla propria fanciullezza... la paura di perdere i propri amici, se solo avesse commesso un passo falso...
Si spostò da lei e si asciugò la guancia col palmo della mano. «Scusa, sono patetico.»
Lei si protese, mettendosi seduta per accarezzargli la guancia. «No, non lo sei, Doody.»
Proof serrò le labbra, nel tentativo disperato di reprimere quella brutta sensazione di fastidio. Odiava vedere una persona empatizzare con lui, peggio ancora se lo toccava. Tuttavia, non sapeva spiegarsi il motivo per cui ancora non l'aveva respinta. Le sue mani erano fredde, così come le sue braccia, ma trasmettevano un senso materno che mai aveva sentito da una donna qualunque.
«All'epoca ero invidioso di te, perché avevi una madre premurosa che ti voleva bene. Mentre la mia...» distolse subito lo sguardo, scostando la sua mano dalla guancia. Sentì la voce rotta e per la prima volta, non gli importò. «Non guardarmi in quel modo, ti prego.»
«Anche mio padre mi ha abbandonata nel momento del bisogno. So come ci si sente, Proof.»
«Tu sei stata felice, io no. Non ho mai conosciuto la felicità. Sono vent'anni che spacco vetrine, buco le gomme delle macchine, appiccico incendi. Tutto questo perché sono incazzato con Dio e non avrò mai la sua grazia.»
Come se tutta la colpa della sua infelicità fosse stata sua.
«Questo però non ti dà motivo di abbandonare la tua fede, la puoi sempre ritrovare.»
Proof alzò la testa. «Tu ce l'hai?»
«Io sono shintoista, credo semplicemente nei kami.» Gli accarezzò il petto con la punta delle dita, e il suo tocco si fermò all'altezza dello sterno. Lo guardò con lo stesso sguardo di quando per la prima volta avevano fatto l'amore. E lui sapeva che era eccitata quanto lui, se non più di quella notte. Era la prima volta che Junko toccava i suoi tatuaggi, i nomi dei suoi amici morti sparsi sul petto senza un vero e proprio ordine.
«Noi amiamo il prossimo e la nostra famiglia, non importa se è disfunzionale o sana. Ti basta una vita semplice ed in armonia con la natura e le persone. Carità è la nostra parola d'ordine. La nostra felicità sta in un piccolo gesto, quello che anche tu stai facendo con i tuoi amici.» Prese la sua mano con entrambe le sue e se la portò fra i suoi seni nudi, il suo indice sfiorò un capezzolo turgido. «E con me.»
Dopo quelle parole, Proof si perse nei suoi occhi scuri, lucidi e imploranti. Stava guardando le cicatrici sul suo avambraccio sinistro, quella serie di piccoli tagli simili alle tacche che incidevano i carcerati sui muri. Per contare i giorni che la separavano dalla morte. Nessuno sapeva leggere la sua anima e guardare attraverso quella spaventosa oscurità che avvolgeva il suo cuore. Tranne lui.
Non voglio nessuno che ti ami, voglio amarti solo io.
«Allora voglio che anche tu faccia un piccolo gesto per me: non voglio vedere cicatrici sul tuo corpo.» Allargò il palmo della mano per toccarla e sentì la sua pelle calda, morbida. Lei gemette, socchiudendo gli occhi in un'espressione rilassata. «Promettimelo, Junnie. Promettimi che non ti taglierai mai più.»
Junko si aggrappò a lui ed inarcò la schiena, aumentando di più quel contatto fisico. Si stava abbandonando sotto di lui, fra un tocco e l'altro, e quasi in apnea. Stava per perdere di nuovo il respiro. «T-te lo prometto» riuscì a risponderle, mentre il piacere la invase ed offuscò ogni pensiero.
Strinse i denti sotto le labbra chiuse e tese, e si costrinse a ingoiare quella sensazione amara. Lo fecero ancora e ancora, il tempo si era fermato solo per loro. Esistevano solo loro due in quella casa abbandonata, quella prigione di polvere come una via di fuga momentanea per liberarsi dal dolore. Le conseguenze non avrebbero dovuto avere importanza, finché lui era tra le sue braccia.
«Ti voglio bene.»
Non era un 'ti amo', ma fu abbastanza per farle scivolare una lacrima di gioia. In cuor suo sapeva di aver commesso un grande errore cominciando quella serie di tresche, tuttavia sentiva di dovergli stare vicino e nello stesso modo in cui lui faceva con lei – anche senza amore. Il fiocco rosso che teneva una ciocca minuscola dei suoi capelli sarebbe stato il loro piccolo grande legame emotivo.
Non lo so, forse sono state le rose. Tutto quel che sapevo era che non potevo lasciarla lì.
N.A.
Buonasera, popolo wattpaddiano! Or dunque, da dove comincio? Direi dalle scuse, perché ancora una volta sono in ritardo. Fra gli impegni e qualche piccolo problema di salute, non sono riuscita a revisionare il capitolo in tempo. L'autunno è bello, tranne per l'influenza.
Da questo capitolo comincia il secondo arco narrativo, quello che andrà a concludere la prima parte di questa storia. Se avete visto gli spoiler su Instagram prima dell'uscita della fanfic, avrete già capito quando si concluderà "Survival" e da dove partirà "Revival". In caso contrario, v'invito a farlo. Mi trovate col nome di 'bluecharmygloria' :3
Il titolo del capitolo non è una scelta casuale, poiché tutto è concentrato sui trent'anni di Proof (rip, homie). Scoprirete anche qualcosa di più su di lui, ovviamente basandomi esclusivamente sulle sue rime. "Searching for Jerry Garcia" è stato il suo primo vero album e vi consiglio di andare ad ascoltarvi questa piccola gemma - non solo per la rimica, ma anche per il significato di ognuna. Fidatevi, ne vale la pena.
Non ho idea di quando aggiornerò, spero presto, perché ho intenzione di spararmi qualche vecchio dissing di Eminem in questi giorni, sia per ispirazione, che per lo scandalo di Diddy che mi sta appassionando un botto. Forse lo sfrutterò per la trama, chissà! :P
Detto questo, vi auguro sogni d'oro e, mi raccomando, idratatevi!
- Gloria -
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