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Capitolo 12 - When Bad meets Butterfly


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╚»★  21 ottobre 2002  ★«╝


Non era la prima volta che Junko camminava senza una meta precisa sulla 8 Mile Road, ignorando il frastuono del traffico mattutino e della gente intorno che andava nella direzione opposta. Di solito camminava per schiarirsi le idee prima di cominciare il solito turno al bar, ma quella mattina i suoi pensieri erano rivolti alla notte del suo compleanno.

Non si capacitò di come avesse ceduto alle emozioni, dopo la deludente prima volta da ragazza. Erano stati i dieci minuti più quieti della sua vita, dopo anni passati a compiangere l'unica donna che l'avesse mai amata. Non era stato sbrigativo, nemmeno rude. Lui l'aveva amata davvero, e lei aveva sentito il gelo.

Lo aveva cominciato a sentire dopo la scomparsa di sua madre. Lei, per consolarla, le spazzolava i capelli e le faceva le treccine. Un tempo sorrideva, ma da quando la sua vita era cambiata, non aveva più preso in mano quella spazzola dai denti larghi e il manico spesso. Farlo da sola con un'altra più economica non era la stessa cosa, soprattutto se i suoi pensieri restavano dentro la testa.

Se non avesse avuto l'asma, avrebbe potuto scaricarli via attraverso una sigaretta. Respirare quelle nubi di fumo era già un rischio enorme per lei, come se lo smog non fosse abbastanza. Lei non era una ragazza che abusava dell'alcol, né tantomeno di una boccetta di Tylenol o altra merda. Aveva i capelli spettinati, ma il cappuccio della felpa aiutava a nascondersi. Gli occhiali erano sporchi, ma non se ne preoccupò.

Camminava e cercava di evitare di guardare la gente intorno a lei, tutte quelle espressioni curiose, menefreghiste, arroganti... Tante volte aveva visto un raggio di speranza in loro, eppure chi avrebbe dovuto sostenerla, tentava di consolarla con frasi fatte e tossiche. Passò un camion sulla carreggiata e Junko iniziò ad inghiottire quelle polveri sottili da ambedue le cavie, le ginocchia tremarono e i piedi incespicarono l'uno nell'altro. Ricordava ancora quelle parole, rimbombavano nella testa come una serie di martelli pneumatici fino a renderla sorda. Un'eco senza fine. Parole su parole che portavano ad una specifica direzione.

"Non farai mai strada nella vita, se scappi sempre dietro le spalle di tua madre".

Si portò una mano alla gola, la pelle sudata e febbricitante sotto il palmo della mano. Ansimò e il dolore arrivò fino alla testa, appesantendogliela. Non trovò ossigeno e non c'era neanche una panchina dove potersi sedere per riprendere fiato. Suo padre, l'uomo che avrebbe dovuto scendere a braccetto almeno un milione di scale con lei e sua moglie. Colui che un tempo aveva considerato un esempio e che le aveva voltato le spalle. Perché non era lì?

"Sai che la vicina si è sposata? Tu ancora con quegli stupidi disegni..."

Ebbe una vertigine e iniziò a vedere buio, ma prima che avesse potuto toccare il suolo, Junko non sentiva altro che il vento sulle braccia e sulle guance. Era come se stesse volando. Era già morta? Stava andando in paradiso?

"Allontanati, appestata! Non vogliamo diventare gialli!"

"Detroit non è fatta per quelli come te. Torna nel Sol Levante a far compagnia ad altri ching-chang mangia involtini".

Perché proprio a me? Che cosa vi ho fatto? Non ho già sofferto abbastanza? Andatevene, sparite, marcite in un altro lobo del mio cervello, basta, andatevene, sparite!

"Tu non sei una donna".

"Quando apri bocca, porti solo rogne".

Smettetela di tormentarmi! SPARITE!

"Le donne gracili come te sono brave solo a stare in casa".

"Vattene, la terra promessa non accetta geishe".

SPARITE!


Uno spasmo roco la risvegliò. Ebbe l'istinto di toccarsi la punta del naso e si ritrovò a toccare una specie di maschera a forma di pera, scoprendo di averla attaccata ad un respiratore artificiale. Da quanto tempo era in quella sala esami? Come ci era arrivata?

La macchinetta accanto a lei segnava un battito irregolare, era sopra un letto d'ospedale e alla sua sinistra c'era un ragazzo col cappello da baseball nero e bianco. Non lo riuscì a mettere bene a fuoco, intravide solo un viso tondo, una leggera barba e un paio di occhiali da sole dalle lenti verdastre. Stava seduto accanto a lei con le palpebre semichiuse.

«Ms. Junko Hamada?» Lei annuì poco convinta. Non stava capendo nulla. – «Abbiamo fatto un controllo generale e dalla sua cartella clinica, vedo che non è la prima volta che sviene per un attacco d'asma.»

La maggior parte delle volte succedeva dopo qualche sforzo straordinario, ma ultimamente le erano capitate crisi lievi per via delle polveri sottili e del fumo passivo. Chiunque incontrava sulla strada le consigliava di vivere in riva al lago per migliorare la sua salute, trasferirsi altrove... peccato che gli spiccioli che guadagnava al giorno glielo impedivano. Dove sarebbe dovuta andare con un lavoro notturno da tre dollari l'ora?

«Dobbiamo tenerla sotto osservazione ancora per qualche ora. Ha dei parenti?»

Avevo dei parenti. – «Non ho una famiglia, può chiamare il mio coinquilino.»

Junko scrisse il numero, sapendo di star commettendo un errore. L'infermiera si allontanò e tutto quello che la ragazza riuscì a fare era mettersi le mani fra i capelli sciolti, vergognandosi immensamente. Non avrebbe dovuto, visti i precedenti, ma era stato più forte di lei. Non sopportava l'idea che un'altra persona si occupasse di lei, soprattutto Proof e lui aveva già i suoi problemi. Eppure qualcuno doveva pur aiutarla a pagare le spese mediche, visto che la sua assicurazione sanitaria ne avrebbe coperto solo la metà. Una bella fregatura.

Notò con sua grande sorpresa che il tizio era ancora seduto e si stava stropicciando ancora gli occhi. Era stata talmente immersa nelle sue paranoie che non si era accorta che la stava guardando preoccupato, probabilmente per assicurarsi che stesse bene. «Tu... tu chi sei?» si limitò a chiedergli, guardandolo sistemarsi il cappellino sulla testa.

Lui non perse tempo a presentarsi. «Ryan Mongomery, Royce per gli amici. Ho chiamato io l'ambulanza, ti avevo vista svenire sul marciapiede. So che questo non è un buon momento per presentarsi, ma...»

«No... anzi, g-grazie.»

«Figurati, ehm... Junnie, giusto?» Lei annuì, sorpresa nel sapere che quel ragazzo conoscesse già il suo nome. «L'ho sentito in giro, eri allo Shelter con Proof qualche anno fa. Bella battaglia.»

«Lo conosci?»

«Diciamo che siamo amici di vecchia data» rispose enigmatico, stringendosi nelle spalle.

Junko non negò di essere rimasta incuriosita da quella risposta. Non avrebbe neanche dovuto esserlo, dal momento che l'altra metà di Detroit non aveva nulla a che vedere con i quartieri più benestanti. Da un lato c'era l'empatia verso il prossimo, ma una criminalità alta e talvolta sanguinaria. Dall'altro il verde rigoglioso, la ricchezza e il menefreghismo generale.

«A proposito, credo che questo sia tuo.»

La ragazza alzò lo sguardo e osservò la sua mano frugare in una tasca, tirando fuori un aggeggio verdognolo: il suo inalatore. «Dove lo hai trovato?» domandò, dopo averlo preso in mano e stretto fra le dita.

«Era sul marciapiede, deve essere caduto dalla borsa. Soffri d'asma?» – Lei annuì silenziosamente. Da una vita. – «Brutta cosa, immagino non sia facile vivere in mezzo a tutto questo smog.»

«Yo, Royce!»

Una voce familiare rimbombò nella sala e si palesò una figura dalla pelle bianca e i vestiti oversize. L'altro si alzò dalla sedia e si salutarono con la classica stretta di mano fraterna. Erano un duo, rispettivamente il cattivo e il malvagio. Quando s'incontravano, la bomba scoppiava e con essa anche il loro flow. Junko non sapeva che oltre ai Dozen, Marshall avesse altri amici e che sapesse legare con loro con una stretta di mano.

Così come non sapeva che i sociopatici avessero una cerchia di amici sociopatici.

«Ah, vedo che hai conosciuto la mandorla» la presentò lui come al suo solito. Maleducato!

«Sarebbe lei la tua ragazza? Cazzo, ti sei ripreso in fretta dal divorzio con Kim.»

Junko tentò di replicare. «Veramente non stiamo insie—»

«Lo dicono in giro, ma non è vero. È una zitella del cazzo che vive con il mio migliore amico e lavora in un pub per squattrinati» sbuffò Marshall, guardandola di sottecchi con la sua solita espressione cinica.

Ci aveva messo poco a sminuirla e darle della zitella. Stronzo.

Royce subito si riscosse. «Abiti anche tu al Mobile Home Park?»

Con un angioletto e un coglione, precisamente. – «Era l'unico posto dove sarei potuta stare, con quel poco che guadagno al mese.»

«Ti capisco, Jun, non è facile avere qualche spicciolo in più al giorno d'oggi. Prima o poi questa città deperirà, se non si farà qualcosa.» Dopo un po' la guardò portarsi una mano sulla fronte, sopraffatta dalla stanchezza. «Senti, se non hai i soldi per pagare le spese mediche, posso farlo io.»

Lei si mise seduta, nonostante le palpebre pesanti. «No! N-no, hai già fatto troppo.»

«Insisto, davvero.»

Ecco un'altra cosa che odiava: la malsana carità che in quel quartiere regnava sovrana, specialmente a lei. Conosceva la legge americana, e quanto le spese mediche fossero costose. Avrebbe comunque saldato i suoi debiti, anche spezzandosi la schiena. La ragazza si sdraiò sul lettino e restò in silenzio, capendo che fermarlo sarebbe stato impossibile. Marshall era zitto, impassivo, e la cosa la fece innervosire. Perché non aveva sfruttato quella sua strafottenza per dire a Royce quanto fosse insensato aiutarla?

Nel momento in cui lei aveva chiuso gli occhi, riprendendo lentamente a respirare regolarmente, gli altri Dozen entrarono nella stanza. Alla vista di Royce, Proof serrò leggermente le palpebre, senza però mostrare un accenno di rabbia. L'unico a stringere un pugno fu Bizarre, il rancore negli occhi e il pensiero che fosse in compagnia di Marshall – come se lui avesse dimenticato i trascorsi. Quella doppia faccia ventiseienne che si divertiva a spillare amicizie, per poi gettarle nella spazzatura come aveva fatto con loro.

Con che faccia si presentava lì?

«Cosa ci fai qui?» domandò Proof con tono pacato, le braccia appena alzate come per mantenere il clima tranquillo. Far scoppiare una rissa in ospedale non era decisamente il caso, specialmente se seduta su quel letto dalle lenzuola usa e getta bianche c'era Junko.

«Ho visto una ragazza in difficoltà e l'ho soccorsa.»

Lui fece un passo in avanti, lo sguardo freddo e minaccioso. «Cercavi qualcosa in cambio?»

«Non ho chiesto nulla, se proprio vuoi saperlo. La mia era umana cortesia.» Da come Proof lo stava fulminando con gli occhi, sembrava essere tutto fuorché sollevato. La postura era rigida e ben composta, sguardo acceso e labbra serrate. «Cos'è quella faccia, Deshaun? Mica è la tua ragazza.»

Si scambiarono sguardi carichi di elettricità, fin quando Proof non sentì una forte pressione allo stomaco: gelosia. Era geloso del fatto che Royce avesse rivolto la parola a Junko.

Lei non era effettivamente la sua ragazza, su quello aveva ragione, ma il suo sesto senso gli ripeteva tenere la guardia alta. Non si poteva mai sapere, visto che recentemente lo aveva beccato parlare con Hyde dei Mobs. Junko era diventata la loro preda e Proof doveva proteggerla, specialmente da chi rovesciava la medaglia e mostrava quel che effettivamente era. Chi voltava le spalle ai propri fratelli, per lui era un traditore su tutti i fronti.

Per calmare quella tensione, Kon Artis intervenne. «Grazie di tutto, Royce, puoi andare.»

«Me ne vado solo dopo aver pagato le spese mediche a Jun.»

Proof replicò per la terza volta. «Tu non devi pagare nessuno. Sparisci.»

«Volevi per caso pagarle te, usando il conto di Em?»

La sua sfacciataggine fece crollare quella calma che aveva mantenuto fino a quel momento. Gli stava dando dell'accattone, il pezzo di merda. Esalò un respiro profondo, allentando quel senso di fastidio che aveva nel corpo. Raramente succedeva, tranne quando qualcuno lo provocava.

«Vacci piano con le parole, Montgomery.»

Lui incrociò le braccia. «Pensavo avessimo risolto la questione.»

«Non con noi.»

«Casomai siete voi che non volete ammettere di aver torto quella volta» replicò, guardando tutti e cinque i membri del gruppo, scrutandoli con una certa strafottenza. Da quel punto di vista era identico a Slim, motivo per cui andavano quasi sempre d'accordo. «Ci ho messo una pietra sopra, ragazzi. Per me la discussione è chiusa, non è di certo colpa mia se portate rancore per una cosa da niente.»

Bizarre si alterò, sia lui che Royce si mandarono sguardi carichi di fuoco, come due leoni in lotta per il proprio territorio. «Per te sarebbe 'una cosa da niente'?» ringhiò il primo.

«Biz, lascia perdere» sussurrò Marshall e dopo qualche secondo, lui distolse lo sguardo. Che faccia da schiaffi!

L'attenzione si rivolse sulla ragazza sdraiata sul lettino. Proof le andò incontro per poterla abbracciare, Swifty e Kon Artis si avvicinarono e basta. Il baccano doveva averla svegliata. «Ci hai fatto preoccupare, Jun» disse quest'ultimo, senza fare caso all'abbraccio troppo affettuoso del leader.

Lei si guardò intorno alla ricerca di qualcosa. Anzi, qualcuno. «Dov'è Royce?»

«È andato via, ma ti ha lasciato questo.»

Swifty si sporse per darle un bigliettino bianco ripiegato e senza fare domande, Junko lo spiegò: un numero di telefono con scritto sotto: "Ricambio il tuo 'grazie' in anticipo, chiamami e fammi sapere come stai".

Lei ci rimase male, Royce se n'era andato senza che lei avesse potuto ringraziarlo di persona. Sentendo le braccia di Proof intorno a lei e la presenza di Kon Artis alla sua sinistra, la sua espressione dispiaciuta si tramutò in confusione. Non aveva più la pallida idea di cosa stesse succedendo; tutti parlavano l'uno sopra l'altro e quel che era peggio, la macchinetta dei battiti era talmente rumorosa da perforarle le orecchie.

Bizarre era ancora nervoso. «Ora ha un pretesto per poterci rompere il cazzo tutti i giorni... Ma sì, fategli pure pagare le spese. Andrà lui in bancarotta, non noi» sbuffò, le braccia conserte come un ragazzino.

«Ora basta, Biz. L'unica cosa che conta è che Junko stia bene e non si sia fatta male.»

L'infermiera rientrò in sala e riprese i visitatori. «Scusate, non è permesso avvicinarsi alla paziente.»

Marshall era rimasto a guardare gli altri attorno alla ragazzina, l'infermiera in carne che leggeva la sua cartella clinica forse per la centesima volta da quando era sdraiata sul lettino. Il suo sguardo si spostò da lei a Junko, e infine su Proof. Non doveva sapere che era Royce ad accompagnarlo a casa dopo quei lunghi mesi rinchiuso nello studio di Dr. Dre a Los Angeles, a creare nuove basi e improvvisare rime cattive, strappalacrime o piene di drammi interiori.

Sarebbe stato come tradire la loro amicizia, e ferirlo era l'ultima cosa che Marshall voleva.



Per passare la serata, Junko aveva ripreso la scatola con le vecchie lettere di Proof – ingiallite per via del tempo. Addosso aveva solo un top sportivo e un paio di slip, a coprirla solo un plaid a quadri rossi. Da quando era tornata dal pronto soccorso, lui le aveva lanciato solo un paio di occhiate prive di qualsivoglia emozione. Ma lei lo conosceva bene: non era in grado di odiare apertamente qualcuno, al massimo si portava dentro un senso di rancore e soffriva in silenzio. C'entrava la presenza di Royce?

Andando più in fondo alla lettera del marzo del 1989, notò un post scriptum scritto con una penna di colore diverso. "So di esagerare con i pugni, Junnie. Per Marshall sono l'amico più caro che ha, l'unico e solo che gli avesse mai voluto bene, e vorrei coprirgli sempre le spalle. Non merita la cattiveria di questo mondo."

Le stesse identiche parole della lettera successiva, e che in quegli ultimi anni stava facendo anche con lei. Junko sentiva di non meritarla, eppure Doody lo faceva più che volentieri. Non voleva ringraziamenti né altro, almeno questo diceva la lettera dell'ultima settimana di maggio del 1988. Lesse qualche altra riga e arrivò verso la fine.

"I professori dicono che ho qualcosa che non va. Ho solo dato una verniciata al muro della scuola per farmi notare dal prof di arte, volevo tanto poter prendere una A+ e farmi vedere da mia madre. Per una volta si sarebbe accorta di me. Secondo te, quello che faccio, è sbagliato? Dimmelo tu, Junnie. Sono così confuso!"

Sapeva quanto sua madre fosse stata assente nel periodo in cui Proof aveva più bisogno, così come non avesse mai conosciuto suo padre. Chiudendo la scatola, vide qualcosa cadere sulla sua coscia. "Chiamami e fammi sapere come stai". Aveva dimenticato di ringraziare Royce per quella lunga giornata al pronto soccorso e tutto il tempo che gli aveva rubato, mentre lei recuperava ossigeno dopo una crisi asmatica.

Trovando il cellulare, si assicurò che tutto fosse tranquillo. Sapeva che Proof era nella sua stanza e non sarebbe uscito di lì fin quando non avrebbe smesso di concentrarsi sulle sue rime. Si alzò e socchiuse la porta, non poteva permettersi di disturbarlo. Tornò sul letto sdraiandosi a pancia in giù, prese coraggio e digitò il numero scritto sul bigliettino, preparandosi psicologicamente. Il telefono squillò per dieci secondi buoni.

«Pronto? Parla Royce.» La voce dall'altro capo della linea gracchiava, colpa della linea telefonica debole.

Lei si presentò con voce bassa, ritrovandosi a balbettare nervosa. «Ehm, Roy... cioè, Ryan, sono... sono la ragazza di stamattina. J-Junko Hamada.»

«Sapevo che eri te, quello strano accento orientale è inconfondibile. Come stai?»

«B-bene. Volevo ringraziarti per tutto, vorrei sdebitarmi in qualche modo.»

«Non voglio nulla in cambio, ju-ju. Posso chiamarti così? Mi è più facile pronunciarlo.»

Quel nomignolo la fece arrossire. «Va bene.»

«Dico davvero, comunque... mi ha fatto piacere aiutarti. Ho visto quanto i Dozen ti sono affezionati e... ehm, senti, non è che ci è proibito parlare? Sai, a qualcuno non sto molto simpatico.»

Quel qualcuno sarebbe potuto essere chiunque. Era chiaro che Marshall non fosse uno di loro, vista l'intesa e come fosse stato fin troppo sciolto in quella stretta fraterna – esattamente come faceva con il suo migliore amico. Kuniva, Swifty e Kon Artis erano stati di parte, mentre Bizarre lo aveva guardato malissimo. Proof, invece... era stato passivo, ma con un velo di rancore negli occhi. Doveva essere successo qualcosa di grave, se il gruppo era così diffidente nei suoi confronti.

Lei cosa poteva saperne, d'altronde? Non erano affari suoi.

«Nessuno ce lo proibisce, Royce, puoi dormire sonni tranquilli.»

«Lo dici a me, che soffro d'insonnia?»

Un sussulto roco la colse di sorpresa. «Oh, cielo, scusa.»

«Non scusarti, sono abituato a queste battutacce. Non sai quante me ne fanno, specialmente sul mio naso a patata. Marshall mi prende sempre in giro chiamandomi 'Potato Man'.»

Junko rise di cuore, contagiando anche lui. Era assurdo che nonostante l'avesse conosciuta da meno di ventiquattr'ore, ci fosse tutta quella sintonia. «Senti, stavo pensando di organizzare un'uscita a quattro: io, Slim, Proof e te. Giusto per passare un po' di tempo fra amici.»

La curiosità crebbe di secondo in secondo. Non sono affari tuoi, Junko... non sono affari tuoi...

«Tu e Doody andate d'accordo?»

Ci fu qualche lungo secondo di silenzio. Anche lei chiamava Deshaun "Doody", esattamente come Marshall – il che era strano, visto che quest'ultimo era sempre stato geloso di quel diminutivo.

«Non come prima, per questo volevo sfruttare l'occasione per farmi perdonare almeno da lui. So che porta facilmente rancore, quando si tratta di fratellanza. Per lui quella parola è sacra.»

Lei non seppe effettivamente cosa fare. «Forse è meglio se ne parli con... con Shady. Io non saprei come...»

«Sì, hai ragione.» Seguì un'altra lunga pausa, condita con un pizzico di imbarazzo. «Ti lascio dormire. Sarai stanchissima, immagino.»

Lei sbadigliò per riflesso. «Buonanotte, Royce, e grazie di tutto.»

«È stato un piacere, ju-ju. Buonanotte.»

Junko riattaccò e quando abbassò l'antenna sottile del cellulare, avvertì un brivido freddo lungo la schiena. Era in procinto di prendere l'inalatore da sopra il comodino, ma accorgendosi della luce provenire dal corridoio e guardandola spegnersi, le si strinse la gola. Qualcuno l'aveva ascoltata parlare. Si portò l'inalatore fra le labbra per riprendere fiato, scese dal letto scalza e con il plaid addosso, uscì dalla stanza. Marshall non era in casa – di sicuro non sarebbe tornato, viste le numerose volte che andava e tornava dalla sua ex – e la porta della stanza di Proof era aperta. Non era seduto davanti la scrivania.

Camminò a passo lento verso il soggiorno, mordendosi nervosamente un'unghia. Lo trovò chino sul tavolino a buttare giù qualche rima sul suo quaderno dalla copertina bianca. Quando Junko lo vide rialzarlo per leggere, notò il cane stampato sopra e inarcò leggermente l'angolo destro delle labbra: il cane era quell'insieme di fogli spiegazzati su cui scriveva le frasi più importanti. Jun non aveva idea di come fermare quella specie di presentimento che le stringeva lo stomaco ogni volta che qualcuno la ignorava.

Specialmente se quel 'qualcuno' era Proof.

«Sei ancora in piedi?» esordì a bassa voce,

«Non ho sonno» rispose in tono monocorde. «Forse scrivere un po' mi prosciugherà le energie.»

«Se smettessi di bere Red Bull, sarebbe meglio.»

«Prima la birra non andava bene, ora neanche questo... e che palle!»

Lei ridacchiò, ma il suo sorriso si capovolse pochi secondi dopo. Non lo aveva detto con il solito tono giocoso. La cosa preoccupò Junko, Proof non era mai stato così freddo e distaccato. Fece un passo in avanti nella speranza che girasse il collo per guardarla, ma così non fu. Il suo sguardo era fisso sul foglio a righe del quaderno, le frasi scritte con la penna blu.

«Non mi convince abbastanza. Tu cosa cambieresti?»

Jun cominciò a leggere le prime frasi. Il modo in cui Proof scriveva le consolanti era pari alla disgrafia per quanto traballante, spesso si confondevano fra loro ed era difficile leggerle. "Ultimamente sono fortunato, non odio che mi tocchino. Forse sono brutto dentro, ma sorrido per farcela". Aveva così tante domande che solo pronunciarle le risultò impossibile. E se si fosse offeso? Decise di cambiare le carte in tavola e indicò il terzo paragrafo.

«Che frase è questa?» domandò lei, indicando la seconda strofa.

«"È come se mi fossi perso e trovassi solo demoni".» pronunciò quelle parole lentamente, con un velo di emozione. «Spesso dietro un sorriso c'è sofferenza. Ci mostriamo felici, quando in realtà vogliamo solo annegare nell'oscurità.»

«Sorridi per proteggere chi ti sta intorno, non augureresti mai ad un'altra persona di vivere così. Preferisci sacrificarti anziché vivere.»

Proof si era voltato per guardarla e Junko se ne accorse. Cercò di mostrare il sorriso più dolce che aveva, ma probabilmente sarebbe uscita soltanto una smorfia storpiata. Lei non sapeva sorridere spontaneamente, era già tanto se era stata capace di sforzarsi. «Voglio dire... so come ci si sente.»

«Allora dovresti capire anche me.»

La sua affermazione la lasciò sbigottita. Il suo sguardo era gelido, come se la colpa fosse stata sua. Nascere con problemi respiratori non era di certo colpa sua, né tantomeno svenire. Avrebbe voluto gridarglielo in faccia nello stesso modo in cui aveva fatto con Marshall, ma il buonsenso glielo impedì. Dopo tutto quello che Proof stava facendo per lei e che stava continuando a fare, quello che avevano fatto la notte del suo compleanno... lo aveva forse dimenticato?

'Fratellanza'... per lui quella parola è sacra.

Ricordando le parole di Royce, Junko ripercorse il tratto fino alla sua stanza e senza voltarsi. Sospirò e si toccò nervosamente i capelli, lanciando un'occhiata furtiva al tavolino dov'era seduto Proof e scoprendo con sua grande sorpresa che era sparito. Si sentì profondamente in colpa per aver preso in mano il cellulare; non lo era per davvero, eppure non riusciva a farne a meno.

«Non sai mai quanto sia buona una persona, fin quando non vedrai la medaglia girarsi.» La voce di Proof la spaventò, nonostante fosse pacata come tutti i giorni. Ma in quel preciso momento era talmente seria e ferma da farle accapponare la pelle.

«Perché mi stai facendo questo discorso?»

Per proteggerti. – «Perché è la prima regola per sopravvivere.»

Quel maledetto verbo, "sopravvivere". Anche lui lo stava usando, e involontariamente nello stesso contesto. «Stai attenta a chi incontrerai nella vita. Chiunque sarebbe capace di tradire la tua fiducia. Se perdoni una volta, può farlo di nuovo.»

D'un tratto Junko avvertì una stretta nella parte bassa della pancia, e dovette serrare le mani l'una nell'altra sotto il plaid pesante. Aveva capito chi era dall'altro capo della linea. Stava per aprire bocca e dire quel nome, quando Proof la interruppe. «Non lasciare che qualcuno ti renda infelice.»

«Io sono felice» ribadì, per poi girarsi e guardarlo con l'espressione più carina che poteva fare. Quel dolce sorriso di una ragazza che aveva trovato la pace interiore attraverso un'azione, una frase o il solo pensiero.

"Sorridi per proteggere chi ti sta intorno".

E tu vorresti proteggermi? Da cosa?

Secondo le altre persone, chi soffriva dentro, non poteva essere in grado di sorridere in quanto biologicamente impossibile. Si sorrideva meccanicamente come androidi, soltanto per nascondere il dolore che si aveva in corpo. Lui non rientrava in quella categoria, ma lei... lei forse sì. Gli era bastato sentire quelle parole per averne la certezza.

Si guardarono per l'ultima volta e chiusero le porte delle loro stanze. Proof si gettò sul letto, facendolo cigolare pericolosamente e strinse un pugno. Aveva attirato anche la sua attenzione fingendo di essere freddo, ma non era stato abbastanza. La gelosia era ancora lì, rinchiusa nel suo cuore.

Sapeva quanto il suo 'far del bene', in realtà, fosse legato ad una sorta di disturbo comportamentale.

Sapeva bene quanto il suo cercare attenzioni fosse distruttivo, sia letteralmente che emotivamente.

Sapeva che tutta quell'energia e allegria che mostrava, lo portava ad avere sempre più attenzioni su di sé.

Era rispettato, ma la gente non era in grado di vedere l'altra faccia della medaglia. Junko era cieca quanto loro. Tuttavia, a lui importava che lei fosse ancora con lui e non averla persa di vista neanche un secondo. Era stato felice di sapere che quell'attacco d'asma non fosse stato letale, ma detestò il fatto che Royce avesse avuto la faccia tosta di aiutare Jun con le spese mediche.

Non poteva impedirle di relazionarsi con gli altri. Lei non aveva a che fare coi loro screzi ed era giusto che avesse le proprie amicizie, anche con chi non lo meritava.

Se si potesse fare, potrei imparare ad amarmi attraverso te.

Avrebbe fatto comunque male.

E tu potresti imparare ad amarti attraverso me.

Un male cane.

Dopotutto... siamo uguali, vero?



N.A.

Hellooo! Come state? Spero bene :3

Perdonate il ritardo, ma sono successe tante cose. Prima fra tutte, la Vita Reale. Seconda, le nuove norme di Wattpad che mi hanno un po' bloccata. Infatti non sapevo se postare o no questo capitolo, dal momento che temevo per l'addio definito di questa storia. Come però avevo scritto nelle premesse iniziali, i protagonisti hanno più di 21 anni e non ci sono controversie di alcun tipo. 

Tornando al capitolo, avete conosciuto Royce Da 5'9'', aka il cattivo del duo. Vi consiglio di recuperare qualche suo brano per farvi un'idea di lui, vi posso assicurare che il suo stile non è affatto male. Specialmente nell'album dei Bad Meets Evil. E dopo questa entrata in scena, penso siate riuscit* a cogliere qualche segnale in Proof.

Le litigate fra i Dozen e Royce sono accadute veramente, ma non le menzionerò per rispetto (anche se avessi saputo effettivamente cosa fosse successo). Dal prossimo capitolo si parlerà di un tema particolare che non ho citato nelle premesse, presa direttamente da una canzone di Eminem. Farò il possibile per portarvelo prima del tempo, anche perché l'ho già avviato. Sarà difficile, visto il tema che affronterò, ma non mi arrenderò.

Detto ciò, vi do appuntamento al capitolo 13. Shaka-brah!

- Gloria -




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