Capitolo 14 - Every step that I take is another mistake to you
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╚»★ 5 febbraio 2003 ★«╝
Junko chiuse l'anta dell'armadio dopo essersi sfilata la sua felpa rosa pastello smessa, arrabbiata e delusa. La gettò per terra con disprezzo. Al diavolo lo Shelter! E al diavolo Swifty McVay! Doveva proprio provocare Hyde in quel modo, al punto di lanciare l'ennesima sfida a colpi di rime improvvisate? Jun ne aveva fin sui capelli, e pensare che non voleva essere coinvolta in quella merda fin dal principio.
Cominciò a pensare che la sfortuna fosse passata allo stadio avanzato, al punto da farla diventare il bersaglio preferito di una banda di finti gangster. Alla fine era questo: un bersaglio. Se l'intenzione dei Mobs era umiliarla, tanto valeva fare scena muta e dar loro la vittoria. Diventare la zimbella del quartiere sarebbe servito a scrollarsi di dosso tutte quelle attenzioni, specialmente se la gente sparlava della sua presunta relazione con Marshall.
Non sapeva più cos'aspettarsi da quell'uomo e quando se lo ritrovava di fronte, si sentiva sotto pressione. Era stanca di essere ciò che voleva che lei fosse, una combattente nata per sopravvivere. Stava iniziando ad odiare quel verbo. Ogni passo che faceva per sopravvivere era un errore per gli altri, e ogni secondo che sprecava a compiangersi era diventato più di quanto avesse potuto sopportare.
«Jun, è quasi ora.» La porta della sua stanza si aprì e Proof comparve dietro le sue spalle. Dal riflesso dello specchio verticale, notò che aveva ancora il viso segnato dalle canne di marijuana e Rivotril, ma di certo non lo rendevano meno affascinante. «Lo so, dovrei prendere a sberle Swifty per aver provocato quei bastardi dei Mobs, ma vedila dal lato positivo.»
Lei, inaspettatamente, lo guardò truce. «Non esiste nessun lato positivo, Doody.»
«Io ti dico di sì, invece. Fidati.»
«Fidarmi, fidarmi... devo sempre fidarmi! Sai una cosa? Ne ho abbastanza!»
Si preoccupò di recuperare la felpa da terra per portarla in bagno, il pavimento era così sporco da lasciare perfino le macchie sui vestiti. Passò accanto a Proof senza guardarlo in faccia e lui, ancora una volta, riuscì a vedere le cicatrici sul braccio – le stesse che qualche mese prima erano stati tagli superficiali. Preso da un improvviso istinto fraterno, la seguì e chiuse la porta, cogliendola totalmente alla sprovvista.
Proof guardò il suo braccio fasciato, come se stesse chiedendo la verità in silenzio. Junko ebbe voglia di piangere, ma non ci riuscì. Aveva visto i segni sul braccio la notte di Halloween e il rimorso per non avergli confessato la verità la stava torturando dentro. Non sapeva cosa dirgli. Voleva parlargli, dire qualunque cosa, ma aveva paura di sbagliare e soprattutto della sua reazione.
Sfaldò le bande lentamente, osservandone qualcuna macchiata e la collera si riversò in lui. «Maledetti, gliela farò pagare per averti fatto del male.»
«Non sono stati loro» confessò Junko, distogliendo lo sguardo e pronunciando le ultime parole tutte d'un fiato. «Li ho fatti da sola.»
A Proof non era mai passato per la mente che fosse un'autolesionista, nemmeno per sbaglio. Adesso che quell'avambraccio aveva confermato il tutto, non riuscì a provare altro che shock. L'unico a sapere il segreto dietro quei marchi rossastri era Marshall, ed era stato fin troppo buono a non averlo rivelato a nessuno e specialmente a lui. Ecco perché di tutte quelle bende, uno dei tanti motivi per cui le nascondeva sotto una felpa larga.
Junko non sapeva chi fosse, non sapeva nemmeno perché esistesse. Non si era mai fatta domande del calibro "cosa farò da grande?" oppure "che futuro potrei progettare?". Fin da piccola i suoi genitori avevano avuto grandi dubbi sulla sua sessualità. Durante il periodo delle medie si era lasciata condizionare dalle parole dei suoi coetanei, fin quando a diciassette anni non si era concessa. Non provò nulla, né un trauma né una sensazione di appagamento. Lo psicologo che avevano assunto i suoi familiari aveva semplicemente chiarito che la sua era una fase, che presto quella sua indifferenza sarebbe scomparsa.
Era sempre stata convinta di ottenere la fiducia di chiunque e poter essere come tutti, senza sapere che dopo sarebbe stata ingannata ed emarginata. Lei aveva sempre saputo di non essere normale, con tutto che si lasciava andare alla libido. Non aveva mai visto l'empatia nelle altre persone, nemmeno nel momento del bisogno. Si era sentita sola, trascurata. Più l'allontanavano, più quel dolore peggiorava.
Era partito tutto da lì, e dopo un'incisione e l'altra aveva cominciato a vedere il rosso scarlatto sulla propria pelle. Il chiaro segno che il suo corpo si stava distruggendo, e lei aveva intravisto lo spiraglio della morte pararlesi davanti. Non aveva più smesso, nonostante si fosse promessa più e più volte di uscirne con la sola forza di volontà. Quel che aveva dentro, purtroppo, si poteva guarire solo attraverso l'autodistruzione.
La sua vita era sempre stata fatta di illusioni e non riusciva a capire come certe ragazze fossero riuscite a trovare subito un gruppo di amici con cui parlare. Tranne lei, che stava sempre seduta in mensa a bere del succo di frutta economico pieno di conservanti e mangiare altre schifezze. Scartata da chiunque, anche chi un tempo l'aveva considerata un'amica. Cosa non andava in lei? Che male c'era ad avere una sfumatura giallastra sulla propria pelle? Perché non riusciva a sentirsi speciale come ogni bambina o ragazza della sua età?
Proof le alzò la testa per guardarla e una lacrima le solcò il viso. Si avvicinò di più, urtandole la punta del naso con la propria. «Perché?»
Junko singhiozzò, senza più trattenersi. Una domanda che troppe persone le avevano rivolto.
Perché nessuno può capirmi. Nemmeno tu, Doody.
«Per contare i giorni che mi separano dalla morte.»
«Preferisci morire anziché vivere? È davvero questo che vuoi?»
Quella domanda le riportò alla mente le parole di Wade... "siamo tutti dei soldatini giocattolo".
«Ho visto mia madre morire, le ho tenuto la mano fino alla fine. La morte non mi spaventa.»
Quelle parole ebbero un effetto negativo sul volto di Proof, che la lasciò andare e non disse altro. Era deluso, amareggiato. Facendosi del male, aveva fatto del male anche a lui – nel corpo e nell'animo. Non era stata la prima volta che aveva visto quelle bende, in realtà, e mai si era interrogato sulla questione. Perché mai una ragazza così carina avrebbe dovuto ricorrere all'autodistruzione? Non mostrava segni di squilibrio particolari, era solo... introversa. Uscendo di casa, si lasciò tutto alle spalle e ignorando quella brutta fitta al cuore.
Anche Junko l'aveva sentita, ma anziché stringere quel punto in cerca di sollievo, era uscita dal bagno e si era appoggiata di fianco alla libreria. Improvvisamente intercettò un movimento con la coda dell'occhio e sollevò lo sguardo, ritrovandosi Marshall alla sua destra appoggiato alla porta che dava sulla stanza di Proof. Tralasciando la canottiera bianca, i pantaloni grigi della tuta erano larghissimi, tanto che i risvolti coprivano parte delle sneakers bianche che indossava. Erano perfino sporche di terra.
«Che hai da guardare? Ti faccio pietà, vero?» sbottò lei, conscia di ciò che sarebbe successo da lì in poi.
«L'unica cosa che mi fa pietà è la tua insensibilità. Non hai un briciolo di rimorso, dopo aver fatto soffrire un amico?»
«Prima o poi doveva scoprirlo» replicò con un'acidità tale da farle tremare la voce. Era difficile ammettere la realtà. «E comunque, lui non è niente per me.»
Marshall si accorse che la sua postura era fin troppo rigida, la mano destra che stringeva convulsamente l'inalatore. Era pallida, visibilmente nervosa, eppure quell'atteggiamento arrogante sembrava nasconderlo sotto una maschera di porcellana. Peccato che lui sapesse vederla fin troppo bene.
«Dopo tutto quello che sta facendo per te? Come minimo dovresti dargli riconoscenza.» Sollevò la schiena dal legno marcio della porta, mettendosi dritto per andarle incontro. «Ti ricordo che vivi con il mio migliore amico e mi sono ripromesso di non farti combinare altri casini. Ho una responsabilità su di te, ricordi?»
«Nessuno ti ha chiesto di farmi da balia! E comunque tu non sei mio padre, sei solo uno psicopatico.»
Con un movimento secco, Marshall la colpì in pieno viso. Uno schiaffo prepotente che le voltò la testa e le portò i capelli sul volto, come una folata di vento improvvisa. Junko sentì la vista che si oscurava, la pelle formicolare in quel punto preciso e ci posò la mano. Sapeva quanto la violenza gli provocava piacere, specialmente contro qualcuno di più fragile. Una vendetta indiretta nei confronti di chi lo aveva umiliato. Lo aveva capito fin dal primo momento.
«Non osare rivolgerti a me in questo modo» ringhiò, la mano stretta in un pugno.
Lei spostò la mano dalla guancia e tentò di ricambiargli il favore, ma lui fu più veloce di lei. In un attimo i suoi polsi erano avvolti dalle sue mani grandi e ossee, mentre il suo corpo la imprigionava contro il muro. Quell'insopportabile puzza di legno bruciato le arrivò alle narici e Junko perse l'ultimo briciolo di forza rimasto. La testa gli pulsava ferocemente per colpa dello schiaffo e faticava a respirare. Per quanto ancora doveva andare avanti quella manfrina?
«E non guardarmi con quella faccia, brutta stronza» soggiunse lui, furioso a dir poco. «Portami rispetto, sono più grande di te.»
Le stava osservando il viso da vicino ed esplorava i suoi zigomi con i suoi occhi di ghiaccio, limpidi ma privi di anima. Non batteva le palpebre, le pupille fisse sulle sue e senza un minimo accenno di espressione. Era più inquietante di Pennywise. Inconsciamente anche lei si ritrovò a guardare il taglio degli occhi preciso, le sopracciglia folte al punto giusto e in perfetta linea con la fronte. Percepì la sua rabbia, la sua disperazione.
Ti odio! Lo giuro su Dio, ti odio!
Trovò finalmente fiato e riuscì a parlare, malgrado l'odio che vedeva negli occhi di Marshall. Non avrebbe pianto, non si sarebbe mostrata debole di fronte a lui. «Perché dovrei rispettare un pazzo che picchia una donna?»
Lui assottigliò le palpebre e la presa sui polsi si fece più salda. «Agisco d'istinto, quando qualcuno mi provoca. Faccio del male anche ai bambini, non faccio distinzioni.»
Jun avvertì una fitta, riuscì a sentire le unghie di lui penetrare nella sua pelle. Sussultò, non respirava. «Marshall, mi stai—»
Lui si chinò sul suo volto, permettendo che il proprio respiro bruciasse la sua pelle. Lei era asfissiata, le lacrime agli angoli degli occhi e le labbra socchiuse. Poteva impietosire Proof e gli altri, ma non lui. Non aveva pietà per nessuno, nemmeno con le ragazzine apparentemente angeliche come lei, e così doveva essere. L'empatia e la fragilità lo avrebbero reso vulnerabile e per sopravvivere, serviva avere le mani di ferro. Era stata la prima cosa che aveva imparato dopo essere diventato Slim Shady.
È colpa tua. Ci hai trascinati tu in questa merda! Ti odio, cazzo!
D'un tratto le lasciò i polsi e non si sorprese nel vedere quello destro sporco di sangue. Si guardò la mano, scoprendo che quelle macchie scarlatte avevano macchiato il palmo e le dita. «Va' a disinfettare quelle ferite, fra poco dobbiamo andare» concluse con tono schifato, stringendo la mano sporca e dirigendosi verso il bagno.
Junko era pietrificata, il sangue che scivolava lentamente sull'avambraccio e le bende pendenti sul polso. Quando il suo corpo venne colpito dall'aria fredda della stanza, le sue ginocchia cedettero. Si ritrovò seduta per terra, le mani tremolanti che stringevano le braccia in cerca di conforto e le lacrime che scorrevano libere sulle guance. Quella paura mista ad ansia e insicurezza era tornata, stavolta sotto l'immagine di un biondo caucasico dagli occhi di ghiaccio.
Si morse il labbro e nascose il volto, mentre le righe umide di lacrime si asciugavano a contatto col freddo. Avrebbe dovuto sapere che quel poco di bontà d'animo che aveva mostrato nei mesi precedenti era stato solo un pretesto per farle abbassare la guardia, e stupida lei che l'aveva abbassata troppo presto.
Una cosa che a Junko non era mancato era quel tratto di strada dal Mobile Home Park al Saint Andrew's Hall, immerso nella notte e dove solo i lampioni e le luci delle insegne pubblicitarie illuminavano la carreggiata. A guidare la macchina era Bizarre, per una volta si era visto costretto ad accettare la proposta di Kuniva e accompagnare il gruppo allo Shelter con tutta tranquillità, seppur malvolentieri – voleva restare a casa ed evitare ulteriori risse.
L'abitacolo della Delta di Marshall era silenzioso, neanche l'autoradio era accesa e di solito la voce dello speaker radiofonico li distraeva da qualsiasi cosa. I Dozen avevano bisogno di rimettere in ordine i propri pensieri nel silenzio, dove solo l'inquinamento acustico circostante avrebbe potuto distrarli.
Junko non aveva idea di come rispondere alle loro rime, una volta sul palco. A differenza dei Mobs avevano scoperto più punti dove colpirla, specialmente il segreto dietro le sue linee rosse e biancastre sul polso. Provò a guardare Proof, in quel momento seduto alla sua destra, ma non le stava segnando di uno sguardo. Tentò con Marshall, seduto alla sua sinistra insieme a Kon Artis. Il primo era ancora deluso ed evitava il contatto visivo con chiunque, il secondo aveva ancora la rabbia in corpo e non avrebbe esitato a sfogarsi su di lei una seconda volta. Da lì capì che non avrebbe avuto appoggio da nessuno dei due.
La situazione non poteva peggiorare ulteriormente.
Quando le luci divennero più numerose, Junko si ritrovò ad assottigliare le palpebre per proteggersi le retine. Erano già arrivati a destinazione e il tempo stringeva minuto per minuto, così come il suo stomaco on quel momento. Avrebbe dovuto essere meno ansiosa del solito, sapendo esattamente cos'aspettarsi una volta allo Shelter. S'intascò le mani sudate e si morse compulsivamente il labbro, nel vano tentativo di calmarsi. Evitare l'inalatore si stata rivelando peggiore di quanto si aspettava.
Una volta scesi dalla macchina, a fare da capofila fu Proof, voltando le spalle a tutti i presenti. Nessuno si era chiesto il perché di quell'espressione spenta, come se l'allegria che mostrava tutti i giorni fosse svanita in uno schiocco di dita. Aveva fatto cilecca con qualche donna? Non era un'opzione da escludere, ma da come le sue labbra erano serrate, sembrava essere qualcosa di molto più serio.
All'improvviso Marshall fermò i passi appena poco prima dei pali di metallo che dividevano il parcheggio dalla porta dello Shelter. Kon Artis l'aveva già aperta per dare precedenza alla ragazza. «Non lo farà» annunciò, catturando l'attenzione di tutti.
Proof si girò verso di lui, incredulo di ciò che aveva sentito. «Stai scherzando, Doody?»
«Ho detto che non lo farà, discorso chiuso» sentenziò più che determinato, fregandosene di tutto e di tutti. «Passeremo per codardi? Non me ne frega un cazzo.»
«Certo, a te interessa solo la tua faccia e non quello di un'altra persona. Sei un egoista.»
«Lo sto dicendo proprio per salvarla, non per un mio tornaconto personale!»
Lui lo guardò malissimo, per poi fare un passo avanti per fronteggiarlo. Il vento gelido mosse l'orlo della sua maglietta oversize, lo sguardo tetro e profondo che somigliava ad una pozza di petrolio. «Se non le avessi lanciato quella sfida allo Shelter, Marshall, ci saremmo risparmiati tutto questo.»
«Mi stai dando la colpa?» sbottò lui in risposta, incredulo.
«Sì, è colpa tua! A quest'ora nessuno sarebbe in pericolo, neanche lei che non c'entra un cazzo con noi!»
«Anche tu l'hai incoraggiata e più volte. Pensi che me ne sia dimenticato? Chi si sta salvando la faccia adesso?»
Kon Artis si mise in mezzo a loro e tese le braccia da ambedue i lati, fermando il litigio. «Basta così, ragazzi.»
Junko assistette alla scena, mentre un senso di colpa grande quanto l'Oceano Pacifico iniziava a travolgerla. Marshall e Proof stavano litigando per causa sua; tutti i casini che aveva combinato dal primo giorno in cui aveva messo piede dall'altro lato della 8 Mile, si stavano riversando contro un'amicizia profonda come la loro. Quei due non litigavano mai, neanche per qualcosa legato al loro mondo. Gli altri Dozen capirono che tutto stava accadendo dopo quel maledetto incontro con i Mobs a Dresden, seppur fosse stata una banale coincidenza. Anche se non fosse successo, quella rivalità sarebbe stata comunque un ostacolo.
«Posso evitare il peggio, ti chiedo solo di fidarti di me.»
Proof sbuffò, per poi ammorbidire la sua espressione. «Va bene. Ma dopo questa battaglia, non voglio più sentir parlare dei Mobs. Ci siamo capiti?»
Nessuno fiatò e posando gli occhi su Junko, le prese la mano e guardò per l'ultima volta la benda che copriva i suoi tagli. Scesero insieme le scale per raggiungere il palco, non sorpresi nel sapere che la battaglia era già cominciata. Si stavano scontrando Hermes e Kelsey – uno degli ex membri dei Mobs che aveva abbandonato il gioco prima della rivalità con i Dozen – e da come il pubblico esultava, tutti erano a favore del primo. Anche quel round era finito.
L'atmosfera era rovente, tutti aspettavano il momento decisivo e nonostante fosse la terza volta che due gruppi rivali si scontrassero sul palco dello Shelter. In mezzo Slim Shady e Hyde si guardavano con aria di sfida, impassivi e fieri. Anche se la sfida non l'avevano lanciata loro, erano più che decisi a concludere quella farsa una volta per tutte.
Junko sentiva i polmoni stringersi. Non sapeva se fosse la presenza delle altre persone, sapeva soltanto che la situazione non prometteva nulla di buono. Cercò Kinsley nella platea con lo sguardo, senza però trovarla. Non le aveva dato buca, la conosceva bene, ed era stato anche Kuniva ad aver insistito nel sostenerla.
La prassi era la solita: testa o croce, cinquanta secondi prima della fine. Wright si preparava come una normale battaglia, ma nessuno sapeva che sarebbe finita diversamente. O meglio, come Marshall l'avrebbe fatta finire. Non mostrava nessun segno di ansia, né tantomeno di sfida. Qualcuno se ne stava accorgendo, proprio come voleva.
«Dato che i campioni in carica sono i Dirty Dozen, cominceranno loro. Cinquanta secondi a partire da ora. DJ, tocca a te! Falla partire!»
Marshall tenne saldo il microfono e quando la base partì, non si mosse di un centimetro. Neanche Hyde, in quel momento di fronte a lui, fece un passo indietro per lasciare spazio all'avversario di battersi. Erano passati dieci secondi e la situazione era ancora la stessa, fin quando il biondo non ordinò al DJ di fermare la musica.
Mormorii generali, lo sguardo di Wright sorpreso. Nessuno si sarebbe aspettato una mossa simile da parte del temuto Slim Shady, e a lui piaceva essere cattivo e spietato in una battaglia rap. «Che succede, Slim?» chiese il conduttore sottovoce, avvicinandosi alla sua spalla.
«Non ci batteremo.»
Proof osservò lo sguardo cinico di Marshall, spaventosamente serio. Non aveva intenzione di... «Doody, asp—»
«Lasciami fare» lo rassicurò, tenendo saldo il microfono nel pugno.
Hyde sogghignò. «Ci dai la vittoria a tavolino? Complimenti, Slim. Ti facevo più cazzuto.»
L'emo-gotico sembrava fin troppo tranquillo. Sapeva che quella mossa era contro le regole dello Shelter, che avrebbe potuto vincere anche senza ricorrere ai cinquanta secondi. Tuttavia, Slim aveva altre intenzioni con loro: voleva metterli a nudo usando il linguaggio del corpo, mostrando le loro debolezze. Lui era bravo in quel campo e soprattutto con le parole, ma per avere conferma della sua teoria, doveva affrontarli a dovere senza una base rap in sottofondo.
«Se sei davvero tosto come dici, dimostralo senza usare le rime. Allora io ti crederò, e ti cederò il mio titolo di MC.»
Hyde incrociò le braccia, mentendo una posa sciolta. «Cosa vorresti sapere?»
«Il motivo per cui stai pedinando una ragazzina.»
La ragazzina in questione poteva essere chiunque, dal momento che Marshall aveva usato una parola generica. Qualcuno avrebbe potuto fraintendere, che Hyde fosse un pervertito della peggior specie. Ma quando la gente scorse Junko dietro le spalle di Proof, capirono che era riferito alla campionessa dello Shelter. Dal volto poteva esserlo realmente, ma fisicamente era quasi trentenne. Nessuno se ne stupì, dal momento che non esisteva un perché di quell'appellativo così dispregiativo nei suoi confronti.
«Te lo dico io: l'hai ricattata purché ti cedesse la corona dello Shelter, cosa che non farà.»
«Ti sbagli, Shady, va contro la mia morale.»
«Non mi sbaglio mai, perché io c'ero» sentenziò a voce alta, osservando la maschera di Hyde cedere. «Ammettete che siete un gruppo di codardi che si divertono a giocare ai gangster, fate più bella figura.»
«Solo se ammetterai di essere un ragazzino che ha ancora bisogno del latte della sua mammina.»
Qualcuno aveva sorriso, ma Marshall non gliela diede vinta. Una mossa del genere da parte loro era prevedibile. I Mobs sapevano sfruttare i segreti altrui a proprio vantaggio, e lo facevano pur di non alzare la canna delle proprie pistole. Aveva visto il rapporto amore-odio che aveva nei confronti di Kim, così come quel bisogno fisiologico di tenerla per sé – solo sua e di nessun altro.
«Se ne volevi un po' anche tu, bastava chiedere. Ti avrei concesso anche una cosa a tre con Gina Lynn, so che ti piacerebbe fartela.»
Alcune persone spalancarono gli occhi dalla sorpresa, anche se la notizia si era già diffusa tempo prima. Hyde era un traditore seriale e tradiva sua moglie ogni notte. Perfino lei lo sapeva, eppure non aveva chiesto il divorzio. Non si differenziava troppo dalla sua ex da quel punto di vista, tranne il fatto che fosse una sottomessa senza spina dorsale. Insignificante, come suo marito.
«Che c'è? Ho toccato un tasto dolente?» continuò con tono infantile, facendo uscire completamente il suo alter ego. «Non dovresti esserne sorpreso, se la gente sa quanto tu sia un pervertito. A momenti ti scopi i bidoni della spazzatura.»
«Tutti sanno che sono cristiano e incline alle tradizioni di famiglia, e indovina? Nessuno me lo ha rinfacciato e mi rispettano, non hai prove contro di me.»
«Credevo di affrontare un rapper, non un repubblicano estremista.»
Secondo tasto dolente, e il volto di Hyde si corrucciò di poco. Le altre persone non lo aveva notato, ma il suo avversario sì. Il karma non era più dalla sua parte.
«Solo perché sei bianco, pensi di essere intoccabile? Posso ucciderti lo stesso.»
Marshall lo sfidò, facendo un passo avanti e afferrando il polso che teneva la pistola. Se la puntò dritta al petto, lo sguardo gelido e penetrante. Il pubblicò sussultò, qualcuno stava cominciando ad allontanarsi. Se fosse scoppiata una vera e propria rissa, qualcuno non sarebbe sopravvissuto.
«Uccidimi. Fallo qui, davanti a tutti. Vediamo se hai le palle.»
Le palpebre di Hyde si assottigliarono, senza cedere allo sguardo blu ghiaccio di Marshall. La gente davanti a loro faceva casino, chi voleva il sangue e chi implorava di abbassare l'arma. Nessuno dei partecipanti era voluto intervenire per impedire qualche tragedia, ma secondo il biondo non sarebbe stato necessario. Hyde stava esitando troppo, e solo allora i Dozen notarono che l'indice sul grilletto tremava, così come il labbro superiore ricoperto di peluria.
«Hai paura» affermò Marshall, posando la mano sulla canna della pistola per abbassarla. La sua teoria era appena stata confermata. Ecco ciò che li aveva sempre spaventati.
Hyde non riuscì ad articolare una parola, sudava freddo e il cuore martellava forte nel petto fino a fargli male. Per lui impugnare una Golt era come avere la mano di Dio, terrorizzato all'idea di doverla usare. Il fatto che avesse in mano un'arma da fuoco gli donava un senso di superiorità, ma la verità era che non aveva mai avuto il coraggio di premere veramente quel grilletto. Non voleva finire in prigione per una vita spezzata, né tantomeno rivivere quell'attimo di dolore di cui ancora portava le cicatrici.
«Perché perdete tempo a giocare con quelle Berette del cazzo? Quaggiù qualcuno potrebbe uccidervi per davvero. La guerra fra la East e la West Coast non vi ha insegnato nulla?»
«Questo è l'unico modo che abbiamo per sopravvivere, non ci sono alternative.»
«Ci sono, invece, anche senza dover usare una pistola. Vi state comportando da ragazzini e mettete a repentaglio la vostra vita per soddisfare i vostri vizi.»
Hermes si fece largo fra il gruppo, mettendosi furiosamente vicino al suo leader. «Come osi darci dei ragazzini?»
«È quel che siete, dopotutto. Uno è sposato e vive ancora con sua madre, il fratello è un mantenuto. Il tatuato dal cappellino blu se la fa con una cinquantenne polacca ed è indebitato fino al collo, mentre il suo compare non ha neanche i soldi per una macchina perché li spende per andare a puttane.»
Anche queste rivelazioni erano di dominio pubblico, ma dette da Slim Shady suonavano ancora più imbarazzanti. Successivamente i suoi occhi di ghiaccio puntarono su Hermes. «Tu, invece, biondino sudamericano... ti mostri come un uomo etero con le palle dure, ma quando nessuno ti vede, ti metti il rossetto. Ti incazzi se qualcuno usa metafore omosessuali contro di te, perché lo sei e non vuoi ammetterlo. L'ho fatto io per te, ora ringraziami.»
Altri mormorii si sparsero per lo Shelter, chi scioccato e chi disgustato. Nessuno aveva sospettato la sua omosessualità, neanche lontanamente. Come poteva una persona come Hermes guardare male i più deboli, chi in teoria avrebbe dovuto compatire e cambiare ragazza ogni mese, essere dell'altra sponda? Shady aveva fatto crollare quella copertura con uno schiocco di dita, umiliandolo più di quanto avesse fatto con Hyde. Mentre posava lo sguardo sulla platea, il rivale si rese conto di avere i nervi tirati al massimo.
«Questo non è un film, è la vita vera. Crescete e imparare a vivere.»
D'un tratto lanciò il microfono verso B-Larry, che lo afferrò al volo e lo avvicinò alla bocca. Voleva replicare, ma non gli uscirono le parole. Nessuno dei Mobs fece la seconda mossa. La platea era contro di loro, seppur non ci fosse stata nessuna battaglia. Era l'umiliazione ben peggiore, non c'erano basi musicali per ribattere e zero stracci di idee su come affossarli.
«Scappate!» La voce di Wright allarmò tutti, scoprendo che Hermes aveva tirato fuori la sua pistola dalla tasca della giacca.
Wade fece un passo avanti, prendendolo per un braccio nel vano tentativo di trattenerlo. Lui si scostò e riuscì a sparare qualche proiettile, mancando il bersaglio. Alcuni si erano accucciati dal terrore, altri erano fuggiti a gambe levate – chi teneva i propri compagni sottobraccio e altri in lacrime. Tenendo salta la pistola, guardò la gente in fuga e scorse una massa cicciottella riconducibile a Bizarre andare verso destra. I Dozen erano riusciti a scappare dall'entrata principale, dietro il muro pieno di scritte.
Hermes li inseguì, l'adrenalina che scorreva nel corpo come un treno in corsa. «Dove andate, figli di puttana?»
Vide la corvina salire gli ultimi gradini tenendo la mano di un'altra ragazza, ansimava spaventata e senza più ossigeno nei polmoni. A quanto pareva, l'asma le impediva di correre o solo accelerare il passo. Hermes approfittò di quell'attimo di debolezza per puntarle la pistola e non gli importava di ucciderla. Assestò qualche colpo, ma la mancò di pochi centimetri. La porta dello Shelter si chiuse e i proiettili colpirono il metallo rinforzato.
Il caricatore s'inceppò e furioso, gettò la pistola a terra. «Cazzo!»
Aveva esitato troppo prima di inseguirli e la giapponesina era ancora viva. Recuperò l'arma e restò sulla soglia picchiando il caricatore per sbloccarlo, fino a quando Hyde non lo trascinò via dal sottoscala per dirigersi verso l'uscita nascosta. Qualcuno aveva già chiamato la polizia e i bodyguard dello Shelter erano alla ricerca del colpevole, pur sapendo non fosse stato Wade – lo avevano preso prima che avesse potuto trovare la porta del sottoscala e non farsi vedere dalla polizia.
Nel frattempo, Junko si era accasciata sull'asfalto bagnato appena di fianco l'uscita dello Shelter. I jeans erano sporchi sulla parte inferiore, Proof se ne accorse e la prese in braccio, portandola verso un punto nascosto del vicolo. Le tolse i jeans e si apprestò a fermare l'emorragia, legandolo intorno alla ferita. Prima che fossero riusciti a sfuggire da Hermes, il proiettile l'aveva mancata per un pelo, ma il metallo rinforzato della porta non era bastato a fermarlo ed era stata colpita sulla gamba sinistra.
«Junko! Ragazzi! State bene?» La voce di Kinsley li costrinse ad alzare la testa, con lei c'erano Kuniva e gli altri.
«Noi sì, ma lei è ferita» rispose Proof, infilando un braccio sul fianco per aiutarla a rialzarsi. Quello magro di lei circondò le sue spalle, tenendosi in equilibrio. «Io e Slim la portiamo al pronto soccorso, voi tornate a casa prima che arrivino gli sbirri. Swifty, guida tu.»
Quando Marshall lanciò le chiavi della macchina verso Swifty, il gruppo si separò: i primi verso la Delta rosso ruggine e gli altri attraversarono la strada. Fortunatamente dei Mobs non vi era traccia, erano al sicuro. Proof e Shady sorressero la ragazza e tutti e quattro si avviarono a passo incerto verso l'uscita posteriore del vicolo, raggiungendo il parcheggio da dove erano arrivati, con le sirene della polizia in lontananza.
Hyde sbirciò da dietro il vicolo. La polizia aveva già chiuso la strada e il Saint Andrew's in cerca di testimonianze, indagando sul mandante della sparatoria. Aveva visto suo fratello, Bennie e Larry salire su una volante, i polsi ammanettati dietro la schiena e la testa china. Avrebbero passato la notte in cella, probabilmente anche qualche mese.
Si appoggiò al muro con la schiena, sospirando. Non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine di Slim Shady che lo fissava passivo con la canna della pistola puntata verso il petto. L'ennesima umiliazione da parte dei Dozen lo aveva gettato nella rabbia più invereconda, ma anche nella paura.
Non ho paura.
Quel biondo maledetto aveva usato l'arma emotiva per umiliarlo e non gliel'avrebbe perdonata. Come si era permesso di metterlo a nudo di fronte a tutte quelle persone?
Non ho paura.
«Nessuno ci ha visti, pericolo scampato.»
Hyde si voltò verso Hermes, incazzato come una iena. Scampato, diceva? Con tutte le testimonianze che avrebbero potuto raccogliere, nessuno avrebbe risparmiato loro qualche mese di prigione. Da una parte erano stati fortunati, vivevano in uno Stato dove non vigeva più la pena di morte, ma Hyde non voleva perdere ancora una volta la faccia. Se in passato era stato per il suo lato ribelle, adesso sarebbe stato per qualcosa di molto più serio.
«Ti avevo detto di stare indietro e lasciar fare tutto a me. E tu che cazzo fai? Inizi a sparare! Che cosa ti è saltato per la testa? Se fosse davvero morto qualcuno, ci avrebbero dato l'ergastolo ad occhi chiusi.»
A lui sembrava non importare nulla, per come la sua espressione fosse priva di emozioni. La cosa più incredibile era la postura sciolta, apparentemente tranquilla. «Sono stufo di queste finzioni, Roger. Visto che stiamo tirando la corda, tanto vale spezzarla» disse, volgendo il naso all'insù.
Hyde sentì le palpebre pizzicare, ma riuscì a trattenere le lacrime. «La nostra regola è giocare col rap, non con le vite umane.»
«Non volevi vendicarti di loro? Non bramavi la vittoria allo Shelter?»
«Sì, ma non ho intenzione di buttarli in un lago di sangue. È troppo anche per me!» esclamò, allontanandosi dal muro e calciando una lattina abbandonata sull'asfalto.
Hermes sapeva bene che quella regola era stata dettata da un trauma interiore di cui non parlava mai, che conosceva soltanto suo fratello Wade. Aveva perso la fidanzata in un incidente stradale, dove lui era sopravvissuto miracolosamente – così diceva – e aveva mentito per uscirne pulito. Che fosse stato premeditato lo sapeva bene, perché lei non aveva mai voluto che Hyde giocasse a fare il gangster, aveva paura di vederlo morto. Non aveva mai saputo che la vendetta era sempre stato il suo vero amore.
Tuttavia, non era la prima volta che si mostrava così inerme. Lui, che guardava in faccia le persone con una Golt in mano, aveva realmente intenzione di redimersi. Era impossibile credere che quell'umiliazione lo avesse reso più debole. C'era qualcosa che lo frenava e non era proteggere suo fratello, forse quel senso di colpa gigantesco che lo tormentava da anni.
Per questo non avrai mai pace, perché sei stato tu ad uccidere Isabelle.
«Significa che Slim ha ragione: hai paura.»
Di colpo l'emo gotico lo afferrò per il colletto della giacca e lo inchiodò al muro, la rabbia che gli accecava gli occhi. Nonostante il buio nel vicolo, le sue iridi scure emanavano scintille infuocate. «Io. Non ho. Paura.» Scandì le parole con voce profonda, i denti digrignati e le lacrime agli angoli degli occhi che si rifiutavano di scendere.
Hermes non si fece intimorire. «Allora comincia a fare sul serio e dimostra che non sei un codardo. Un leader non si lascia umiliare da un bianco del cazzo.»
«Se non ti sta bene il mio ruolo, allora vattene!» Lasciò la presa e si allontanò, le mani sulla testa che muovevano le treccine e urtavano la bandana nera, impotente verso Hermes e tutti gli altri. Quel che disse poco dopo lasciò di stucco anche se stesso. «Non m'importa se collezionerò nemici o non avrò un futuro, sopravvivrò a questo schifo. Continuerò a tenere stretta la mia Golt finché non collasserò.»
L'altro alzò lo sguardo verso di lui con impeto assassino, ma si bloccò quando lo vide in volto. Era serio, più di quanto lo fosse stato sul palco dello Shelter. Fece un altro passo indietro e s'intascò le mani nella propria felpa, seguito da un ringhio basso. «Nessuno mi deve salvare. Neanche tu, Steven.»
Diede le spalle alla strada barricata, le luci delle sirene della polizia e dell'ambulanza dietro di loro, lasciando Hermes da solo fra le pozzanghere, i graffiti e la puzza di fogna. Quest'ultimo era passivo, come se quel discorso non lo avesse toccato emotivamente. Se doveva dir la verità, alcune persone sapevano già che fosse gay, le aveva minacciate di stare in silenzio. Era stato così che aveva cominciato a vivere nel paradiso dei gangster, dove l'omertà vigeva su qualunque regola non scritta.
Osservando la pistola in mano, sfiorò la canna con la punta dell'indice. Il potere che aveva imparato a domare aveva preso possesso di sé, fino a far scomparire le proprie emozioni. Il suo prezzo da pagare era stato quello e non se n'era pentito, anche se ogni tanto il suo corpo lo riprendeva, lanciandogli fitte dolorose sul fianco sinistro. Se impugnarla significava proteggere i suoi fratelli, allora avrebbe rischiato ad occhi chiusi.
Tornando nella realtà, intercettò la sagoma di una ragazza che camminava sul lato opposto, accanto colui che sembrava essere Kuniva. Si nascose dietro il vicolo per guardarli meglio; camminavano nella direzione opposta, probabilmente la stava riaccompagnando alla sua macchina dopo la sparatoria al Saint Andrew's. Da quel che aveva capito nonostante la distanza, stavano parlando di Junko – la giapponesina leccapiedi dei Dozen – e della ferita sulla gamba. Non era riuscito a colpirla nel punto più letale.
Notando quella serie di trecce sottili ma lunghe, legate in una coda alta, riconobbe la stronza che gli aveva sbattuto in faccia una battuta omofoba. C'era una chimica strana fra lei e Kuniva, come se si conoscessero da una vita intera. Aveva visto giusto, quando sospettava quella complicità fra lei e i Dirty Dozen.
Per tutto il tempo Hermes aveva fatto finta di fare il bullo di strada, ma stavolta avrebbe cominciato a fare sul serio. Al ricordo dell'outing di Slim, sentì un nodo in gola e le ginocchia molli. Valeva davvero la pena puntare su una persona che non c'entrava nulla? La giapponesina l'aveva persa troppe volte e finché c'erano lui e Dirty Harry a proteggerla, non sarebbe mai morta. La sua amica, invece, non aveva una scorta.
Sul suo volto spuntò un sorriso maligno. Avrebbe puntato su di lei, il primo anello debole di quel gruppo.
Invece ti salverò, Roger. Ti vendicherò, cascasse il mondo.
N.A.
Buooongiorno o buonasera, popolo di Wattpad! So di avervi detto che avrei aggiornato prima delle vacanze, ma non ero riuscita a finirlo in tempo. Vi avevo però promesso il finale dell'arco dedicato allo Shelter per questo mese, per cui ho usato il cellulare per completarlo e sistemare il layout. Spero di non aver fatto casini.
Non ho voluto ripetere la solita solfa in rima, per cui ho lasciato che Slim Shady prendesse il comando della situazione. Spoiler: non avrei dovuto. Ora la situazione fra i Dozen e i Mobs è diventata ancora più tesa, se non peggio. Penso però che quest'ultimi non li vedremo per un po', anche perché tre di loro sono finiti in galera. (Se lo meritano u.u)
Il prossimo capitolo arriverà a settembre e il protagonista assoluto sarà proprio Proof. Siccome tant* di voi non lo conoscono, o ne hanno solo sentito parlare in quanto "migliore amico di Eminem", vorrei potervi raccontare di lui attraverso le sue strofe e il suo idolo Jerry Garcia. Fidatevi, ve ne innamorerete. :P
Buona estate a tutt* voi e ricordate di bere tanto e di mettervi la crema solare. Ora me lo segno anch'io. Chill!
- Gloria -
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